Più crescita, non più consumi

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L’autore, già collaboratore al progetto di Programmazione economica nazionale, sotto la direzione di Giorgio Ruffolo, e presidente del Collegio dei Revisori del Comune di Roma, è stato membro della giunta nazionale della Lega Democratica. E’ stato professore a contratto alla LUMSA di Roma nel corso di laurea in Scienze dell’amministrazione. E’ stato anche professore a contratto alla LUMSA di Roma nel corso di laurea in Scienze dell’amministrazione, e consulente di molti enti pubblici e privati

 

I giornali di queste settimane parlano di “pioggia di bonus”, cioè di una decisa spinta ai consumi. “La Repubblica” di sabato 25 novembre indica in 17,2 miliardi di euro le risorse destinate ai bonus solo per l’anno 2018.

Quindi, esisterebbe la disponibilità di risorse finanziarie per una innovativa manovra di politica economica, non ripetendo gli errori del passato e del presente. Può essere, dunque, avviata un’azione incisiva di promozione e di realizzazione di programmi di crescita: investire, cioè, prioritariamente, nella formazione, nella cultura, nel digitale, nelle tecnologie innovative, nell’efficientamento della macchina amministrativa.

L’Italia è cresciuta, quando è stata data importanza ai processi di accumulazione reale con l’obiettivo di raggiungere l’Europa più avanzata.

Il denaro delle banche era funzionale a ciò. Non si finanziava la speculazione; veniva supportato l’investimento nell’innovazione dei processi produttivi e dei prodotti.

Questo scenario, va evidenziato, non è mai stato (salvo nei primi anni post guerra) al primo posto nell’agenda della politica. A giustificazione c’è stata (come alcuni storici hanno ben analizzato) la questione della “legittimazione” democratica della Repubblica; e la via scelta è stata quella del creare potere d’acquisto nelle famiglie per fare fronte all’arretratezza sociale mediante l’accesso in massa ai consumi “familiari” (auto, frigoriferi ecc.). Diversa, allora, la strada della Germania: prima l’efficienza della struttura produttiva, poi il benessere diffuso.

I risultati negativi della politica “consumistica” si vedono, attualmente, in termini di ridotto potere di acquisto, soprattutto dei gruppi sociali più deboli; ma anche i ceti medi stanno soffrendo.

Inoltre, in particolare dagli anni settanta e ottanta, di fronte ai problemi strutturali che la positiva crescita della produttività negli anni precedenti aveva creato, si è preferito, nel mondo delle imprese e della finanza, ritenere che l’idea imprenditoriale vincente fosse prioritariamente la remunerazione finanziaria del capitale proprio dell’impresa. Il bilancio in utile veniva soprattutto fatto con i proventi da “speculazione finanziaria”; e le banche  stettero al gioco. Prevalse la “finanza creativa”, di cui ancora oggi si pagano le conseguenze del guadagno facile.

Nelle fabbriche e nelle banche gli investimenti ritenuti migliori sono stati quelli che producevano redditi mediante una combinazione dei fattori finanziari, passando in seconda linea la virtuosa combinazione del fattore lavoro e di quello capitale, a cui bisognava aggiungere l’innovazione (conoscenza).

In una logica di breve periodo (arco temporale predominante nelle scelte di politica economica in Italia) prevale la speculazione finanziaria: il miraggio del guadagno elevato e immediato. I casi di crisi aziendali e bancari, provocati da questa logica, sono noti.

Interessa al nostro ragionamento evidenziare che molti “esperti di grido” hanno assicurato che la “ricchezza” finanziaria avrebbe sostenuto gli investimenti produttivi ed in particolare quelli immateriali. Così non è stato.

Il mondo dei capitali ha fatto il suo gioco ed ha insegnato, ancora una volta, che non è certo il libero mercato che fa una politica industriale selettiva e finalizzata al raggiungimento di equilibri economici più avanzati a medio-lungo termine.

Già negli anni settanta era stato evidenziato, nell’analisi sui settori industriali italiani e sui loro ritardi competitivi, che gli sviluppi tecnologici futuri, che avrebbero attraversato, orizzontalmente, tutti i campi, dall’informatica all’agroalimentare, richiedevano politiche di sostegno agli investimenti strutturali. Poi, in seguito, sarebbero state proficue le azioni di incentivazione della domanda di consumi.

Nella stessa direzione portavano i già presenti processi di globalizzazione. Dalle fabbriche manifatturiere, alle banche, agli istituti di ricerca, l’urgenza sarebbe stata quella di investire nel medio-lungo termine, gestendo la velocità del progredire tecnologico.

Le forze politiche e sociali (i sindacati in primis), invece, preferiscono dare priorità alla domanda di aumento dei consumi quotidiani. Hanno prevalso gli accordi “corporativi” con il sindacato soprattutto in occasione delle tante campagne elettorali. Si è preferito seguire la via della ricchezza fatta con la speculazione bancaria e con l’avventurismo nella finanza.

Nel complesso, mentre negli anni della ricostruzione c’è stata una giustificazione istituzionale alla prevalenza dei consumi rispetto agli investimenti, ora, dopo avere analizzato i limiti del miracolo economico degli anni sessanta, non c’è giustificazione razionale al dare preferenza alla logica elettorale del beneficio a breve termine.

Queste scelte, fatte nel passato, sia dalla maggioranza sia  dall’opposizione, sono state un freno alla creazione di nuova ricchezza reale ed un forte incentivo a favorire le varie bolle speculative.

Un falso luogo comune è stato credere (ad arte?) che gli incentivi a pioggia, dati per vivacizzare la domanda di consumo, potessero produrre l’effetto che il lavoro produttivo crescesse.

Non esiste un automatismo di questo genere (la storia economica lo ripete in continuazione). Anzi, tecnologia e globalizzazione sono fattori che, se sono lasciati a se stessi, producono squilibri, in particolare la riduzione dei livelli d’occupazione.

In Italia, il sistema produttivo e la crescita della produttività hanno avuto un rapporto sempre molto complesso e difficile. Negli altri paesi più avanzati, europei e non, cresce, in continuo, la produttività. Da noi, no. Infatti, vi è una netta divergenza tra l’andamento italiano della produttività e quello dei principali concorrenti, a danno del sistema italiano.

Il mito, tutto italiano, del piccolo è bello ha sufficientemente deviato l’attenzione dallo scenario competitivo internazionale. Infatti, le piccole imprese italiane hanno mediamente una produttività molto inferiore ai concorrenti europei.

E’ richiesto al sistema di cambiare missione: credere nel finanziamento dell’l’innovazione, della formazione, degli investimenti tecnologicamente avanzati, sostenere la globalizzazione delle imprese.

Il ruolo della politica: abbandonare l’arco temporale, a breve termine, della soddisfazione delle attese corporative dell’elettore, per farlo protagonista nel medio termine di benessere e ricchezza duraturi.

Più crescita, cioè, per una riconquista di effettivo benessere e per una rinnovata redistribuzione della ricchezza, secondo la nuova domanda di giustizia sociale e di difesa dei gruppi sociali più deboli, a cominciare dai giovani.

Ai fini del nostro ragionamento, è necessario procedere, nella Pubblica Amministrazione,  a revisionare profondamente gli attuali meccanismi di welfare. Quest’ultimo è stato un importante motore di sviluppo, che, negli anni recenti, è stato messo in discussione non solo per effetto della scarsa disponibilità di risorse, ma anche sul piano ideologico a favore della teoria che il libero mercato è un soggetto equilibratore di ricchezza tra i gruppi sociali.

Per cambiare le distorsioni verificatesi nel welfare, vanno superati gli effetti provocati dal parassitismo di alcune categorie sociali, dal diffuso corporativismo sindacale e dall’incoscienza di alcuni gruppi di lavoratori, che hanno stimolato e favorito il diffondersi di posizioni politiche di ostilità verso il welfare, teorizzando che il welfare è uno spreco di denaro pubblico e affermando l’utilità della disuguaglianza dei trattamenti sociali.

Quindi, se alla politica elettorale dei facili aiuti alle famiglie e alle imprese, con l’effetto di un ulteriore aumento della spesa corrente, viene fatto fare un passo indietro, allora i fattori di riferimento per un politica di sviluppo economico diventano le reti di ricerca e sviluppo, gli investimenti in tecnologia digitale, in formazione, in cultura, in un welfare motore di sviluppo; una prospettiva di reale crescita economica e sociale.

 

Roberto Pertile

 

 

 

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