Pd, ripartire dal “manifesto dei valori” del 2008

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In queste settimane la Federazione del Pd di Genova ha promosso una serie di incontri sul tema del partito (identità, comunità, circoli, istituzioni). In quest’ambito l’autore ha presentato questo intervento.

 

Dobbiamo rileggere il “Manifesto dei valori del Partito democratico” approvato nel febbraio del 2008 per avere un preciso punto di riferimento condiviso.

Vittorio Foa poco prima di morire (2008) scrisse una nuova introduzione al suo libro “Questo Novecento” pubblicato nel 1996. Mi sembra, egli diceva, che esista “un fenomeno dai tempi lunghi: una destra profonda che prende le forme più varie, a volte persino forme di sinistra. Le forme della destra profonda possono essere nazionaliste, militariste, razziste, fasciste, o puramente liberistiche. In tutti questi casi la chiusura nel proprio particolare, nella famiglia e il proiettare il rapporto con il mondo sulla propria particolarità diventano dominanti”. Oggi, a distanza di dieci anni, questi tempi lunghi vedono una prima concreta realizzazione, di fronte ai quali occorre ridefinire la stessa idea di partito di sinistra.

In primo luogo occorre un atteggiamento di umiltà, sorretto da valori forti proclamati e testimoniati. Viviamo nella società della comunicazione, che spinge alla formazione di leader fortemente personalizzati. I leader, dotati di un particolare carisma, sono sempre esistiti, anche quando si chiamavano “dirigenti”, ma un vero leader della sinistra si deve sentire parte integrante di una comunità e deve saper mediare le proprie inclinazioni personali con la comunità di appartenenza e con i suoi alleati. La base di ogni comunità è la relazione solidale tra i suoi membri, a tutti i livelli dell’organizzazione. Esempio elementare, che connota però l’idea di appartenenza a una comunità. Su punti particolarmente divisivi, prima di proclamare le proprie opinioni sui talk show televisivi o sui giornali deve parlarne all’interno della struttura dirigente del partito. A tale riguardo l‘esperienza sindacale unitaria italiana degli anni ’70 può costituire un buon esempio.

L’identità è un processo, si costruisce in ogni momento, in ogni azione. E’ un immaginario collettivo in continua formazione al quale confluisce una molteplicità di elementi (azione dei gruppi dirigenti, scuole di formazione, pratica amministrativa). E’ vero che in tutto il mondo emergono figure di leader cosiddetti populisti e vi è una tendenza generale al “populismo”; questa di “populismo” è una definizione che tende a semplificare la complessità sociale, mentre dobbiamo interrogarci sul perché si formano i “populismi” e quali sono le loro contraddizioni. La critica alla casta dei politici, e alla degenerazione partitocratica della politica, viene da lontano ed esprime esigenze  contraddittorie (a volte democratiche, altre volte qualunquiste). La sinistra deve saper cogliere le esigenze democratiche. Vedi Pietro Scoppola che nel 1991, alla vigilia della lunga crisi dei partiti, affermava la necessità del passaggio dalla “repubblica dei partiti” alla “repubblica dei cittadini”, un passaggio tanto più arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo problemi istituzionali. Vedi anche Enrico Berlinguer sulla degenerazione partitocratica e sulla corruzione (ma corrotti erano gli altri; il suo partito, il Pci, era come investito da una purezza divina). Occorre interrogarsi sulla struttura del potere o, meglio, dei poteri nella società della comunicazione; non servono gli atteggiamenti moralistici, se non si analizza e non si modifica la struttura stessa dei poteri. Di fronte a questa critica, la sinistra, anziché rimarcare la propria idea di politica come servizio, è stata complessivamente subalterna e non l’ha mai assunta come propria bandiera: da qui è nata l’originaria affermazione politica dei 5 Stelle.

La tendenza alla riduzione della complessità e alla semplificazione è una realtà. E’ più facile la formazione di un’identità che si definisce in rapporto a un nemico, o meglio alla costruzione immaginaria di un nemico da combattere (i migranti, i diversi, le minoranze, la casta dei politici), che un’identità intorno a un progetto positivo di società. Ma questa è la vera sfida. La sinistra deve riuscire a semplificare le proprie idee e a renderle visibili: uguaglianza, lavoro dignitoso, famiglia, mobilità sociale, continuano ad essere le idee forza che qualificano una formazione di sinistra. I primi tre articoli della Costituzione non sono mai diventati programmi politici. La sinistra non li ha presentati come idee-forza in grado di mobilitare i cittadini. La gestione del referendum costituzionale è un esempio evidente del modo sbagliato di affrontare il tema delle riforme. Il PD non è stato in grado di spiegare la differenza tra la prima parte – i Principi Fondamentali – di cui dobbiamo essere orgogliosi e la seconda parte  – Ordinamento della Repubblica – che possono essere modificati e adeguati ai cambiamenti della società. Nell’articolo 3 secondo comma della Costituzione – “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” – sta l’identità della sinistra. Così come promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro.

Sui migranti, nonostante gli sforzi dei governi di centro sinistra, non siamo mai riusciti ad applicare in Europa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000 che all’art. 19 afferma: “Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Salvatore Vento

 

 

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