Preferisco la proposta di Delrio a quella di Chiti

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Va da se’ che se i suoi avversari interni vanno in tv a dire che Renzi vuole realizzare nel Paese un monocameralismo costruito sulla base dell’ “Italicum”, non spiegando più compiutamente il  disegno di legge costituzionale cosiddetto Del Rio, anche l’elettore meno avveduto, cui in ogni caso l’idea di una sola assemblea nazionale certamente non spiace, potrebbe essere portato a dire che si tratta di una “boiata”, come direbbe il buon Bersani. Va da se’ parimenti che il d.d.l. cosiddetto “Chiti”, apparso all’improvviso nell’orizzonte parlamentare per contrastare, di fatto, il primo, nella misura in cui propone di più che dimezzare il numero dei componenti di quelle che resterebbero comunque due Camere, suscita istintivamente reazioni di stupita ammirazione. Perché il Parlamento andava numericamente dimezzato, più o meno, tanti anni fa, quando si costituirono i parlamentini delle Regioni ordinarie, che oggi contano, complessivamente, più di 1100 esponenti. Regioni alle quali, tra l’altro, negli anni successivi sono stati conferiti, con qualche pasticcio da rimediare, non pochi poteri già dello Stato. Troppa grazia, Sant’Antonio, verrebbe da dire, se davvero si riesce a tagliare della metà le poltrone romane, pur mantenendo due rami aventi funzioni diversificate.

Ma è una proposta davvero più realistica, questa, rispetto a quella fatta propria dal governo? Se, cioè, temiamo che gli attuali senatori siano restii a… “suicidarsi”, come si suol dire, chiedere un sacrificio simile o quasi anche ai deputati è un’ipotesi che ha vere possibilità’ di concretizzarsi? Ovviamente dubito molto. A me, in ogni caso, verrebbe da dire: fate l’una o l’altra riforma, ma fatela di corsa. Dopo di che, pur non certo esperto costituzionalista, sono dell’idea che la proposta del “Senato delle autonomie” (un’idea dei tempi de l’Ulivo, non dimentichiamolo) sia migliore, e abbia qualche chance in più di andare in porto. Certo, con una sola Camera “elettiva” il problema di un’insufficiente democraticità della nuova legge elettorale in itinere si aggrava, e andrà affrontato seriamente. In proposito, io personalmente non m’impiccherei sulla questione “preferenze” (pur così “reclamate” da tutte le parti, in questi mesi), avendo abbastanza esperienza di come andavano le cose, nel campo, ai “bei” tempi. In realtà io ho una predilezione per il sistema uninominale a doppio turno, da concretizzarsi in collegi piccoli, con candidati scelti, per il Pd, con le primarie. Ma, tant’è. Dopo di che, ancora, circa i contenuti delle due proposte di legge, pur non avendo forse approfondito a sufficienza i testi, io opto, ribadisco, per la proposta chiamiamola Delrio, rispetto a quella a firma Chiti e compagnia. E non soltanto perché sono stato amministratore locale per una vita. Mi spiego: mi piace il progetto di una Camera a elezione diretta, che da’ la fiducia al governo ed esercita la principale funzione di indirizzo politico, e di un Senato, non a elezione diretta, che esercita, invece, precipuamente, la necessaria funzione di raccordo tra Stato, Regioni, Città metropolitane e Comuni, e che valuta l’impatto delle politiche pubbliche sul territorio. Bene così, perché, come ricorda Legautonomie, per la nostra Costituzione i livelli locali non rappresentano la “serie B” delle istituzioni. E renderli maggiormente compartecipi delle decisioni che vengono assunte dal livello nazionale non può che essere un bene. Del resto, non si può ignorare che, in argomento, c’è stata un’amplia consultazione tra i soggetti interessati, dall’esito chiarissimo: una Camera delle autonomie, o meglio un Senato, espressione, appunto, dei rappresentanti di Regioni e Comuni, è fortemente voluta dagli amministratori locali. Un’assemblea essa stessa di grado inferiore? Affatto, via!, se si considera che la stessa è comunque chiamata a partecipare anche alle decisioni finalizzate alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea, e ad approvare le leggi costituzionali. Nonché, naturalmente, a eleggere il Presidente della Repubblica e i membri della Corte costituzionale. La complessa divisione di competenze tra l’una assemblea e l’altra del d.d.l. alternativo, con binari che comunque s’incrociano su talune materie non di valenza costituzionale, mi convince poco, invece, come avrete capito. Considero poi un tantino semplicistica l’obiezione di chi afferma: ma come faranno i “senatori” (i quali, in ogni caso, percepiranno una sola indennità: quella, diciamo, d’origine), a reggere il doppio incarico: in Regione o in Comune, e a Roma? Risponderei, semplicemente, che è prevedibile che il nuovo organismo sarà meno impegnato, nella quotidianità, rispetto alla Camera, dovendosi occupare di alcune materie specifiche e limitate, non dell’universo mondo. Non avrà dunque necessità, io credo, di riunirsi sette giorni su sette (faccio per dire) ogni settimana.

Chiudo, tuttavia, con una nota fortemente critica su una parte, quantomeno,  del disegno di legge del governo: quella riguardante la cancellazione tout court dalla Costituzione (pur previ taluni passaggi intermedi) delle Province:  è una sciocchezza, a mio avviso, salvo che nel caso delle aree metropolitane. E’ evidente che 107 Province sono un’assurdità. Ma lo è anche nessuna. Gli enti amministrativi intermedi, in quanto si devono occupare dei problemi di “area vasta” (pianificazione territoriale, strade interprovinciale, trasporti, rifiuti, eccetera), restano indispensabili, a mio modesto avviso. Che senso ha trasferirne le competenze ai Comuni, che saranno costretti a consorziarsi, per gestire le relative  funzioni, oppure alle Regioni, trasformando questo ente in una sorta di “moloch” chiamato, insieme, a legiferare, a pianificare, a gestire o quantomeno a occuparsi di defatiganti attività amministrative? Si taglieranno 3000 poltrone, è vero. Le meno costose rispetto a quelle dei consiglieri regionali e dei parlamentari, guarda caso. Tutto ciò detto resto convinto che su questo d.d.l., nonostante alcuni suoi limiti non banali, non si dovrebbero fare passi indietro. Intelligenza politica (e comunque gli interessi elettorali del PD) suggerirebbe anzi che entro il 25 maggio si sancisse un primo passo verso la realizzazione di tale riforma. Pensare di ricominciare da capo, invece, col “Chiti”, sarebbe un errore. Ma resta, riconfermo, la questione della legge elettorale. L’elezione diretta di una sola Camera abbisogna, come evocato, di una norma, diciamo, la più giusta possibile. Che tenga nel debito conto, se “giusta” in tutti i sensi, anche del problema della governabilità.

Un bel “busillis”!

 

 

Vincenzo Ortolina

 

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