Usa: così diversi quei preti del Concilio

| 0 comments

Maria Teresa Pontara Pederiva in “Vatican Insider” del 15 marzo dà conto dell’ultimo studio sulla condizione dei preti americani e di alcune interviste a sacerdoti in occasione del 50° anniversario del Vaticano II, pubblicati sul “National Catholic Reporter”. Dice uno dei preti “conciliari” intervistati: “Per molti versi tutto è ritornato ad essere gerarchico e autoritario in direzione top-down. Tutto proviene da Roma, i vescovi sono nominati senza consultazioni in loco. C’è una sorta di enfasi sull’ortodossia e sulla fedeltà al magistero, soprattutto quello del papa, com’era negli anni precedenti al Concilio. L’accento è sulle persone a misura della Chiesa, piuttosto che una Chiesa a misura delle persone. Ma oggi c’è un sempre maggior clericalismo da parte dei preti più giovani”.

Franco Garelli ci informava qualche giorno fa da sociologo, sul Bollettino Salesiano in uscita a marzo, dei molti perché del calo delle vocazioni sacerdotali e religiose in Italia. “Nel rispondere a questa domanda, la gente non individua un fattore prevalente, ma chiama in causa una serie di ragioni concomitanti. Tra queste, due spiccano con maggior evidenza: il «non potersi sposare e avere figli» (sottolineata dal 34,6% dei casi) e il dover «rinunciare a troppe cose» (32,8%). L’etichetta della rinuncia è dunque fortemente appiccicata alla condizione del prete o alla vocazione religiosa, sia per la norma della chiesa di Roma che prevede il celibato del clero, sia per il minor grado di libertà e di autonomia in genere attribuito a chi compie questa scelta di vita. L’idea di sacrificare una parte vitale di se stessi – vuoi rinunciando a un legame affettivo, a una vita di coppia, all’esperienza della paternità, vuoi limitandosi nelle proprie possibilità espressive – risulta assai ostica alla sensibilità attuale, che mira a un modello di realizzazione vario e articolato, orientato a non precludersi opportunità in tutti i campi dell’esistenza”.

 In ideale continuità è uscito ieri negli Stati Uniti l’ultimo numero di “National Catholic Reporter”, con la presentazione dell’ultimo studio sulla condizione dei preti americani e alcune interviste in occasione del 50° anniversario del Vaticano II.

Aumenta l’età media

Le coincidenze: se in Italia già nel 2003 l’età media era di 60 anni (di cui il 13% formato da ultraottantenni e solo meno del 19% con un’età inferiore ai 40 anni), negli Stati Uniti è oggi l’invecchiamento il dato più eclatante del clero che ha raggiunto ora l’età media di 59 anni (nel 1970 era di 45 con un aumento del 31%). Senza 8 per mille, l’effetto dell’aumento dei preti anziani si riversa quindi sulle diocesi e sulle comunità cristiane che debbono farsi carico della loro cura. Nel 1970, scrive Dan Morris, meno del 10% dei preti superavano i 65 anni, oggi sono oltre il 40%. Lo studio evidenzia come nel frattempo l’età media dei professionisti, come medici o avvocati, sia aumentata solo del 3-5%.

Uno studio più recente, curato dal CARA (Centro per la Ricerca Applicata all’Apostolato) di Washington DC, Georgetown University, con un altro metodo di campionamento, dà un’età media ancora superiore: 64 anni. I dati di queste ricerche sono contenuti in un libro che sta per essere pubblicato e che ha per titolo: Same Call, Different Men: The Evolution of the Priesthood Since Vatican II (Stessa chiamata, ma uomini diversi. L’evoluzione del presbiterato dal Vaticano II in qua). “E’ difficile pensare ad una “professione” che abbia cambiato così radicalmente i connotati in questi ultimi quarant’anni – ha scritto Stephen J. Fichter, coautore della ricerca e prete dell’arcidiocesi di Newark, New Jersey – se è possibile fare un raffronto, l’unica professione che è cambiata in queste dimensioni, forse di più, è quella religiosa”.

Cambia la sensibilità

Il settimanale americano anticipa anche alcune considerazioni contenute nel testo. Aumenta anche l’età dell’ordinazione: oggi i giovani hanno già conseguito una laurea o hanno esperienza lavorativa prima di entrare in seminario. Cambia anche la percezione del Vaticano II: i nuovi ordinati tendono a considerarlo che un “evento storico” piuttosto che qualcosa da vivere in prima persona.

Ma i nuovi ordinati si percepiscono – a differenza delle generazioni precedenti – in disparte rispetto alla società. I preti nati fra il 1943 e il 1960, chiamati “quelli del Vaticano II”, sono stati fortemente incoraggiati nella loro vocazione da familiari e comunità che guardavano al prete come ad un servo-leader nella promozione degli ultimi della società. I preti degli ultimi 20-30 anni tendono a sottolineare l’ortodossia teologica, si considerano forse più felici rispetto ai preti del Vaticano II ed esprimono maggior apprezzamento nei confronti della gerarchia.

La voce di alcuni “preti del Concilio”

A commento dei dati, in particolare riguardo alla loro percezione del Concilio, di quello “spirito del Vaticano II” come viene comunemente chiamato, prendono la parola alcuni preti americani ordinati in quegli anni. Il comune sentire è una preoccupazione per quelle troppe porte e finestre che il Concilio aveva spalancate, ma che successivamente sono state accostate, socchiuse o sprangate. Nello specifico vengono citati il ruolo della leadership della Chiesa, lo stallo nel dialogo ecumenico, il tramonto della collegialità episcopale, il ruolo delle donne di là da venire, l’attuazione della riforma liturgica e molto ancora.

Una voce autorevole è quella di Thomas Reese (ordinato nel 1974, era entrato nei Gesuiti l’anno di apertura del Concilio, direttore della rivista “America” fino al 2005, quando si è dimesso): “Eravamo chiusi in seminario senza aver notizie di quanto accadeva. Quando abbiamo sentito parlare del Concilio siamo andati a chiedere al nostro superiore il permesso di avere copie dei documenti. Ci è voluto un incontro dei consultori per accordarci il permesso, escludendo dalla lettura tutti gli altri seminaristi. Nel giro di un mese erano diventati una lettura obbligatoria”, spiega sorridendo. “Oggi il timore non è tanto che sia stato messo un freno, quanto piuttosto si sia ingranata la retromarcia”.

Più pessimista Severyn Westbrook (ordinato nel 1962, diocesi di Spokane nello stato di Washington): “Sembra che tutto sia già risolto, che le persone debbano imparare innanzitutto la verità e tutto è finito lì. È questo il panorama dominante. Ma la Chiesa deve essere un qualcosa di vivo e vitale. Dobbiamo essere un organismo o un’organizzazione? Nel 1982 gli era stato chiesto uno studio sul celibato dei preti e sul fenomeno dei preti sposati, ma l’argomento non è mai stato inserito nell’odg della Conferenza Episcopale. Non ho perso la speranza perché confido nello Spirito Santo, ma i giochi mi sembrano truccati”.

Rispetto ai loro “colleghi” più giovani ciò che emerge è la loro disponibilità ad aprire ai laici affidando anche ruoli di responsabilità. “Siamo i preti della Gaudium et spes”, ha dichiarato Eric Hodgens in un saggio di due anni fa. Gary Lombardi esercita il suo ministero a Petaluma in California, dopo aver diretto per 16 anni la formazione dei preti nella diocesi di Santa Rosa: “Per molti versi tutto è ritornato ad essere gerarchico e autoritario in direzione top-down. Tutto proviene da Roma, i vescovi sono nominati senza consultazioni in loco. C’è una sorta di enfasi sull’ortodossia e sulla fedeltà al magistero, soprattutto quello del papa, com’era negli anni precedenti al Concilio. L’accento è sulle persone a misura della Chiesa, piuttosto che una Chiesa a misura delle persone. Ma oggi c’è un sempre maggior clericalismo da parte dei preti più giovani”.

Concorda Norbert Dlabal, parroco del Kansas dopo 5 anni di missione in Perù: “La nuova generazione dei preti sembra voglia alzare un muro fra loro e i laici” e sottolinea come quell’affermazione “l’ordinazione conferisce al prete un nuovo status che lo rende sostanzialmente diverso dai laici all’interno della Chiesa” trovi il consenso del 48% dei preti pre e post Vaticano II, mentre i preti del Vaticano II si fermano al 36%. “Anche l’abito fa la differenza: oggi se indossi un colletto romano sei docile e affidabile, ma se scegli una camicia colorata e lasci la tonaca nell’armadio, sei già considerato un traditore”. E poi i preti del Vaticano II sembrano più disposti a discutere apertamente del ruolo delle donne nella Chiesa, come di altre questioni, come l’accoglienza di gay e lesbiche, il tema della scienza. “La Chiesa non ha ancora preso in considerazione l’idea di dover trattare con un laicato di cultura, un laicato adulto – aggiunge Reese – si pensa ancora ad un Vaticano che tratti tutti gli altri come dei figli adolescenti o anche sotto. Se si grida più forte, forse ascoltano. Ma tutto ciò che la Chiesa ha bisogno di sviluppare è un insegnamento che sia significativo per il XXI secolo, non il XIII”. Una “teologia creativa” è quanto auspica Pettingill, rispetto ad una “esegesi di documenti” papali. E la vicenda della nuova traduzione inglese del Messale Romano è un campanello d’allarme: “si è solo voluto far capire chi è che comanda. Nessuno ha chiesto alla gente cosa ne pensasse, non sono stati neppure consultati i vescovi sugli ultimi cambiamenti”. Da ultimo ricordano quanto affermato da un giovane teologo invitato al Concilio di nome Joseph Ratzinger: “Per molte persone oggi la Chiesa è diventata il principale ostacolo alla fede”. Ed era il 1963.

Lascia un commento

Required fields are marked *.