Sviluppo e crescita per rilanciare l’integrazione europea

| 0 comments

La crisi del debito sovrano in Europa, dopo aver inferto colpi pesanti allo stato sociale nei nostri paesi, rischia ora di mettere a repentaglio i risultati dello stesso processo di integrazione europea: il benessere e il  mantenimento della pace fra i paesi del vecchio continente. Non si tratta di un allarme senza fondamento. Già al momento della nascita dell’euro, alcuni economisti anglosassoni lo avevano previsto, e a ragione, visto che l’esperienza degli Stati Uniti insegnava loro come doveva funzionare un’unione monetaria fra regioni o stati diversi a livello di un intero continente.

Per poter operare senza scosse un’unione monetaria richiede, fra le altre cose, la presenza di un meccanismo di assorbimento automatico degli shock che colpiscono singoli paesi, ovvero un bilancio accentrato a livello dell’unione che possa trasferire in modo automatico risorse in termini netti verso di essi. Se l’Ohio entra in recessione, il bilancio federale automaticamente aumenta i trasferimenti a vantaggio dei suoi disoccupati, mentre le imposte che colpiscono i suoi cittadini, in modo altrettanto  meccanico, si riducono. Ora, nella zona euro un bilancio del genere non esiste e anche nella stessa UE il bilancio ha un peso inferiore all’un per cento del reddito dei 28 paesi, ossia è del tutto insufficiente per esercitare gli effetti di stabilizzazione appena illustrati. Sulla base di queste premesse, Milton Friedman, il decano degli economisti neoliberisti americani, aveva scritto che il progetto della  moneta unica era insostenibile sotto il profilo tecnico e che, mosso dall’ambizione di portare all’unità politica dell’Europa, con il suo prevedibile fallimento, avrebbe ottenuto il risultato del  tutto opposto: il blocco del processo di integrazione. Martin Feldstein si era spinto oltre, e dopo aver osservato che la pace in Europa stava durando un numero di anni simile a quelli trascorsi fra la fine del conflitto del 1870 tra Francia e Germania e l’inizio della prima guerra mondiale, si era spinto a pronosticare che il crollo dell’euro avrebbe rimesso in discussione il mantenimento della pace fra i due paesi.

E’  probabile che queste previsioni fossero infondate, ma solo in parte. Intanto è vero che l’eurozona ha smesso di funzionare regolarmente e ha corso il rischio di saltare per aria. La crisi economica globale, partita negli USA, si è trasmessa alla banche europee e di qui agli stati, le cui finanze hanno cominciato a scricchiolare. Ma se i paesi dell’euro avessero corretto il difetto di nascita dell’unione monetaria, la circostanza fondamentale che una moneta senza stato alla lunga non può esistere, gradualmente tutto si sarebbe aggiustato. Cosa hanno fatto invece? Hanno esautorato l’UE, il cui funzionamento fornisce un minimo di controllo democratico sul processo di integrazione, e hanno affidato la risoluzione della crisi al metodo intergovernativo, ossia a trattati fra stati sovrani, dove il peso della Germania ha finito per imporre a tutti la politica suicida dell’austerità.

Peccato che l’austerità possa distruggere lo stato sociale, come è avvenuto in Grecia, o possa metterlo in pericolo, come è accaduto in Italia, ma non sia in grado di risolvere il problema dell’indebitamento, come già Fisher aveva visto negli anni Trenta a proposito della Grande Depressione del secolo scorso: se tutti tagliano la spesa pubblica, il reddito crolla, e il debito, in rapporto al PIL, non scende. E in effetti, la zona euro è entrata in recessione e nei paesi della periferia il peso del debito è sempre alto o è cresciuto. Per l’Italia il debito era pari al 120 per cento del PIL quando la crisi del debito sovrano si è estesa al nostro paese, e oggi sfiora il 133 per cento.

Risultato: sotto il profilo economico l’eurozona non è fallita, ma solo perché è intervenuta la Banca centrale che ha congelato la crisi promettendo di acquistare quantità illimitate di titoli dei paesi periferici, ed essa non è affatto superata; sotto il profilo politico l’euroscetticismo sta dilagando a causa dei danni provocati dalle politiche di austerità, rischiando di far crollare non solo l’eurozona, ma lo stesso processo di integrazione.

Come se ne esce? Se l’obiettivo dello stato federale europeo ha ancora un senso, come credo – se non altro per ragioni di carattere storico generali, come afferma Zygmunt Bauman -, bisogna sostituire le politiche di austerità con politiche di rilancio della crescita, con interventi a livello dell’intera eurozona, accelerando nel contempo il passaggio a forme di unione più avanzate sul piano fiscale (eurobond) e della democrazia europea.

 

Franco Praussello

Università di Genova e di Parma

 

Lascia un commento

Required fields are marked *.