Quando il primato della politica sconfina

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 di Stefano Ceccanti, www.qdrmagazine.it (Qualcosa di riformista), martedì 21 febbraio 2012

L’insegnamento sociale della chiesa è una matrice che, entro certi limiti e data la diversità di contesti storici, mal si presta a deduzioni meccaniche e quindi ad essere utilizzato come una sorta di programma politico immediato per chiunque, anche se può essere una risorsa preziosa di orientamento per tutti. Da questo punto di vista ha ragione Rosy Bindi sull’Unità di oggi a invitare tutti, a cominciare da me e Stefano Fassina a evitare rischi di strumentalizzazione in “presa diretta”. Tuttavia Fassina (al di là del dissenso di merito) ha avuto ragione nell’intuizione di immettere come uno dei criteri di giudizio per le nostre mediazioni, nella nostra autonomia di partito (che ha riferimenti plurimi), anche il Magistero recente. Invece Rosy Bindi la prende troppo “alta” dicendo in sostanza, se capisco bene, che il Magistero può servire quasi solo a scopi come un ripensamento complessivo della democrazia. Scopi su cui non si può non essere d’accordo, ma che rischiano di condurre a una neutralizzazione del Magistero verso affermazioni così alte da essere asettiche, verso quelle che il sociologo Cesare Martino chiamava le scorciatoie da convegni unanimistici in cui si poteva solo dire che l’uomo era umano e la democrazia democratica. Paolo VI nella Octogesima Adveniens precisava infatti che il Magistero sociale consente alle comunità cristiane di individuare sia “principi di riflessione”, sia “criteri di giudizio” sia “direttive di azione”.

Dei limiti di compatibilità, per tutti coloro, credenti o meno, che vogliano liberamente ispirarvisi,  però esistono e, in particolare, il Magistero maturato nel periodo post-conciliare, a confronto con l’impegno dei cattolici nelle varie forze politiche delle democrazie contemporanee che lo ha ampiamente alimentato, tende a opporre una particolare resistenza a tutti i tentativi di affermare attraverso le istituzioni una forma forte di “primato della politica” quale quella proposta in varie occasioni da Stefano Fassina, anche quando si possano condividere in tutto o in parte affermazioni critiche sulla pars destruens del funzionamento del rapporto tra capitalismo e democrazia.

In particolare gioverebbe rileggere le pagine profetiche di Pietro Scoppola nel volume “La nuova cristianità perduta” dove sottolineava che, saltato lo schema della “nuova cristianità” da ricostruire, a cui si legava il riferimento al Magistero sociale, i cattolici italiani rischiavano per un verso un adattamento iper-pragmatico allo status quo su cui si adagiava il ventre molle della dirigenza Dc e per altro verso di recepire passivamente le spinte di semplicismo anticapitalistico della contestazione.

Dei testi magisteriali in senso stretto si parlerà tra breve, anche se potrebbe bastare il commento di Armillei sul testo che li riassume, il compendio della Dottrina Sociale e, per le matrici di dottrina economica, il testo odierno su Europa di Flavio Felice.

E’ più utile però partire qui da tre testi non strettamente magisteriali dell’allora cardinale Ratzinger perché, per la prosa più sciolta e meno vincolata che li accompagna, essi spiegano ancora meglio ciò che sta dietro alle affermazioni ufficiali. Così come per capire il documento conciliare sulla libertà religiosa, la Dignitatis Humanae, dobbiamo leggere gli scritti del suo principale estensore, padre Murray, il quale dimostra l’intento di segnare una discontinuità profonda non rispetto alla Chiesa preconciliare presa a se stante, ma rispetto alla visione forte ed europea di Stato che accomunava paradossalmente sia i tradizionalisti curiali alla Ottaviani sia i laicisti francesi o francofili fuori dalla Chiesa sia alcuni cattolici progressisti come Dossetti. Stato forte e compatto, cattolico per i primi, laicista per i secondi, in grado di operare una riforma dall’alto della società per i terzi, ma radicalmente contrario alle autonomie sociali. Al contrario per Murray la cura del bene comune spetta alla società tutta intera, in tutte le sue sfere, inclusa quella del mercato e dell’economia, mentre alla politica spetta la cura dell’ordine pubbblico, sia pure in un’accezione ampia che tocca l’intero spettro dei diritti fondamentali.

Il primo testo è un brano tratto dall’introduzione scritta nel 2000 al classico “Introduzione al cristianesimo” in cui Ratzinger spiega perché prima del crollo del Muro di Berlino si concentrò sui problemi relativi alla teologia della liberazione, cercando di separare le parti positive di spiritualità e di impegno per la giustizia dai gravi limiti di superamento del dualismo cristiano tra Dio e Cesare che sfociavano in una forma di messianismo politico:

“Chi fa di Marx un filosofo della teologia accetta anche il primato della politica e dell’economia, elevandole al ruolo di forze effettive di salvezza (o di non-salvezza, se male utilizzate): in quest’ottica il riscatto dell’uomo avviene per il tramite della politica e dell’economia, in seno alle quali prende corpo il futuro.. È vero che l’uomo, come dice Aristotele, è un «essere politico», ma è altrettanto certo che l’uomo non può essere ridotto alla politica e all’economia.”

Quindi, contrariamente alle letture semplicistiche destra-sinistra sulle vicende delle Teologie della liberazione, si trattava in realtà di una disputa sul dualismo cristiano come alternativa al primato della politica e quindi ad un ruolo eccessivamente pretenzioso dello Stato, anche se concepito a fin di bene. E qui, in modo diverso, sembrano però rientrare anche gli indirizzi sostenuti da Fassina.

Il secondo è un brano tratto dall’edizione 2007 dell’ “Elogio della coscienza” dove Ratzinger afferma, in profonda sintonia con la Dignitatis Humanae e con la relativizzazione delle istituzioni statali da essa operata:

“Non è compito dello Stato procurare la felicità degli uomini, e non è perciò suo compito creare ‘uomini nuovi’. È significativo che, in fondo, tanto il nazionalsocialismo quanto il marxismo abbiano negato lo Stato ed il diritto, concepito i vincoli della legge come illibertà e, a fronte di ciò, preteso di affermare qualcosa di più elevato ancora: la cosiddetta volontà del popolo o la società senza classi, che avrebbero dovuto subentrare allo Stato, puro strumento dell’egemonia della classe dominante.”

Ci si potrebbe chiedere se i rischi di questa assolutizzazione della politica e dello Stato valgano solo per le forme di Stato non democratiche dove si esprimono evidentemente in forma più radicale e qui, a risolvere il dilemma in senso negativo, sovviene la terza citazione dalla lectio magistralis al Senato del 2004 che parla a chiare lettere del “socialismo, che si suddivise presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella democratica. Il socialismo democratico è stato in grado, a partire dal suo punto di partenza, di inserirsi all’interno dei due modelli esistenti (Paesi latini e germanici – NdA), come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali, le ha arricchite e corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al di là delle confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella Germania guglielmina il centro cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo democratico che alle forze conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale.”

Qui Ratzinger ha in mente una valorizzazione del socialismo democratico come realtà che in vari contesti o dall’origine (come in Inghilterra a causa del legame fondativo con varie Chiese cristiane attive nel Christian Socialist Movement affiliato al Labour) o in seguito (in Germania dopo Bad Godesberg) ha non solo chiaro il confine col socialismo di stato dell’Est ma anche quello con tutte le forme di statalismo in una concezione eccessivamente forte del primato della politica. Infatti il socialismo democratico è valorizzato perché, come i partiti democratico-cristiani, ha corretto dall’interno l’economia di mercato.

In ogni caso i pericoli dello statalismo, anche nelle società democratiche sono sempre attuali, come richiama Giovanni Paolo II al termine del n. 48 della Centesimus annus, uno dei luoghi chiave del Magistero recente:

“Si è assistito negli ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo «Stato del benessere». Questi sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di povertà e di privazione indegne della persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come «Stato assistenziale». Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune.

Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate forme che richiedono assistenza, come nel caso dei tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno.”

L’obiettivo di queste cautele non  evidentemente quello di frenare la spinta all’impegno per la giustizia in sede politica, ma solo di dissociarlo dagli strumenti dello statalismo per indirizzarlo verso quella forma di equilibrio tra sussidiarietà e solidarietà che si spiega bene con la parola poliarchia. Come Mounier aveva parlato della necessità di distinguere “l’ordine cristiano” dal “disordine costituito”, il Magistero recente ci invita a distinguere le esigenze di giustizia dai falsi rimedi statalistici.

Per il resto vale la pena che tutti coloro che vogliono fermarsi un giudizio autonomo si rileggano bene il Compendio e in particolare i paragrafi 186, 187 e 188 sulla sussidiarietà, nonché sul ruolo dello Stato in periodi ordinari e di emergenza; 290 e 291 su occupazione e diritto al lavoro in tempi di inevitabile mobilità lavorativa; 340 sul profitto; da 351 a 355 sui limiti all’azione dello Stato.

Alla fine, magari, vi troveranno anche cose inattese, ma dubito però che si possa capovolgere la chiave di lettura complessiva.

Resta però una possibilità alternativa del tutto legittima per chi voglia comunque riproporre un primato forte, anti-poliarchico, anti-poliarchico della politica: criticare esplicitamente questi testi anziché cercare di piegarli a sé nell’interpretazione.

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