L’oggi del cristianesimo

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“Papa Francesco nella sua recente enciclica Fratelli tutti chiarisce autorevolmente, sia pur con breve cenno, «che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri» (74). In sostanza, l’appartenenza alla chiesa, a qualunque livello, non è garanzia di fedeltà al Signore”.

L’autore, direttore della storica rivista genovese “Il gallo”, propone una tagliente riflessione su come possiamo pensare e vivere il cristianesimo oggi

 

 

…Colui che nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti (Sepolcri vv 159/160)

 

Con queste parole, chiuse in nemmeno due versi, Ugo Foscolo, nel suo più celebre carme, apprezza in Michelangelo, sepolto nella fiorentina basilica di Santa Croce, uno dei «forti» capaci di accendere «a egregie cose» gli uomini di forte sentire. L’altissimo elogio a Michelangelo, espresso nella metafora foscoliana, considera la cupola di San Pietro una costruzione per gli dei («a’ Celesti»), evidente allusione allo spirito paganeggiante della chiesa di Roma, committente ben nota all’artista che ne frequentava i piani altissimi. Partirei da qui per qualche nota sulla profonda contrapposizione – non voglio dire potenzialmente scismatica – presente nel cattolicesimo contemporaneo.

 

Nel nome del Signore

Chiamiamolo paganeggiante o con altro aggettivo, c’è nel cattolicesimo lungo i secoli una dimensione identificante non radicata nell’evangelo e che non ha a che vedere con il peccato individuale, sia pure commesso dai vertici. Un tradimento, uno stupro, diciamo pure un assassinio, commessi anche dal papa, restano peccati, gravi fin che si vuole, ma imputabili a un singolo colpevole o, se si vuole, peccatore. Stabilire alleanze con personaggi o forze politiche responsabili di delitti, di guerre, di ingiustizie sociali, o anche imporre il voto al partito cattolico è molto più grave perché coinvolge la chiesa, ma si tratta ancora di azioni e comportamenti evidentemente opposti alla volontà del Signore, anche quando pretesi in suo nome.

Ma quando parliamo di strutture ecclesiastiche, di organizzazioni e istituzioni create in nome della chiesa «per volontà divina», sia la sacra Inquisizione, sia il commercio delle indulgenze, siano le crociate – forse Urbano II non ha mai predicato: «Dio lo vuole!», e si è data una copertura religiosa a guerre mosse da altri interessi, ma comunque lasciate credere volontà di Dio –, siano le conversioni brutalmente imposte con le armi, allora siamo su un altro piano. Follie indifendibili, per le quali tuttavia qualcuno tenta ancora assoluzioni storiche: la cultura del tempo, le necessità contingenti… La storia consente molte giustificazioni, l’evangelo no.

Ho posto queste osservazioni come esempi di quali delitti si possono compiere, e sono stati compiuti, nel nome del Signore, con in mano il crocifisso: orrori ormai memorie storiche, forse più per merito del liberalismo che della riflessione interna alla chiesa, per i quali è stato chiesto perdono già da Giovanni Paolo II. Vale poco una richiesta di perdono che non porta nessuna conseguenza, tuttavia è almeno una presa di distanza. E papa Francesco nella sua recente enciclica Fratelli tutti chiarisce autorevolmente, sia pur con breve cenno, «che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e ritenersi più degna degli altri» (74). In sostanza, l’appartenenza alla chiesa, a qualunque livello, non è garanzia di fedeltà al Signore. E ce lo avevano già detto, fra i molti, Dante e Manzoni.

 

Senza fondamento evangelico

Ma il centro del discorso ora è un altro. Mi riferisco a tutto quello che è sempre stato fatto credere come essenziale per la salvezza e immutabile nel tempo, mentre si tratta solo di strutture storiche e senza fondamento evangelico. Non posso argomentare come sarebbe necessario a partire dalle dottrine teologiche e dai codici di diritto canonico. Mi limito a qualche grande evidenza la cui rimozione da una parte è considerata doverosa da chi pensa che il cristianesimo abbia ancora da dire, anche oltre la cristianità verosimilmente in dissoluzione; dall’altra qualunque aggiornamento in profondità è, viceversa, opera dell’anticristo, che si potrebbe nascondere perfino nel pontefice,  per i moltissimi, educati a quelle forme, dottrine, strutture attribuite alla volontà divina.

Faccio qualche esempio, attraversando piani molto diversi. Parlo dello Stato pontificio, dell’istituzione dei cardinali, i prìncipi della chiesa, del sacerdozio come potere sacro, ma anche del catechismo come verità definite e precettistica da osservare, della liturgia fatta di parole estranee alla nostra cultura, della mensa eucaristica trasformata in culto celebrato sull’altare, i sacramenti amministrati ai bambini, il culto dei santuari, la suntuosità dell’apparato liturgico: per continuare, ciascuno, che condivida o rifiuti, pensi alle proprie esperienze.

Aggiungo, per inciso, che nel nuovo testamento la parola sacerdote compare soltanto riferita ai sacerdoti ebrei e, in un solo caso, a Gesù Cristo, unico sacerdote, nella lettera agli Ebrei; e così pure la parola altare non compare nel testamento cristiano.

Non vorrei dare l’impressione di superficialità e mi rendo ben conto della complessità del problema; se qualche elemento  materiale, qualche organizzazione sono necessari, e se non si può demolire da un momento all’altro quello che si è predicato per secoli, occorre una purificazione radicale per presentare ancora un dio credibile. Si tratta quindi di due elementi caratterizzanti delle religioni, importati nel cristianesimo che li aveva esclusi.

Il cristianesimo nel corso dei secoli è diventato religione nazionale, l’appartenenza alla quale era fattore necessario per la cittadinanza; non c’erano persone che volessero essere considerate per bene che potessero esserne fuori. Chi non frequentava la messa festiva, non si sposava in chiesa, non seguiva la regola del mangiare di magro al venerdì era additato come persona poco affidabile. La religione era uno strumento di controllo e di ordine sociale: naturalmente questo imponeva un comportamento verificabile, ma non poteva garantire un’adesione personale, una scelta di fede, né la disponibilità per una vita diversa, a cui chiama Cristo.

 

Il cristianesimo non è questo

Questo comporta una coestensione della religione alla società, definita nel passato pancristiana, riflessa perfino nell’urbanistica, nella toponomastica, nel calendario. Oggi ne sopravvive qualche traccia nei concordati e nelle grandi feste, delle quali peraltro, comprese Natale e Pasqua, non tutti ricordano neppure l’origine. Parlo naturalmente della società occidentale, perché, per esempio, nel mondo islamico il controllo sociale della religione sopravvive, informa i costumi anche privati, compreso l’abbigliamento e viene riconosciuto nelle costituzioni.

Una seconda alienazione storica del cristianesimo consiste nell’aver assunto un carattere di molte religioni: essere proiezione di quanto l’umanità non riesce a realizzare – Dio è onnipotente perché l’umanità non può esserlo, è giusto perché gli uomini non riescono a esserlo – e offrire la tutela dai pericoli e dalle malattie e non solo nei tempi in cui la vita era davvero «una valle di lacrime». Già, se non per questo, a che serve la religione? É così necessaria, spiega Ludwig Feuerbach, che l’umanità si inventa dio, senza averne nessuna certezza.

La teologia dei meriti comporta un do ut des: chi ha delle necessità, tutti, ne richiede l’esaudimento offrendo qualcosa in cambio, preghiere, fioretti, penitenze, offerte. Tutto comprensibile, perché, nella fragilità dell’esistenza, qualche sicurezza aiuta a vivere. Questa idea di religione motiva la nota definizione marxiana di «oppio dei popoli», lenimento alle sofferenze dell’esistenza senza pretese di rendere i rapporti sociali meno ingiusti.

Sono esigenze e aspetti da tenere in considerazione anche mentre si richiama che Cristo chiede e offre altro: libera scelta di adesione a lui e conversione continua, per cambiare sé e il mondo. Certamente in duemila anni di cristianesimo la chiesa non si è identificata con le grandi battaglie di liberazione, di equità, di pace e le sue bandiere non sono state la gratuità e la misericordia.

L’amico teologo Gianfranco Bottoni, e non è il solo, afferma che, alla domanda se il Dio che abbiamo predicato è il Dio di Gesù Cristo, occorre rispondere di no, con tutta l’ammirazione e la riconoscenza per chi invece lo ha testimoniato con passione e coraggio. Ne scendono infinite conseguenze e urgenze: forse chi, con rimpianto o senso di liberazione, ha rifiutato la religione e svuotato le chiese ha abbandonato un dio diverso da quello di Gesù, lontano da quelle parole e da quei culti che vi si praticano.

La chiesa, alla quale tuttavia siamo debitori della trasmissione integrale del messaggio originale, ha sempre conosciuto forti esperienze di fede e superficiali pratiche devozionali: oggi nella  cultura, tecnologica, razionalista e capitalistica, che rimuove il senso del sacro e abbandona le pratiche religiose, si contrappongono chi ritiene che un cristianesimo per il futuro possa essere solo nella rimozione delle sovrastrutture storiche e chi, invece, identifica il cristianesimo nelle strutture storiche e ritiene che la sopravvivenza sia proprio nella fedeltà alle tradizioni.

La ricerca di nuovi linguaggi e nuovi istituti, anche lontani da quelli che per secoli hanno identificato la chiesa, ma dialoganti con la cultura del nostro tempo, si contrappone alla determinazione di chi soffre perfino dei modestissimi cambiamenti introdotti dall’inizio dell’avvento nell’ordinario della messa, dopo aver preso largamente le distanze dagli aggiornamenti portati dal concilio Vaticano II. Con la consapevolezza dei rischi della schematicità, possiamo dire che la linea di demarcazione è fra chi crede nell’evangelo e chi crede nella chiesa, meglio in alcuni aspetti della sua storia considerati eterni e, in quanto tali, immodificabili.

 

La posizione di Bergoglio

Jorge Bergoglio, vescovo di Roma, ha tentato nei sette anni del suo pontificato, di restituire il primato assoluto all’evangelo, seguendo l’aggiornamento avviato dal concilio, ma senza sostanziali innovazioni dottrinali e strutturali. Il forte richiamo all’etica, l’apertura all’originalità dello Spirito, la denuncia della corruzione politica e della devastazione dell’ambiente, il richiamo alla coerenza e alla misericordia lo fanno segno di contraddizione e hanno scatenato contro di lui odi furiosi, anche da vescovi e cardinali. Ha tentato – e vedremo con il suo successore con quanta efficacia – di portare aria evangelica in strutture che, senza riforma dall’alto, immagina di svuotare dall’interno.

É naturalmente facile accusarlo di indigesti balzi in avanti (papa eretico) e di eccessiva prudenza (conservatore con un linguaggio desueto). Presuntuoso insegnare al papa a fare il papa, come si dice, e sembrano consolanti e impraticabili fantasie, sogni lontani da qualsiasi fattibilità, quelle ipotesi di radicali trasformazioni della figura del pontefice avanzate in famose opere di narrativa fantareligiosa. Ripenso, per esempio, a Nei panni di Pietro di Morris West, Celestinio VI di Adriana Zarri, titolo di una precedente opera di Giovanni Papini, o al profetico Habemus Papam di Paolo Farinella, pubblicato nel 2012 e il cui protagonista si chiama Francesco.

 

Un cristianesimo per oggi

Personalmente, sono convinto che solo un cristianesimo liberato dalle incrostazioni accumulate nei secoli della sua storia possa parlare alle nuove generazioni e mi sento vicino ai grandi innovatori, Hans Küng, Raimon Panikkar, Andrés Torres Queiruga, per fare qualche nome. Un cristianesimo lontano dal fondamentalismo e fondato sulla Scrittura a proposito della quale già nel VII secolo papa Gregorio Magno sosteneva che «cresce con chi la legge». La Scrittura quindi deve essere studiata all’interno delle culture in cui i settantadue libri che la compongono sono stati scritti e deve animare spiritualità e prassi nelle epoche che attraversa.

La pratica dell’amore, realizzabile nel privato e nelle scelte della buona politica, come cerca di dimostrare Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, sarà la cifra identificativa di un cristianesimo senza pretese di parole ultime, perché sempre abbiamo davanti uno specchio in frantumi. Una nuova presenza nel mondo manterrà la centralità della croce, non sacrificio richiesto ma supremo atto d’amore, e si esprimerà con linguaggi e istituti nei quali, come afferma Panikkar, i fedeli di oggi potrebbero faticare a riconoscersi.

La gradualità e la pazienza favoriscono un’evoluzione credibile, rispettosa dei tempi di ciascuno. Senza escludere nessuno, si potrebbe cominciare oggi con determinazione a cercare un nuovo linguaggio per le omelie, non incoraggiare pratiche devozionali, imparare a decidere insieme – Francesco parla di sinodalità -, dare spazio a nuove esperienze, per evitare, come temeva Emmanuel Mounier già negli anni cinquanta del secolo passato, che il cadavere del vecchio soffochi il nuovo che nasce. La spiritualità non è contenibile in una dottrina e «non si può credere in Dio come liberatore senza impegnarsi nella sua lotta contro l’oppressione e la sofferenza (Queiruga).

 

Ugo Basso

 

 

 

 

One Comment

  1. Condivido. L’importante è non aspettarsi che il cambiamento venga da chi oggi detiene il potere gerarchico nella Chiesa. Francesco ha aperto strade che è il laicato a dovere percorrere. Non abbiamo moltissimi strumenti ma le associazioni cattoliche (dall’AC, all’AGESCI al Movimento dei Focolari ecc.) hanno il dovere di parlare con parresia e avanzare proposte e dare vita a pratiche che favoriscano il cambiamento. So che qualcuno comincia ad alzarsi in piedi durante un’omelia e contraddice a voce alta ciò che afferma il presbitero. Probabilmente non è lo strumento migliore ma dà l’idea di una comunità che non è più disposta a subire. Un esempio più efficace e costruttivo l’ha dato il Coordinamento delle Teologhe italiane che ha promosso un corso di “Teologia delle donne” che ha avuto 800 iscrizioni. E ha insegnato come si può decostruire un certo modo di pensare il cristianesimo. Per ricostruirlo su basi più fedeli al Vangelo.

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