Lo spirito del sindacalismo

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Intervista  a Sandro Antoniazzi, per trent’anni dirigente sindacale della Cisl, autore del libro fresco di stampa “Lo spirito del sindacalismo”, edito da Cittadella Editrice, pp. 112, euro 10. Oggi Antoniazzzi è responsabile dell’associazione Comunità e Lavoro, aderente alla rete c3dem. L’intervista è uscita sul giornale della Cisl di Milano

 

Perché un libro sul sindacato? E perché  un titolo poco usuale che parla dello “spirito” del sindacalismo?

Sono in corso cambiamenti  profondi della economia e della società, che continueranno ancora per molto tempo. Il sindacato si trova al centro di queste trasformazioni e fa del proprio meglio per difendere i lavoratori. E’ evidente che in queste condizioni la sua azione è sostanzialmente difensiva; ma fino a quando questo potrà durare?  Personalmente penso che occorra una riflessione profonda del ruolo del sindacato; stanno probabilmente esaurendosi determinate funzioni  ed è necessario assumerne delle altre. Non è detto che il ruolo assunto dal sindacato negli ultimi 50 anni sia l’unico e sia quello più importante nella  nuova situazione.  Ritornare sulle origini e sulla storia del sindacato può essere utile per  portare uno sguardo diverso sull’azione del  sindacato. Ecco il perché del richiamo allo spirito del sindacalismo.

E da questo ritorno alle origini, quali sono gli insegnamenti e gli stimoli che se ne ricavano?

Se guardiamo ai grandi motivi che hanno determinato la nascita del sindacato, vediamo non solo come essi siano tuttora validi, ma come oggi siano ancor più rilevanti. Li possiamo riassumere in quattro grandi temi:  1) combattere l’ingiustizia e le condizioni disumane di vita e di lavoro

2) contrastare il rapporto di dipendenza dei  lavoratori dal capitale

3) opporsi al liberismo sfrenato che imperversava

4) ricostruire dei legami di solidarietà in sostituzione dei  rapporti sociali precedenti e soppressi.

Se ci soffermiamo un momento su queste grandi questioni, vediamo quanto esse siano più che mai attuali.

 

Ti vuoi fermare  un attimo su questo problema?

 

Molto volentieri. Sulle condizioni di ingiustizia, ora che abbiamo una conoscenza e informazioni a carattere mondiale, ci accorgiamo che nel mondo del lavoro a tale livello le condizioni di ingiustizia non sono l’eccezione ma la regola.

Sul rapporto di dipendenza non possiamo dimenticare che se è vero che la situazione dei lavoratori in Occidente è molto migliorata, la loro condizione rimane nella generalità dei casi, una condizione di dipendenza; e ciò vuol dire ad esempio che in tempo di crisi come quello attuale le imprese possono licenziare migliaia e migliaia di lavoratori, ai quali rimangono ben poche possibilità alternative.

Il liberismo che nel corso di tante lotte politiche e sociali eravamo riusciti a contenere, in questi ultimi decenni è ritornato a  emergere come la dottrina dominante e incontrastata a livello mondiale.

Infine è sotto gli occhi di tutti la crescente diffusione dell’atteggiamento individualistico; non sembra più soddisfacente  lo sforzo collettivo e solidale e una idea di vita improntata alla convivenza fraterna e molti pensano  che sia meglio chiudersi in  difesa dei propri averi e del proprio mondo.

Come si vede c’è molto lavoro da fare per il sindacato.

 

Che cosa può fare il sindacato e come può attrezzarsi per affrontare questi problemi?

 

Vale la pena di ritornare un momento sulla storia del sindacalismo. Quando sono sorte le prime organizzazioni, il motto che le distingueva  era “l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa” . Ma poi l’egemonia del pensiero marxista, sia nella sua versione socialista che nella versione comunista, ha dato priorità e potere assoluto al Partito, relegando il sindacato, e con esso i lavoratori, a un ruolo subalterno e secondario.

Oggi questi partiti-guida, che hanno dominato per un intero secolo,  non ci sono più; ne rimangono però le conseguenze, che limitano il sindacato nell’affrontare le questioni odierne.

Due sono le eredità di cui il sindacato deve liberarsi per riprendere appieno la sua forza e la sua autonomia:

1)      Innanzitutto bisogna ridare una primaria importanza ai lavoratori, che costituiscono la sola vera forza del sindacato: la “emancipazione” dipende da loro. Analogamente al detto delle imprese “diventate imprenditori di voi stessi”, i lavoratori devono diventare gli attori primi del loro destino e promotori di un lavoro più umano.

2)       In secondo luogo la tradizione che abbiamo ricordato ha realizzato una rigida divisione dei ruoli, per  cui la politica doveva far capo ai partiti e ai sindacati spettava la difesa delle condizioni di lavoro. Ma ora che non ci sono più questi partiti e non esiste una politica all’altezza dei problemi che si pongono da una parte e dall’altra si palesa non più sufficiente il ruolo di difesa del sindacato, che  cosa si deve fare?

La risposta del libro è quella che il sindacato debba assumere in proprio il compito di elaborare  una proposta di politica economica e sociale; e naturalmente per svolgere questo ruolo – tanto complesso quanto oggi indispensabile – debba attrezzarsi  in modo molto più ampio e adeguato.

 

Ma quali sono le funzioni o la funzione che il sindacato dovrebbe assumere in futuro?

 

Innanzitutto ricordiamo che la funzione che il sindacato  (tutti i sindacati in Italia e in Occidente al di là del colore e delle ideologie)  ha  svolto in modo positivo in questo dopoguerra, è stata quella di ripartire in modo equo la ricchezza prodotta: il sistema economico produceva ricchezza e il sindacato la traduceva in benessere per i lavoratori, sia cogli aumenti salariali e il miglioramento delle condizioni di lavoro, sia con lo sviluppo dello stato sociale.  In termini economici, il sindacato si occupava della distribuzione, non della produzione.  Ma se di sviluppo ce ne è molto poco  (per cause tecnologiche, per lo spostamento in altre parti del mondo, per i limiti ambientali e di risorse che man mano emergono) la  distribuzione dei risultati produttivi diventa meno importante e l’attenzione deve ritornare sulla produzione , sul tipo di sviluppo  e sulla occupazione, entrando dunque nel merito di che cosa si produce, come si produce e come sia possibile una ripartizione della ricchezza sociale sempre meno dipendente dalla produzione industriale.

 

Ma il sindacato come può riuscire in questa impresa?

 

Anche in questo caso è bene  ritornare su un problema storico, ma per parlare concretamente dell’oggi. Nel movimento dei lavoratori per lungo tempo  ha dominato l’idea (marxista) che la classe operaia  fosse il soggetto deputato a trasformare il mondo: oggi non ci si crede più e non se ne parla più.

Ciò che è grave è che si è passati da un’ esaltazione sproporzionata a una totale negazione.

Ora, a mio parere, la classe lavoratrice non è “il soggetto” unico e esclusivo del cambiamento sociale, ma “un soggetto” che con altri può contribuire alla trasformazione della società.

Riconoscere questa proposizione sarebbe molto importante per ridare un ruolo da protagonista  al sindacato (ruolo indispensabile perché i lavoratori mondiali sono oltre 3,5 miliardi e perché lavoro ed economia sono due facce della stessa medaglia) e anche per indicare un’importante strategia e metodo di lavoro.

Se il sindacato è “uno” dei soggetti” del cambiamento è importante il rapporto cogli altri soggetti  sociali, politici, culturali che hanno a cuore la realizzazione di una società più giusta sul piano sociale e umano.

Non si tratta di realizzare mescolanze confuse, ma di apertura e di dialogo culturale per cogliere il meglio di ciò che avanza  e quindi essere in grado di svolgere il proprio specifico ruolo in modo adeguato ai tempi.

Tutto cambia nella società: non si può essere all’altezza dei propri compiti senza  essere disposti continuamente a cambiare.

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