Senza la giustizia non ci resta che una religione consolatoria

di Ettore Masina, in “Jesus” n. 2 del febbraio 2012

Nel 1868 scoppiò in Sardegna una violenta ribellione popolare contro le nuove leggi agrarie. Il grido dei rivoltosi era: «Tornaus a su connottu!», vale a dire «Torniamo al conosciuto», a quello che c’era «prima». Le nuove leggi, infatti, sconvolgevano l’antico assetto fondiario, e la grande maggioranza della popolazione, di fronte a mutamenti che le risultavano incomprensibili, si sentiva smarrita e indifesa. Penso che un sentimento del genere sia assai diffuso oggi in Italia: che vi siano milioni di cittadini frastornati dai mutamenti imposti dalla crisi; e che quando cercano di capire perché d’ora in poi debbano vivere ben peggio che quindici anni fa, riescono soltanto a percepire la micidiale potenza di oscure forze che costringono i più poveri a pagare le conquiste sociali ottenute, con durissimi sacrifici, nei secoli passati.

Non c’è dubbio che il potere di quello che cinque Papi hanno definito «imperialismo internazionale del danaro» si è fatto, in questi anni, più efficace (e pericoloso per chi crede nella dignità dell’uomo), sia per l’uso di tecnologie che sino a poco tempo fa non esistevano, sia con l’introduzione nel mondo dei mercati di strumenti ideologici come le agenzie di rating, specie di raffinate degenerazioni del Fondo monetario internazionale ormai assurte al grado di giudici senza appello dell’economia dei singoli Stati; mentre appare evidente che la desolata constatazione di Paolo VI ai margini del Concilio («I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri») va completata da un’altra evidenza: «I ricchi diventano sempre più pochi». È andata concentrandosi, ai vertici di una struttura parallela a quella degli Stati, una «cupola» fatta di pochissime persone, capaci di muoversi unitariamente con la forza e il cinismo di una mafia di inedite proporzioni. Per esempio: secondo credibili indagini, non più di dieci persone hanno nelle loro mani il commercio alimentare mondiale e lucrano sulle carestie, le guerre, le calamità naturali — e la fame delle vittime.

Le nuove regole imposte agli Stati hanno una dura valenza nei Paesi sviluppati; ma nei confronti degli Stati poveri la violenza è devastante. È dunque un nuovo appello che la storia lancia alla Chiesa. Al centro del Vangelo sta l’esigenza di una fraternità universale, una difesa intransigente della giustizia, senza la quale la nostra fede è una religione consolatoria incapace di vedere oltre le paure e i dolori personali.

Sembrerebbe dunque ovvio che una realtà del genere mobilitasse le energie spirituali e culturali dei cristiani; che in tutte le loro assemblee quello dell’ingiustizia internazionale fosse il tema prioritario. Ma è proprio così?

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