Non c’è riformismo senza equità

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Verso il Convegno di c3dem del 29 novembre. Contributo di un sindacalista

Da vetero sindacalista quale sono, resto convinto che nessun disegno riformista o riformatore sia possibile o sia collocabile sotto questa definizione se al suo interno non entra prepotentemente il tema dell’equità.
Per questa ragione desidero richiamare due temi.
1. Sembra sia scomparso dall’agenda delle priorità del Governo e della politica il tema dell’evasione fiscale. L’economia italiana è indubbiamente condizionata e appesantita dalla crisi economica, ma anche, e forse soprattutto, da un tasso di illegalità che non ha pari nel mondo e che vuol dire: evasione fiscale per rubare soldi allo Stato; riciclaggio per nasconderli; corruzione per alterare il mercato; economia sommersa e lavoro nero; reati ambientali e abusi edilizi, truffe e crac finanziari. E’ difficile quantificare in numeri certi il tasso di illegalità. Secondo i dati riportati in “Soldi rubati”, di Nunzia Penelope, Ed. Ponte alle Grazie 2011 (dati aggiornati con “Caccia al tesoro”, della stessa autrice), l’evasione fiscale è di 120 miliardi all’anno, 60 sono i miliardi della corruzione e 350 miliardi quelli dell’economia sommersa, ormai prossima al 20% della ricchezza nazionale. Senza dimenticare gli oltre 500 miliardi nascosti da proprietari italiani nei paradisi fiscali su cui non si pagano le tasse. Considerando solo i 120 miliardi all’anno di evasione e i 60 della corruzione, quindi 180 miliardi all’anno, si può calcolare che in 12 anni si potrebbe azzerare l’intero stock del debito pubblico che, dice la Banca d’Italia, a giugno 2014 era di 2.168,4 miliardi. In campo economico il tema dell’equità ha questi connotati e sono questi che condizionano ogni possibile soluzione dei molti problemi del nostro Paese.
2.  Non se ne discute, oppure se qualcuno lo pone, viene subito accusato di anteporre alle esigenze del mercato ragioni di natura ideologica e politica. Si tratta del tema della redistribuzione del lavoro che ha nella riduzione dell’orario di lavoro settimanale una modalità concreta e strategica. Ho letto una intervista a Gigi Petteni, Segretario della CISL Lombardia, che dice: “Distribuiamo meglio il poco lavoro che c’è: più contratti di solidarietà e meno cassa integrazione”. Non mi pare una grande idea e men che meno una scelta strategica, ma solo un intervento tampone limitato ad una situazione specifica che riguarda, peraltro, coloro che hanno un lavoro. E chi pensa al 12,8 dei disoccupati o al 42% dei giovani della fascia 15 – 25 anni che sono senza lavoro e, dunque, senza alcuna prospettiva? Se si conviene che le norme e le garanzie dello Statuto dei Lavoratori, vecchie di ormai 44 anni, non sono più adeguate alla realtà economica ed occupazionale attuale, e che pertanto è, anche per il sindacato, opportuno modificarle e adeguarle per ampliarne l’efficacia perché, ben sapendo che non si ritornerà più alla situazione occupazionale precedente il 2008, lo stesso ragionamento non vale per l’orario di lavoro settimanale di 40 ore così definito con i contratti di lavoro del 1972? Non è anche questo un grande tema di equità a forte connotazione etica?

Rodolfo Vialba
E-mail: rodolfo.vialba@gmail.com

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  1. 1. Ci sono due modi per un governo di affrontare l’evasione fiscale (come anche altri temi fondamentali, come ad esempio quello della lotta alle mafie): facendo dichiarazioni d’intenti più o meno roboanti, oppure impostando un (paziente ma non troppo) lavoro di miglioramento della macchina pubblica, per gli opportuni controlli (anche se a dire il vero il lavoro in atto della Guardia di Finanza non mi pare già ora trascurabile), e poi un lavoro di lotta a un certo tipo di cultura. Il lavoro dell’attuale governo sulla riforma della PA e l’attenzione al mondo della scuola mi sembra vadano in questa direzione. Quanto ai calcoli della seconda parte del 1.o punto, mi sembrano alquanto irrealizzabili.
    2. La riduzione dell’orario settimanale è stata attuata in Francia, non mi pare con grandi risultati. L’esito più probabile di un provvedimento del genere, fatto in modo improvvisato, senza tener conto del quadro internazionale, sarebbe semplicemente l’aumento del costo per unità di prodotto, che porrebbe ovviamente ancor più in crisi di quanto non siano le nostre esportazioni, e diminuirebbe la richiesta di lavoro del sistema Italia.

  2. Se così fosse, se cioè non fosse percorribile la strada della riduzione dell’orario di lavoro, ci dovremmo rassegnare ad avere i 3,5 milioni di disoccupati ufficiali attuali, naturalmente in crescita se non altro per l’evoluzione del progresso tecnologico, e una spesa per ammortizzatori sociali che se nel 2012 (dati INPS) è stata di 22,7 miliardi, sara certamente molto di più nel 2014 e negli anni a venire.
    E’ questo un problema di ordine politico, economico, sociale e civile che ha bisogno di qualche risposta oppure lo nascondiamo sotto il tappeto della solidarietà familiare? e fin quando questa può durare?

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