Per la Chiesa un compito ineludibile: rimettersi in discussione

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La ricerca, curata da Roberto Cipriani, sulla fede religiosa degli italiani (di cui c3dem ha già offerto una sintesi), è stata discussa da scrittori e giornalisti nel giorno della sua presentazione. E’ sembrato emergere un certo scoraggiamento, attutito in parte dalla prospettiva del Sinodo che si è appena aperto per volontà di papa Francesco. Ma bisogna riuscire a far sì che sia un cammino sinodale coraggioso, libero, inclusivo. Una Chiesa non sulla difensiva ma intenzionata a rimettersi in discussione.

 

 

Su cosa puntare l’evidenziatore per andare al di là dei numeri e delle interpretazioni che la corposa ricerca condotta dal prof. Roberto Cipriani e presentata nei giorni scorsi a Roma ha offerto (cfr. la sintesi già pubblicata sul nostro sito)?

In altre parole: chi si occupa di alimentare (in tutte le forme possibili) l’appartenenza alla Chiesa (parrocchie, associazioni, frequenza ai riti ecc.) non può che prendere i dati e leggerli in prospettiva. Non è solo un’inchiesta sociologica. È un terreno condiviso e potenzialmente fertile per ricostruire un disegno di Chiesa che vogliamo, che pensiamo: meglio, che speriamo.

La poderosa ricerca (commissionata dalla Cei nel 2017) ha prodotto due pubblicazioni principali: quella di Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso in Italia incerta di Dio (Il Mulino, 2020) fondata su 3239 questionari (quindi quantitativa), e questa di Roberto Cipriani, L’incerta fede, che rende conto di 164 interviste distribuite in varie località italiane. Lo schema, quindi, è sufficientemente articolato per dire che si riproduce una analisi, ben più ampia di una semplice fotografia, su cosa rappresentino per i credenti cattolici: la vita quotidiana, la felicità e il dolore, la vita e la morte, Dio, la preghiera, papa Francesco (sono questi i capitoli del libro). La ricerca «va oltre i numeri», come scrive mons. Nunzio Galantino nella presentazione; cerca cioè «di scoprire e comunicare l’anima che attraverso quei numeri ci viene incontro, le voci che da quei numeri si levano, la protesta che quei numeri innalzano, il grado di fedeltà che quei numeri rilevano e la gioia dell’appartenenza che quei numeri comunicano». Ecco, appunto: l’anima e le voci di protesta, di disagio.

Sul disagio i numeri appaiono chiari: una spiritualità sempre più personalizzata e che tende a fare a meno dell’istituzione religiosa (anche dei momenti comunitari?); una partecipazione alla messa intorno al 22%, e di questi solo un 14,2% (dei 164 intervistati) che fa la comunione. E’solo il 35,4% a credere nell’esistenza di un al di là, e ben il 41,4 si mantiene (dando il titolo alla ricerca) incerto, non sapendo cosa dire. Insomma, la pratica religiosa è calata di quasi dieci punti in poco più di vent’anni: dal 31,1% (media accertata nel 1994-95 per la frequenza settimanale) al 22% (dato risultante dall’inchiesta svolta nel 2017). Con il timore che con la pandemia il dato si sia aggravato.

I dati sono tanti e su un ampio spettro di questioni, anche di una certa attualità. Solo per fare qualche esempio, in tema di distacco tra principi e pratica: sull’eutanasia sono favorevoli il 62,7% degli intervistati; sulla pena di morte sono contrari “molto”  o “abbastanza” il 64,7% (quindi un 35% favorevoli); si ritengono molto o abbastanza “buoni cattolici”, “anche senza seguire le indicazioni del Papa o dei vescovi nel campo della morale sessuale”, il 65% degli intervistati. (Per un’analisi approfondita si possono leggere, per intero, le 164 interviste qualitative che gli autori della ricerca hanno messo a disposizione in una pagina web che ha un titolo certamente molto apprezzabile: “Condividere la scienza: i dati pubblici della ricerca sulla religiosità in Italia”).

Risalta, comunque, un aspetto su tutti, che viene sottolineato dallo stesso curatore della ricerca. «Il rapporto con l’istituzione religiosa – osserva Cipriani – è l’aspetto più problematico in assoluto, in base ai dati raccolti nelle interviste qualitative. Numerose sono le riflessioni critiche nei confronti di persone, regole, comportamenti, organizzazioni di natura religiosa». Di fatto, il 31,5% è su posizioni contrarie a quelle ufficiali.

Nel dibattito di presentazione della ricerca, alla presenza di Eraldo Affinati (scrittore), Monica Mondo (giornalista), Corrado Augias (giornalista), mons. Nunzio Galantino (già segretario generale della Cei) e dell’autore Roberto Cipriani, si è cercato di leggere i dati sotto la dicotomia “incoraggiante o scoraggiante”, e ci si è chiesti che cosa essi ci dicono sul futuro della Chiesa e della fede.

Sono emerse letture diverse, interpretazioni sfumate, a partire dalla introduzione severa di un intellettuale come Corrado Augias che si dichiara “serenamente ateo” e che però vede pericoloso per la nostra società l’evidente indebolimento della forza morale e sociale della Chiesa in questi ultimi anni. A suo avviso, per via dell’individualismo esasperato oggi dominante (coltivato e rafforzato dal progressivo sviluppo della tecnologia della Rete), «la funzione della Chiesa come rete di parrocchie/comunità – ha detto – è ormai venuta meno». E anche la figura di papa Francesco, seppure apprezzata e stimata da molti, non riesce a risollevare l’Istituzione da quella che sembra un’eclisse inarrestabile (il riferimento è al libro di Sabino Acquaviva del 1961, L’eclisse del sacro nella civiltà individuale), sebbene proceda lentamente.

L’allarme che ha voluto lanciare il docente e scrittore Eraldo Affinati è che «per essere credibili con i giovani, ci vogliono soprattutto adulti credibili e la capacità di mettersi in gioco entrando in quella zona di rischio di cui parla papa Francesco», incarnando, cioè, le parole che si proclamano, andando incontro anche a quella “dimensione ferina” dell’uomo che è presente nella vita quotidiana. Siamo, dice Affinati, in presenza di una rivoluzione antropologica che richiede il coraggio delle scelte.

La chiesa è “nelle mani di Dio”, ha detto Monica Mondo, come a dire che, in ultima analisi, siamo affidati al suo disegno; ma è anche vero che il Sinodo, voluto da papa Francesco, nelle modalità con cui lo ha voluto, può davvero essere un’occasione cruciale per tutti i credenti (e per gli incerti) per cercare risposte nuove alle tante domande, ai dilemmi, che emergono con forza da questa ricerca.

A mio giudizio, i dati della ricerca dicono una cosa fondamentale: la Chiesa (tutta e non solo i suoi pastori) si deve mettere in discussione, in maniera aperta e sincera, con coraggio. E questo deve essere il cammino del Sinodo. In questo percorso, difficile e lungo, ma proprio per questo potenzialmente foriero di effetti positivi, potranno essere utili, io credo, due principi fondamentali.

Primo: che sia un percorso sinodale aperto e coraggioso, libero e inclusivo, capace di ascoltare tutte le voci, anche le più dolorose e problematiche, senza la paura di eventuali contrasti e manifestazioni di dissenso, palesi o nascoste che siano. Insomma: di tutto ha bisogno la nostra Chiesa meno che di apparire in difesa, prudente e in contrapposizione ad un mondo “cattivo e nemico”, da cui proteggersi per non inquinare il proprio messaggio salvifico. Vanno considerati, questi momenti di sofferenza, il travaglio di un parto, piuttosto che quelli dell’agonia ultima (…copyright di un vecchio e sempre amato presidente di Ac, Alberto Monticone).

Secondo: che sia un Sinodo capace di generare prospettive, impegni, scelte, opzioni, percorsi, idee, proposte. In una sola parola: visioni. Le discussioni che i fedeli faranno nelle (speriamo tante, tantissime) occasioni di confronto, le istanze che si manifesteranno, non rimangano sulla carta come puro flatus voci, trascritte nei verbali degli incontri, magari anche consegnate al papa perché ne prenda visione, ma – in realtà – non prese in carico per introdurre efficaci cambiamenti nella vita della Chiesa. Sarebbe un’occasione persa per rendere la Chiesa non già più “appetibile” (ché non si tratta di questo), ma più capace di farsi compagna di strada per tutti coloro che sentono – sì – incerto il proprio cammino di fede, ma che proprio non vorrebbero rinunciarvi né ridursi a condurlo da soli.

 

Vittorio Sammarco

 

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  1. Il timore che ho è che, a meno di un intervento provvidenziale dello Spirito, anche se si trovasse chi è disposto ad ascoltare, non si trovi chi è disposto e capace di parlare., chi oggi parla e segnala difficoltà e problemi sono gruppi di élite abituati a ragionare insieme, ma la maggioranza degli abituali frequentatori delle parrocchie, i pochi rimasti, non sono abituati a ragionare indipendentemente dai preti che conducono la parrocchia, sono disabituati ad assumersi responsabilità di decisioni e alla fin fine pure di pensieri. Eppure c’è una buona capacità operativa, ma sempre sostanzialmente subordinata. Saranno affrontati i due grandi problemi: rapporto clero-laici, rapporto in particolare clero-donne? E quindi la desacralizzazione del clero?

    • Certo hai ragione Maria Pia: la capacità di parlare con sapienza, garbo e sincerità è sempre più rara. Ma bisogna crederci. Credo che siano la sfiducia e lo scetticismo, che ormai pervade tutti, a compromettere la qualità del dialogo e anche della stessa profezia. Faccio sempre mia le splendide righe finali de Le Città invisibili di Calvino quando il suo Marco Polo, all’obiezione scettica del Gran Khan, convinto che non ci siano bellezze nel mondo, ma solo inferno, risponde: ““L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che già è qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ecco, i preferisco: con fatica, adottare il secondo modo. Rischioso e faticoso. Grazie

  2. Ha molto ragione Maria Pia Bozzo. Molti di noi invocano l’ascolto da parte di vescovi e parroci, ma tendiamo a non considerare la probabile scarsa capacità critica e propositiva da parte dei frequentatori abituali delle parrocchie. Credo che sia ancora prevalente, tra i più, la critica al parroco se la messa è troppo lunga, piuttosto che per altro. Ed è difficile pensare che quella larga parte dei parroci che sin qui non hanno saputo o voluto coinvolgere davvero i laici in una partecipazione corresponsabile sappiano o vogliano accettare adesso questa sfida. Se però qualcuno che fin qui non ha provato a farlo lo facesse, cioè riunisse le persone delle messe domenicali per interrogarsi su che cosa è per ciascuno vivere da cristiani, vivere con fede, e lo facesse non una volta, ma come un cammino lungo, penso che qualche breccia si aprirebbe, qualche riflessione meno scontata verrebbe alla luce. E poi, come papa Bergoglio ha detto tante volte, non si tratta di ascoltare solo i frequentatori abituali della parrocchia, ma di aprire spazi di ascolto anche per i tanti che si sono allontanati e per coloro che sono sempre stati fuori ma che forse non si dispiacerebbero di essere invitati a un dialogo. Certo, bisognerebbe che i vescovi si rivolgessero a tutti i parroci, con parole di sincerità, per dire loro che questa è la sfida, grande e bella, che la chiesa sente che è tempo di affrontare: restituire parola, spazio, responsabilità ai credenti e ai forse-credenti, dentro e fuori le parrocchie, quasi come se si volesse cominciare un cammino nuovo, di riscoperta dell’essenziale, di ripensamento delle strade sin qui percorse, di sperimentazione di nuovi modi di fare chiesa e di alimentare e vivere la fede.

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