Quelle donne che chiedono giustizia, lo fanno anche a nome nostro

| 0 comments

Le donne che chiedono verità e giustizia. La reclamano con forza dal profondo del loro dolore. Che ci appare sulle pagine dei giornali o in servizi televisivi, e parla a tutti noi, perché è straziante e pacato insieme, alto e dignitoso come solo quello di una donna sa essere quando invoca con fermezza un motivato perché.
Eppure c’è chi, confidando in quel cinismo contemporaneo che tutto pialla, continua impunito ad offendere…
Sono Patrizia Moretti Aldrovrandi, madre di Federico; Ilaria sorella di Cucchi; Mara e Lucia, sorelle di Giuseppe Uva; Ornella Gemini, madre di Niki; Giuliana sorella di Riccardo Rasman; Martina sorella di Simone La Penna; Carmela sorella di Stefano Brunetti; Domenica figlia di Michele Ferrulli. Mi scuso se ne dimentico qualcuna, ma l’elenco è lungo…
Sono donne che hanno perso un loro caro che, fermato o arrestato dalle forze dell’ordine, ha trovato la morte in modo brutale, e non per un incidente, in poche ore. Sono tanti, troppi, negli ultimi anni. Percossi, massacrati di botte, insultati, e uccisi, in una serie di episodi con un’impressionante sequenza di elementi simili. Prima e dopo il delitto: chiusura a riccio delle istituzioni, denigrazione della vittima, depistaggi, bugie, uso spropositato della forza in tanti contro uno, arroganza, nessun piccolo segno di pentimento, nessuna scusa o riconoscimento di errori e persino minacce verso i parenti che vengono invitati a “non fare casino”, altrimenti è peggio. Peggio di cosa, della morte di un figlio di 19 anni?! Tante piccole Bolzaneto o Diaz, con l’aggiunta del sostegno spesso omertoso di chi dovrebbe svelare la verità.
In alcuni casi, non senza enorme fatica, i processi verso coloro che sono stati ritenuti responsabili, sono andati in porto con le condanne. Ma in gran parte gli autori hanno scontato pene lievi o nessuna e sono tornati in servizio. Fino all’episodio clamoroso dell’applauso a scena aperta di solidarietà tra colleghi in una riunione sindacale.
Ora si torna a parlare di quella sigla di sindacato di poliziotti perché il loro leader ha deciso di querelare la madre di Federico Aldrovandi, perché lo ha definito stalker, “torturatore morale”. La signora Moretti, tra l’altro, è stata già assolta da una precedente querela per diffamazione perché ha sempre e solo mirato a difendersi (con durezza ma con altrettanta civiltà) dalle accuse che partono dall’affermare che sta cavalcando per suoi interessi l’assassinio del figlio fino a dire che quella foto, che mostra il volto del giovane tumefatto dalle botte, è solo un fotomontaggio!
“Ostentazione di un’umanità cieca e doppiamente scandalosa”, un “muro di silenzio misto a ostilità”, violenza distillata quotidianamente, incapacità di cogliere la sofferenza, il dolore: così il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, che aggiunge: “Lo Stato acquista la sua legittimazione giuridica proprio quando un corpo, ancor di più se debole e smarrito, è affidato ad esso. E’ intangibile e va difeso. Se invece accade qualcos’altro e di molto grave, è lo Stato stesso che perde legittimazione”.
Per questo è fondamentale che sia fatta giustizia nella verità; per questo è importantissimo che le persone che subiscono un torto così grande siano trattate con rispetto e delicatezza, perché oltre al dolore immenso della perdita rischiano anche di abbandonare qualsiasi certezza nello Stato di diritto e quindi nella regola di fondo della comunità alla quale appartengono; per questo, ancora, è decisivo che chi ha sbagliato paghi.
Sono convinto – e lo sottolineo con forza – che la maggior parte delle forze dell’Ordine, anzi la parte preponderante, fa il proprio dovere nel pieno rispetto della legalità. Per questo, per loro (in molti casi vittime essi stessi di uno Stato che non tiene nel giusto conto il grande lavoro che fanno e li costringe a lavorare in condizioni critiche), soprattutto per loro, le molte macchie che si ripetono da parte di colleghi, con il tacito o esplicito consenso di quelli che confondono le carte per coprire tutto, è una realtà indegna. E va combattuta.
Un Paese democratico ha bisogno di una Polizia totalmente credibile, non viziata dall’ombra del potere della forza svincolato dalle regole fondate sul rispetto dei diritti della persona. Possiamo affermare che in buona parte la nostra lo è. Ma i troppi casi recenti, e un’indecorosa discussione che mira a giustificare e coprirne gli errori, sta adombrando questo progresso democratico fondato sulla Costituzione.
Occorre ripristinarne la piena credibilità. Questo a mio avviso, significa seguire quattro strade: primo, sostenere un dialogo costante tra esponenti delle forze dell’ordine e giovani, nelle scuole e in ogni sede in cui il confronto diretto possa avvenire in trasparenza e fiducia; secondo, punire chi sbaglia senza trincerarsi dietro una difesa corporativa controproducente; terzo, poiché le responsabilità sono personali, (in una civiltà di diritto non può che essere così, ) bisogna sconfiggere quella pervicace ostilità al numero (numero, non nome e cognome) identificativo sul casco. E infine: introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. C’è in molti paesi, dove la polizia usa anche maniere forti, ma non fino al punto di infierire di proposito distruggendo l’integrità fisica e morale di una persona fermata, innocente o colpevole che sia. Perché molti dirigenti della Polizia si dicono fermi avversari di questa elementare norma di civiltà? Quale beneficio si può pensare di avere per l’immagine della Polizia se si consente – dietro questa lacuna normativa – di operare in maniera antiumanitaria e antidemocratica? Non si combatte così il crimine, prova ne è che perfino in paesi dove esiste la massima pena (la morte) da anni il tasso di criminalità non è per nulla più basso, e neppure tende a scendere. Il criminale incallito fa della noncuranza della pena e della tortura un motivo di vanto.
Lo scrittore israeliano Aharon Appelfed, nei giorni scorsi, dopo la drammatica vicenda del rapimento e dell’uccisione dei tre adolescenti israeliani e l’immediata vendetta contro un giovane palestinese, si affanna a ripetere che è necessario il dialogo, altrimenti si perde tutti. Un giornalista gli ha chiesto: “Dicono che sia stata la Polizia, che smentisce. Lei crede alla Polizia?”, lui risponde “Perché non dovrei? E’ importante che Israele sia accettata come una nazione che dice la verità, e in poco tempo la conosceremo.”
Ecco, quella stessa fiducia nell’onestà e nella verità che chiedono le donne vittime, con i loro cari, di un abuso di potere. Abbandonarle nella loro battaglia sarebbe un passo indietro di civiltà che, di questi tempi, il nostro Paese non si deve affatto consentire.

Vittorio Sammarco

Lascia un commento

Required fields are marked *.