Solo a chi cammina s’apre il cammino

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Ho letto la rassegna di articoli proposti qui sul portale, nel post “Intorno al cattolicesimo politico (e intorno al PD)”: dico in premessa che la parte fra parentesi mi pare notevole, dirò poi il motivo.

Bene ha fatto Melloni a porre, brutalmente ma con guanti di velluto, la questione; le cui implicazioni di ordine pratico mi sembrano però sempre troppo poco esaltate. Si, perché tutto sommato i ragionamenti sulla politica si confrontano spesso con degli elementi pratici, che però vengono più o meno volutamente ignorati, o si finge di dimenticare:
è più sbagliato fare un partito cattolicamente connotato (almeno su questo, dossettianamente parlando, sono tranquillo: non l’abbiamo mai voluto) o più inopportuno che i cattolici, per quel che valgono e possono fare, provino a fare un partito?

Non saprei dare una risposta, ma credo dipenda molto da elementi pratici: qual è il personale politico? Quali sono le condizioni con cui ci si confronta? Quale particolare valore ideale è rintracciabile in una corrente di pensiero rispetto alle condizioni date?

In questo anello intrecciato, trovare il filone giusto è spesso difficile.
D’altro canto, rispetto a questa questione, a lungo in area milanese, ci siamo confrontati: o meglio, è una questione su cui ho avuto la fortuna di imparare qualcosa da persone molto più esperte e preparate di me.

Il rischio, che non vorrei corressimo, è di giudicare non l’albero, ma addirittura il seme, dai frutti: i cattolici sono stati politicamente irrilevanti per decenni; e non quanto al peso specifico, semmai in qualche caso decisamente sproporzionato rispetto alla consistenza elettorale, ma proprio sul versante della proposta politica.
Ora, c’è una fibrillazione, segnala Melloni.

Vero.
Con tanto di impietoso confronto rispetto le basi otto-novecentesche del cattolicesimo politico; giusto anche quello.
Va però detto che, a onor del vero, di “slanci” verso una nuova soggettività dei cattolici in politica, periodicamente se sono visti tanti. Ora invece si vedono non una, ma tre ipotesi con un minimo di concretezza. Cioè, non sembrano né proclami, né scissioni, né rassembramenti, ma esperienze; con un grado di solidità e di novità valutabili solo, credo, empiricamente.

 

E’ proprio necessario, sebbene con le migliori, riconoscibili, intenzioni, spingersi a valutare i frutti dalle mani dei seminatori? E, più concretamente: c’è qualche danno possibile che le nuove formazioni possono infliggere a quelle esistenti, o è invece possibile che la somma non sarà “zero”, ma positiva?

Una volta, tre anni fa (forse lui lo ricorderà) chiacchierando con uno dei nostri più lucidi esponenti (ancorché non più nella politica attiva da anni), gli rovinai addosso un po’ di disappunto mio personale: “P., il PD non può andare avanti così, ha bisogno di alleati”.
“E dove li prende?” fu la sua chiara risposta.
“Se non ce ne sono, se li può magari costruire; ma ne ha bisogno.”

E veniamo al punto: cioè, al punto che personalmente mi riguarda: si, perché della eventuale collocazione di un partito di cattolici si potrebbe dibattere a lungo come, del resto, si è dibattuto a lungo anche proprio della vocazione, maggioritaria o meno, del PD. Come se fosse auspicabile o consigliabile per un partito come il PD non avere una vocazione maggioritaria, qualunque cosa questo significhi.

Il guaio è che se n’è discusso fino allo sfibramento, come modo per discutere insieme: linea politica, orientamento geografico, legge elettorale, riforma della Costituzione, europeismo e forse dimentico ancora qualcosa…ah sì: persona e connotati del leader, rapporti tra questo e i gruppi dirigenti/le correnti. Decisamente troppo.
Col risultato di non venire a capo di nulla e di essere finiti a fare ugualmente delle “coalizioni”, variamente composte e dalla dubbia tenuta (della lealtà interna non parliamo nemmeno).

Ecco dunque che i ragionamenti sui massimi sistemi si scontrano con elementi di carattere prettamente pratico: con quello cioè che abbiamo sotto gli occhi, ciò che a seconda del modo e del tempo può essere differentemente ostacolo, o invece risorsa.

Quella che Melloni chiama, forse troppo severamente ma tenderei a fidarmi, fibrillazione, ha prodotto tre elementi visibili: questo, se non dice molto sul futuro, può però servire a dire che, rispetto al passato, si vede qualcosa di più concreto.
Forse non è nemmeno questa la volta buona, e forse non lo sarà mai.

Tuttavia, quel campo ostico che è la politica, per quel che possiamo fare noi, tocca per forza seminarlo e lavorarlo, per aspettare i frutti.
E se è vero che si sbaglierebbe ad arrangiare ipotesi poco credibili, è però anche vero che stare a guardare non è sempre possibile, ci sono delle volte in cui devi proprio provarti a fare, o tutto quello su cui hai ragionato e lavorato si smentirà da solo, nella tua stasi.

L’esistenza “intorno al PD” di altre, minoritarie ipotesi politiche, non è per forza di cose negativa né a somma zero: può quantomeno valere a condurre il pivot di una squadra a confrontarsi con proposte e idee di sostanza; e lo vale in effetti, se gli interlocutori hanno una propria credibilità, essendo magari composti da persone con un proprio vissuto nella società e nell’economia (un po’ come le persone che diedero vita al primo partito dei cattolici, un secolo fa).
Se pesi tre su cento e però giochi in una squadra, e quella squadra vince, vinci anche tu.
Certo, sul come la squadra si compone, e come funziona, bisogna dire ancora tutto, ma cominciare dal praticare qualche schema di gioco non sarebbe male.
Qualcuna di queste ipotesi magari andrà avanti, qualche altra no, magari tutte e magari nessuna. Magari se ne faranno altre e magari invece il cattolicesimo politico sarà (e senza il sostegno pastorale della Chiesa, lo sarà di sicuro) travolto definitivamente dalla storia.
O magari no; ma tutto quello che sarà lo sapremo solo dopo.

Ma, se è giusto prendere con la dovuta prudenza (Monaco la chiama scetticismo) il ventinovesimo tentativo di rifare un partito cattolico-o-dei-cattolici, e metterlo preventivamente davanti all’ imperativo di non essere una cosa poco seria, altrettanto doveroso da parte mia è evidenziare che, e qui cito Giovanni Bianchi in “E’ così stupido vivere di carta” : solo a chi cammina, s’apre il cammino.
La formazione, cui ci richiama giustamente Follini, la facciamo, l’abbiamo fatta per anni. Una ventina. Spesso con pochissima collaborazione da parte dei partiti esistenti.
E sappiamo d’averla fatta, pur nelle nostre contraddizioni, con scienza e coscienza.
Spontaneamente, a spese nostre, imparando noi stessi dalla materia su cui lavoravamo.

Oggi nel PD si parla di rifare una scuola politica, ciò che i suoi gruppi dirigenti hanno volutamente snobbato fino ad ora. Ormai anche “formazione” è diventato un termine che vuol dire poco: qual è l’obiettivo? Chi sono i formati? Cosa ci si aspetta da loro? E i  formatori? Qual è la cultura di riferimento e quali i rapporti con l’esterno? Che tipo di formazione?
Se è in combinato disposto con l’idea di un nuovo organo di stampa, e con le modifiche allo statuto, direi che l’idea è chiara e differente dalla nostra.

Fatta in una certa maniera, una scuola di politica può arrivare a importi lei, di trovare e praticare le soluzioni. Ti corregge il tiro e ti impone di fare, perché a un certo punto le persone le mani se le vogliono sporcare e allora devi sporcartele anche tu; o non insegni più nulla, ed anche quello che hai insegnato vale di meno.

Giudico perciò molto positivamente queste fibrillazioni, e, parlo sinceramente, tutte incontrano la mia simpatia al di là dei singoli e delle loro carriere (ci mancherebbe altro che la politica non fosse animata anche dalla volontà personale di affermarsi); al di là del contenuto, al di là della scelta di campo che faranno, incontrano la mia simpatia per il solo fatto che esistano e provino a dire “noi ce l’abbiamo, qualcosa da dire in questo immenso cambiamento d’epoca”. Ecco, l’unica cosa veramente importante, è che qualcosa da dire ce l’abbiano per davvero; meglio ancora se non ce l’avevano e gli è venuta con un lavoro, di pensiero o di azione, una ricerca, una serie di tentativi falliti: se guardo al “deserto” che abbiamo attraversato, la parte contingente della politica mi spinge a dire che l’ importante è che ce l’abbiano ora, per l’oggi e per almeno un pezzetto di domani.
Se sentono di avercela, allora questa è la loro occasione.

E se, la chiudo di nuovo con Dossetti, la politica è occasione e qualcuno sente la chiamata, allora forse è il caso di seguirla: i talenti nascosti non servono a nulla.

 

Luca Emilio Caputo

Presidente del Circolo Dossetti di Milano

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