“Muore anche il mare”

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 Pio Cerocchi

In una notte preda delle nebbie e del freddo, al chiuso dello studio ho inseguito ricordi di musiche lontane. Mediterranee, cariche di malinconie e di infinita dolcezza. Inchiodate nella memoria delle generazioni nelle esecuzioni che le hanno rese celebri: Melina Mercouri, la danza di Zorba, Segovia e le musiche di Albeniz. Grecia, Spagna, Pireo, Asturie, Andalusia. Le canzoni, la poesia, la storia: la cuna ancestrale della nostra civiltà. E noi italiani tra Spagna e Grecia, immersi in questo mare; in questo specchio della nostra anima infelice e cuore stesso della vita.

Si, mi sono abbandonato e ho lasciato correre, la fantasia. Senza una meta razionale. Valutando la realtà con una logica diversa: non l’utile, ma il bello. Non sarà vero solo per i patimenti della grande Russia, affermare che “la bellezza salverà il mondo”. E’ vero sempre e per ogni luogo. Per ogni popolo. Per ogni regime politico. La bellezza. Si, noi l’abbiamo intravista e ancora ne seguiamo vagamente una traccia e le tecnologie che tutto avvicinano nell’eterno presente (come è stato detto), ci aiutano a farlo. Sentendo musiche e canzoni, rivedendo immagini e figure, ascoltando e leggendo parole, rientriamo nella splendida illusione nata con Giovanni nel 1958 e proseguita negli anni sessanta fino al 1968. Dopo quella rivoluzione (che tale fu) noi che volevamo il cielo, ci accontentammo del fumo, del divorzio, del “piccolo è bello” dove fu costruito il loculo per l’utopia.

Sognammo insieme (anche se non tutti allo stesso modo) un mondo migliore, dissodando le incrostazioni della storia con la certezza che quella era nostra e l’avremmo cambiata. In effetti rovesciammo qualche automobile, incendiammo qualcosa per le strade delle città, dando fuoco ad alcuni brandelli dell’anima. Terra bruciata con il passato remoto. Illusi di futuro e incapaci di costruirlo, forse perché ubriacati dall’idea di avere vissuto già e che la bellezza che vedemmo, non l’avremmo potuta più incontrare. Non una sola bellezza, ma tante: nelle discussioni sui destini della politica e del mondo, nelle notti in riva al mare scambiando il sogno con l’inarrivabile amore, nelle cene sotto i pergolati o in taberna, nella folla e nelle solitudini del monisterio, nei silenzi della preghiera e nell’urlo della lotta. Ubriachi di noi stessi, affascinati dai gesti continuamente nuovi quasi in una rinominazione delle cose e del mondo. Eravamo insieme religiosi, comunisti, rivoluzionari anche nell’amore come cantavamo nella canzone del “Che”. La strada era quella, ma l’abbiamo perduta, arrivando proprio adesso all’assurdo.

La Grecia di Melina e di Panagulis, quella che ha resistito ai colonnelli, la Grecia della bellezza e dell’infinito passato del nostro stesso esistere, piegata un’altra volta perché i banchieri non si fidano di riavere i denari prestati. Così un popolo che ha fatto la storia della nostra civiltà, viene messo in mora da una consorteria di computisti che negli ultimi tempi ha sbagliato tutto creando non ricchezza, ma fallimenti a catena ad ogni latitudine del globo. Come prima erano le popolazioni inermi a pagare gli errori dei sovrani, ugualmente avviene ora con la sola differenza che, invece dei sovrani, a sbagliare sono dei superstipendiati dipendenti, impuniti come i sovrani, con la pretesa regale di non dover mai pagare nessun prezzo per i propri errori. Tra noi e loro, quasi lo dimenticavo tanto essa è divenuta diafana e inconsistente, c’è la politica. Si, quella che una volta decideva e che adesso per sopravvivere, furbescamente obbedisce ai comandi remoti dei mastri computisti ed associati.

Non è detto che la politica debba piacere e neppure si capisce perché essa debba piacere in uguale misura agli uomini e alle donne, prescindendo essa che si occupa di tutti dalle minimaliste differenze di genere. Se una cosa è sbagliata e ingiusta, lo è per le donne come per gli uomini. Non ci sono due giustizie, perché siamo uguali di fronte alla legge senza distinzioni etc…. roba vecchia e oramai fuori corso. Nella democrazia mediatica bisogna seguire la deriva, allineando tutte le banalità senza dimenticarne alcuna. La competitività, il merito (anche se lo valutano gli incompetenti), il mercato: tutti surrogati della guerra. Pensieri bellicosi in anime pavidamente perdute, di computisti travet della finanza, in qualche caso onesti impiegati saliti troppo in alto, leggeri e senza idee proprie. Senza passione. Almeno senza quelle passioni che ci rapirono alla quiete borghese, facendoci abitare povere case di periferia, strade presto deserte e tristi quartieri di speranze e di pena.

Però quelli erano i territori – disabitati adesso – della rivoluzione e della poesia. Arena di passione; padiglioni della bellezza e di indicibile amore e ci scoppiava il cuore ogni giorno passandoci e guardando il futuro. E che ne è stato? Sarebbe comodo dire semplicemente: nulla. No! Siamo arrivati all’abominio di conferire il potere ad ignari computisti e a professori di normale fama e di non certificata eccellenza, senza titolo alcuno di capacità governativa, se non quello di essere nel “giro” delle cooptazioni. Pronti ad afferrare il potere che passa, tal quali i vecchi marpiones della rinnegata politica d’antan.

Oggi siamo preda di una politica così distante dall’umano, da potersi racchiudere nell’algida (e deprimente) parola “agenda”. Una sorta di diario dei compiti assegnati da altri, con l’obbligo di svolgerli presto e bene. Così per stare meglio chiudiamo gli ospedali; per viaggiare riduciamo le corse dei treni popolari, privilegiando il lusso dei pochi che hanno due uffici: una a Roma e uno a Milano o dintorni. Per essere bravi tagliamo i posti di lavoro e gli stipendi, alziamo gli estimi catastali (giusto in sé), ma queste case che dovrebbero valere di più, aprono le loro finestre su strade immonde di rifiuti e soffocate dalle invisibili polveri sottili che uccidono e fanno male.

Parlano di libertà questi vecchi compagni di scuola che quando occorse, non ebbero il coraggio di sperimentarla. Confondono la libertà de los sfigatos con quella del portafoglio dei padroni. Ci parlano di libertà mentre siamo controllati in ogni nostra minima e insignificante azione e anche la sinistra non manca di promettere più soldi per la sicurezza, volutamente nascondendo dietro questa parola il suo vero significato: repressione. Oggi non c’è bisogno delle spie dei condomini o della Stasi, basta un telefonino, un pc, un telepass, una carta di credito, un bancomat o semplicemente camminare per strada per essere “tracciati” che poi sta per “spiati”.

Siamo diventati una società di disciplinati (d’altra parte governano i “professori”) assai più di quanto furono disciplinati gli uomini e le donne della Contro-Riforma per restare all’ingiusto linguaggio di una leggenda nera storiografica, in realtà assai più chiara di questo ingiusto presente.

La bellezza abbiamo perduto per sempre. Ed in mano non abbiamo i fogli sparsi della poesia, ma un’agenda. I compiti da svolgere subito per fare finta di essere sani; dimenticando pure le parole elementari della democrazia.

Ma la notte oramai è sempre più fonda e invasa dalle nebbie senza più l’eco della musica e di un canto. Il freddo adesso scende sul cuore e l’immagine di Zorba che danza in riva al mare si spegne. Il mito è senza più luoghi e – cito  – “muore anche il mare”.

 

 

 

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