Per la laicità della politica

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 La strumentalizzazione di simboli religiosi

Nella campagna elettorale per le europee, abbiamo dovuto assistere anche alla reiterata esibizione, da parte del capo della Lega, di simboli religiosi cari alla tradizione cattolica (crocefisso, rosario, con, chicca finale, affidamento al Cuore Immacolato di Maria!). Un disegno strumentale quanto goffo di auto-legittimarsi presso i cattolici come defensor di valori costitutivi dell’identità nazionale, attinti dalla stessa pietà popolare. In un tempo in cui globalizzazione e immigrazione (specie di religione islamica) rischierebbero d’indebolire la coscienza identitaria collettiva, «io» ‒ fa intendere l’autore di simili esternazioni ‒ mi ergo a paladino di questa identità.

Sconcertano sia la spregiudicatezza dell’operazione comiziale sia l’insipienza storico-culturale-religiosa che la ispira, ignara, quest’ultima, del cammino chiarificatore, dal Concilio Vaticano II in qua, su un tema delicato come quello del rapporto fra religione e politica.

A vari livelli, le autorità religiose sono intervenute per smascherare le ambiguità di siffatti comportamenti politici. Il tasto, universalmente battuto, pur con accenti diversi, ha riguardato l’inaccettabile strumentalizzazione della religione per fini e interessi di parte. Reazione sacrosanta. Ma forse non ha torto chi ha rilevato un certo imbarazzo delle gerarchie cattoliche a misurarsi con una questione legata all’«imprevisto ritorno della religione nello spazio pubblico»[1]. Questo, anche perché i comportamenti in discussione, al di là del folclore esibizionistico, suscitano seri interrogativi pastorali, stante l’adesione alla Lega ‒ cosa da tempo acclarata ‒ di una non indifferente quota di cattolici praticanti. Anzi, per buona parte di costoro, l’esibizione dei simboli religiosi, lungi dall’essere vissuta come inaccettabile «rito magico»[2], assume, piuttosto, funzione di rinforzo identitario sullo stesso piano civile.

 

Comunità cristiana e politica

Una situazione del genere non può non sollecitare le comunità cristiane e le loro guide a interrogarsi sugli esiti della pastorale ordinaria. Con tutte le energie spese in campo omiletico, catechetico, sacramentale, nell’iniziazione cristiana, nei gruppi associativi, nella preparazione matrimoniale, si può dire di avere raggiunto livelli soddisfacenti quanto a maturazione di coscienze credenti «adulte», dunque sufficientemente avvertite anche dei possibili cortocircuiti fra religione e politica? Questione grave, in parte, forse, all’origine del sopra accennato imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche, consapevoli ‒ penso ‒ delle troppe occasioni perse dalla pastorale. Certo, quando si affrontano tematiche complesse ‒ e tale è quella qui discussa ‒ occorre assumere sino in fondo il senso della complessità, guardandosi, quindi, da giudizi liquidatori o, peggio, da improduttive «ricerche del colpevole». In realtà, anche l’esibizione dei simboli religiosi, da cui abbiamo preso le mosse, va letta in un quadro più ampio, che concerne gli accelerati processi di trasformazione della società, con il fenomeno della secolarizzazione al centro; fenomeno in continua evoluzione, tant’è che oggi si parla di «seconda secolarizzazione» o «secolarizzazione debole»[3].

Anche da noi, la fine delle «religioni politiche» (comunismo), con il vuoto lasciato in molti, persuasi sino all’ultimo dell’avvento del «sole dell’avvenire», e il progressivo insediarsi nello spazio pubblico secolarizzato di una religione strong come l’Islam, ha innescato dinamiche non preventivabili, dove i «mondi» religiosi, compreso il cattolicesimo, sono stati coinvolti in delicati processi di ritessitura delle stesse identità etnico-civili. Pertanto, il discorso, avviato con riferimento a episodi di cronaca elettorale, si allarga in cerchi di vasto significato socio-culturale e religioso, come si può vedere, di seguito [nel numero 4/2019 di Appunti di cultura e politica, ndr], nell’articolo di Ilario Bertoletti, «La svolta cattolica della Lega e la dialettica della secolarizzazione. Una lettura “transpolitica”».

 

Laicità, facciamo chiarezza…

A me preme, però, fissare l’attenzione su un punto specifico, che entra necessariamente in gioco nel discorso intrapreso. È quello suggerito dal presidente della Cei, cardinale Bassetti, il quale, nei giorni caldi della polemica su crocefissi e rosari in comizio, se ne uscì con una netta affermazione in difesa della «laicità della politica». Non so che risonanza abbia nel cattolico medio un’affermazione del genere. Probabilmente si colloca in una zona grigia, d’incertezza semantica e interpretativa. Eppure, siamo di fronte a una categoria (la laicità, appunto) che, per quanto variamente interpretata, fra ambivalenze e persino contraddizioni interne, al fondo, esprime una delle idee portanti della modernità e della nostra epoca.

Sotto il profilo politico-istituzionale, la laicità, nozione tipica dell’area culturale neo-latina, innanzitutto francese, si definisce fra i secoli XVIII (Illuminismo, Rivoluzione del 1789) e XIX, con il conseguimento della separazione del potere temporale da quello religioso (e viceversa). Tale esito aveva alle spalle, come tutti sanno, la plurisecolare vicenda dell’Occidente, contraddistinta, fra il molto altro, dalla permanente tensione nel rapporto di forza entro le due massime autorità riconosciute: il papa e l’imperatore. L’idea di laicità, anche sul piano istituzionale, ha però potuto progredire grazie alla dilatazione, dal XIII secolo in poi, dello «spirito laico» (G. De Lagarde), ossia della progressiva tendenza dell’uomo occidentale a emanciparsi dai controlli di carattere religioso, ecclesiastico, metafisico, sulla sua ragione e sui suoi comportamenti. Razionalismo filosofico, metodologia scientifica, prospettive autonomistiche sulla politica e la stessa rottura della Riforma protestante rispetto all’autorità romana hanno favorito il processo di laicizzazione/secolarizzazione, che, sempre restando nell’ambito delle istituzioni, ha significato il superamento dello Stato confessionale ancien régime a vantaggio del moderno Stato laico. Punto d’arrivo foriero di nuove tensioni fra potere religioso e potere civile: nel caso italiano, singolarmente aspre per le vicende connesse all’unificazione nazionale (1861), che videro la soluzione giuridico-formale della frattura tra Stato e Chiesa solo nel 1929 con i Patti del Laterano.

Sino al Vaticano II, il frequente slittamento semantico operato dai cattolici della nozione di laicità in quella di laicismo (inclusivo, per loro, di mentalità, culture, visioni morali e politiche contrarie agli indirizzi magisteriali) non ha consentito un’adeguata (e doverosa) distinzione fra i due termini. Oggi siamo nella condizione di potere ragionare con serenità sulla questione.

Che cosa significa, allora, l’idea di laicità? Per connaturale inclinazione polisemica, legata anche ai diversi campi d’impiego, il termine non si presta a un’agevole definizione sintetica. Tuttavia, si può dire che nel suo significato più largo delinei un «orizzonte» o «prospettiva» concettuale, culturale, istituzionale, il cui profilo resta tracciato da motivi e valori tipici della migliore eredità dell’Occidente. Possiamo così riassumerli: riconoscimento del principio di ragione come tratto distintivo dell’uomo e criterio regolativo del suo rapporto con la realtà; autonomia della ricerca scientifica; primato della libertà di coscienza rispetto a ideologie, partiti, Chiese, Stato; affermazione della democrazia, quale forma, metodo e contenuto della convivenza socio-istituzionale; separazione fra le sfere civile e religiosa.

 

Distinzione dei piani, mediazione politica, dialogo

Le ultime due note attengono in senso specifico alla dimensione politica della laicità. Che chiama in causa aspetti metodologici e assiologici.

Quanto ai primi, elemento centrale è il criterio della distinzione degli ambiti. Sarebbe bastato restare fedeli ai Sinottici: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»[4]. Ma le cose sono andate diversamente. Nel 1948, Giuseppe Lazzati, all’interno del percorso di riflessione con gli amici di «Civitas humana», era giunto, in largo anticipo sui tempi, ad affermare la necessità di distinguere azione cattolica, ossia il complesso delle attività pastorali-apostoliche, da azione politica, vale a dire l’opera di edificazione della pόlis, da condursi con metodologie proprie e insieme con tutti gli uomini di «buona volontà»[5]. Tale posizione, accolta in linea teorica, sul piano pratico ha incontrato difficoltà anche dopo il Concilio: basti ricordare le non infrequenti intromissioni della gerarchia per orientare scelte parlamentari su materie considerate eticamente «sensibili». A ogni modo, la distinzione fra le sfere civile e religiosa non significa reciproca indifferenza. Sotto questo profilo, dice bene l’art. 1 dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense tra la Santa Sede e la Repubblica italiana (18 febbraio 1984): «[…] lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese».

Al criterio della distinzione si affianca quello della mediazione politica. In un contesto pluralistico e frammentato come l’odierno occorre vincere la pretesa, non estranea a un buon numero di impegnati nell’agone socio-civile ‒ cominciando dai cattolici ‒, di alzare subito, magari rumorosamente, il vessillo dei «propri» valori, senza la consapevolezza di dover passare attraverso la fatica di confronti e processi mediativi in grado di condurre a punti d’intesa onorevoli e realistici. La strada degli oltranzismi non porta da nessuna parte. Certo, la mediazione in campo politico, se vuole sottrarsi a giochi al ribasso, di corto respiro, richiede di tenere sempre lo sguardo aperto su «visione» e valori di riferimento, protendendosi, nel medesimo tempo, verso la ricerca di un possibile ‒ anche se non semplice da precisarsi ‒ «umano comune», come piattaforma di partenza per piccoli o grandi progetti condivisi.

Da ciò si comprende che l’attitudine dialogica rappresenta elemento centrale della politica. Nessun irenismo o prospettiva da «anime belle». L’impegno politico implica un confronto duro, spesso diventa una battaglia aspra, senza sconti. Ma non può ridursi a rissa continua, priva di obiettivo nobilitante e legittimante l’impegno stesso. Questo, si precisa nell’edificazione della pόlis, cioè di una città plurale, «a misura di uomo» (ma anche, meno genericamente, di donna, di bambino, di giovane, di anziano, di povero e immigrato). Naturalmente, il dialogo è arte delicata. Richiede applicazione e disponibilità all’ascolto cordiale del punto di vista del proprio interlocutore. In ogni caso, a dialogare s’impara dialogando.

 

Studio e impegno: formare alla politica

Sin qui, piccole note di metodo politico, laicamente inteso, che richiederebbero, però, ben altro sviluppo. A cominciare da un aspetto delicato e, oggi, controverso: quello della preparazione specifica, ossia della competenza degli operatori politici. Purtroppo, la logica ingannevole dell’«uno vale uno» sembra accreditare, di soppiatto, la bizzarra idea della «non-conoscenza», come una sorta di «profilassi» immunizzante contro i mali del «Palazzo». Siamo a questo punto! Ovviamente, la questione della preparazione dei politici ‒ limitiamoci all’Italia ‒ è seria e chiama in causa la loro formazione per disporsi a un servizio ‒ parola, ahimè, desueta ‒ competente, cioè da assolversi con «disciplina e onore», secondo la formula costituzionale. Dove e come si forma, oggi, la classe politica, che costituisce tanta parte della classe dirigente del paese? L’impressione, considerando molti parlamentari e non, è di avere a che fare con troppi dilettanti allo sbaraglio.

Metodo e valori, in una concezione politica democratica, stanno insieme. Se si punta solo sul primo, si rischia di finire in un formalismo procedurale privo d’intrinseca sostanza; se si enfatizzano i secondi, senza premurarsi della loro concreta storicizzazione, si scade in un ottuso dogmatismo etico. Gli equilibri da raggiungersi non sono mai semplici. È il bello e il rischio di una politica interpretata laicamente e riconosciuta nella sua legittima autonomia metodologico-progettuale (per altro, sempre bisognosa di rinvii alla sfera etico-antropologica). Si tratta di una concezione della laicità non oltranzistica, chiusa in sé stessa, prigioniera di rigurgiti anticlericali, ma aperta, con riguardo alle sempre nuove sfide ‒ bioetica, diritti civili, emergenze sociali, pace ecc. ‒ che battono sul quadrante della politica, attendendo risposte all’altezza. Senza trucchi da imbonitori di fiere paesane né pacchiane strumentalizzazioni religiose. In questo senso, la tradizione cattolico-democratica ha ancora molto da dire.

 

Luciano Caimi

 

[1] Cfr. G. Formigoni, Il Salvini mariano: la comunità cristiana prenda sul serio il problema, in www.c3dem, 12 giugno  2019.

[2] G. Ravasi, «Sventolare il crocefisso? Rituale magico», intervista di A. Cazzullo, ne «Il Corriere della domenica», inserto de «Il Corriere della sera», 16 giugno 2019, p. 30.

[3] Cfr. M. Rizzi, La secolarizzazione debole. Violenza, religione, autorità, il Mulino, Bologna 2016.

[4] Mt 22,21, Mc 12,17, Lc 20,25.

[5] Cfr. G. Lazzati, Azione cattolica e azione politica, in «Cronache sociali», 1948, 20, pp. 1-3.

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