L’Assemblea Cisl non sia autoreferenziale

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Per il prossimo novembre è convocata  l’Assemblea Organizzativa Nazionale della Cisl. Tradizionalmente  l’Assemblea Organizzativa, a metà percorso tra un Congresso e l’altro, discute lo stato dell’organizzazione, ma non manca di pronunciarsi sullo stato più generale del sindacato.

Ora non c’è bisogno di grandi analisi per constatare che il sindacato si trovi oggi ad attraversare un momento  difficile. Da anni la sua azione è sostanzialmente difensiva di fronte a una situazione economica perennemente critica, a governi  reticenti al dialogo, a rapporti unitari giunti al loro minimo storico. Così i sindacati sono visti dall’opinione pubblica sempre di più ripiegati su se stessi, istituzioni utili, ma come tutte le istituzioni a rischio di burocratizzazione, con gli inevitabili episodi di deterioramento.

Per questo un’Assemblea Organizzativa oggi non deve  guardare solo all’interno, non deve essere autoreferenziale, perché darebbe corda proprio a questa critica, ormai diffusa e quasi pregiudiziale.

In realtà, più che un’Assemblea Organizzativa, ciò di cui il sindacato avrebbe bisogno  è un Congresso dedicato in modo esclusivo alle idee; un Congresso ideale e programmatico che definisca che cosa il sindacato vuole e deve essere in questa fase storica, per i prossimi dieci, venti anni.  Non sarà possibile trasformare l’ Assemblea Organizzativa  in questo senso, ma bisognerebbe parlarne e magari prendere un impegno per il futuro. Un Congresso straordinario, di tipo nuovo, che lasci un segno  importante di innovazione nel mondo del lavoro e nella società italiana.

Si possono chiedere aiuti anche a studiosi amici, nazionali e internazionali, per mettere a fuoco un disegno programmatico sostanzioso, che costituisca poi il riferimento autorevole per il prossimo futuro. Molti sarebbero in proposito i temi da affrontare. Mi permetto di segnalarne tre essenziali.

Innanzitutto quello della partecipazione dei lavoratori nelle imprese (dei lavoratori prima e poi del sindacato), di tutti i lavoratori e le lavoratrici, di ogni genere, categoria, lavoro e territorio, perché la partecipazione dei lavoratori vuol dire la loro valorizzazione, la loro dignità, la loro libertà. Non abbiamo la democrazia in azienda: la partecipazione è quanto di più le assomiglia. E inoltre il lavoro prevalentemente relazionale e cognitivo dei nostri giorni rivaluta il ruolo delle donne, quelle di tante categorie spesso ai margini, richiede la partecipazione della persona  (il lavoro relazionale è un rapporto con le persone, non colla macchina). E’ il momento di sollevare una proposta di alto livello a riguardo.

In secondo luogo con più coraggio (Davide contro Golia) va affrontata la necessità  di trasformazione dell’economia. Questa economia funziona fuori da ogni regola, generando diseguaglianze inaccettabili,  provocando grandi problemi di occupazione, di reddito, di squilibri territoriali, di ingiustizie a livello planetario. Il sindacato non può più limitarsi a distribuire la ricchezza che viene prodotta; deve preoccuparsi della formazione del reddito, dell’equità, della distribuzione del lavoro. Non può più solo godere dei frutti dell’economia, bisogna mettere le mani dentro l’economia. Battaglia nuova, dura, impegnativa che impegna tutto il sindacato (e naturalmente tutti i sindacalisti, a uno a uno, nessuno escluso, che devono essere all’altezza del compito).  Il sindacato deve decidere di dare una battaglia storica per realizzare un’economia umana. Si presentano decenni di lotta, ma attorno a questa bandiera si raccoglieranno le forze migliori per la battaglia “politica” più importante da giocare nella nostra società.

In terzo luogo occorre che il sindacato esprima una concreta, realistica, quotidiana visione mondiale. Un esempio veramente notevole a riguardo è costituito dal pensiero di Papa Francesco, che in molti casi si presta  ad un trasferimento in termini politici e sociali. Non si tratta solo di prestare più attenzione ai problemi internazionali, quanto di costruirsi un pensiero e un modo di vedere che sia originariamente non d’impronta nazionale o occidentale, ma aperto agli altri popoli e alle altre culture. Occorre diffondere nel sindacato una pedagogia  adeguata. L’urgenza e l’importanza di questa scelta è data da un fatto evidente e incontrovertibile: molti dei problemi che gravano sulle nostre società ed economie hanno una dimensione mondiale e molte decisioni vengono prese a questo livello. Ora, a livello mondiale si gioca una strana partita dove scende in campo una squadra sola, quella liberista (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, multinazionali, banche e finanza mondiali); l’altra squadra, quella sociale, non si presenta e per un solo e solido motivo, perché non esiste. E non esiste perché il capitale non ha difficoltà a spostarsi e organizzarsi a livello mondiale, ma così non è per le masse di lavoratori.

Non possono essere  qualche ufficio internazionale e  pur benemerite organizzazioni  mondiali (fra l’altro estremamente deboli rispetto  al compito) a superare questo squilibrio: occorre trovar il modo per  rendere attivi milioni e milioni di lavoratori per questa prospettiva, per questa battaglia. Problema che sembra fuori dalle nostre possibilità, ma che al contrario non solo è possibile, ma necessario e fa parte delle nuove prospettive che il sindacato deve aprire.

Fa parte di quegli orientamenti del mirare alto che soli possono  far uscire il sindacato dalle secche attuali e restituirgli un ruolo decisivo nel riformare l’economia e affermare una società più umana.

 

Sandro Antoniazzi

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  1. Condivido, assieme alle ragioni che motivano l’invito di Sandro Antoniazzi perché l’Assemblea Organizzativa della CISL non sia autoreferenziale, anche i tre temi da lui indicati come essenziali, da discutere in quello che chiama “Congresso ideale e programmatico che definisca che cosa il sindacato vuole e deve essere in questa fase storica, per i prossimi dieci, venti anni”.
    Se il Congresso sia o meno lo strumento idoneo per queste finalità è tema che lascio volentieri ad altri. Ciò che mi interessa è che la CISL individui una sede, un luogo, un’agorà in cui affrontare il presente e il futuro del sindacato avendo l’ambizione di lasciare un segno importante di innovazione nel mondo del lavoro e nella società italiana.
    Se questa è l’ambizione, almeno altri tre temi vanno esplicitati e aggiunti a quelli indicati da Antoniazzi:
    1) la necessità che si faccia piena chiarezza sulle sconcertanti vicende che hanno danneggiato l’immagine della CISL a partire dalle dimissioni a cui è stato costretto Savino Pezzotta dopo soli sei mesi da un Congresso in cui aveva ottenuto più del 95% dei voti, dalle rapide dimissioni di Bonanni, dal come e perché del suo maxi stipendio, dallo scandalo dei maxi stipendi di altri dirigenti CISL, evidenziati dalla denuncia di Silvano Scandola e per questa ragione espulso dalla CISL, dalla mancata trasparenza sui livelli retributivi, sui rimborsi spese e l’uso delle carte di credito all’interno dell’organizzazione. Tutto ciò risponde a fondamentali esigenze etiche e morali che costituiscono il patrimonio di credibilità di un sindacato come la CISL, patrimonio che è stato messo in discussione dai fatti richiamati e va ricostruito.
    2) Le trasformazioni in atto nel modo del lavoro e nel modo di produrre, non da oggi e sempre più nel futuro immediato e prossimo, pongono come urgente il tema del rapporto tra l’occupazione e l’orario di lavoro. Secondo il FMI il nostro Paese impiegherà venti anni per ritornare al livello di disoccupazione precedente la crisi del 2008. Non è certo possibile pensare di avere un tasso di disoccupazione totale del 12% e una disoccupazione giovanile del 44% e contemporaneamente avere un orario di lavoro settimanale di 40 ore, così definito nei primi anni ‘70 del secolo scorso, mentre nel frattempo il mondo del lavoro è profondamente cambiato. Quando la disoccupazione assume queste dimensioni e le mantiene per così lungo tempo significa che essa ha assunto dimensioni strutturali e che i vecchi, pur se collaudati strumenti di tutela del lavoro, da soli non bastano più, ma occorrono interventi nuovi di carattere strutturale, come tale è la riduzione dell’orario di lavoro. Perché non ipotizzare che sia possibile, con tutta la gradualità opportuna, spostare le risorse oggi destinate al finanziamento degli interventi di tutela del lavoro e contro la disoccupazione, sugli interventi di riduzione dell’orario di lavoro decisi dalla parti per mantenere e sviluppare l’occupazione? E questa riflessione e proposta se non la fa il sindacato, che la deve fare?
    3) Quello che stiamo vivendo è un tempo nel quale assistiamo ad uno spudorato anti sindacalismo, predicato e praticato da destra e da sinistra, ed è questo un indizio ulteriore della metamorfosi che attraversa la democrazia italiana che un po’ stupisce e molto addolora. Tutto ciò pone come urgente il tema dell’autonomia del sindacato e del suo rapporto con la politica, ma pone come indilazionabile il tema dell’unità tra CGIL, CISL e UIL. Tema difficile? Sicuramente, ma sarebbe un fatto molto positivo se CGIL, CISL e UIL facessero molto meno di quanto fanno per dividersi e molti di più di quanto non fanno per unirsi. La difesa del sindacalismo e dei suoi valori tocca anzitutto alle organizzazioni sindacali che devono avere il coraggio di cambiare, di agire in modo virtuoso, di riformarsi nelle strategie per ampliare la democrazia interna rompendo la tendenza al formarsi e consolidarsi di una oligarchia interna, per diventare sempre più un soggetto generatore di forme partecipative nella società e nei posti di lavoro. Perché non ritenere possibile, oltre che storicamente inevitabile, il superamento delle attuali sigle sindacali attraverso la nascita di un sindacato unitario con oltre 11 milioni di iscritti? Nessuno, né Governo, né politica, né Confindustria, potrà più dire “se ne faranno una ragione”. Difronte alle grandi trasformazioni che attraversano l’economia e investono la politica, questa è la condizione imprescindibile che consente al sindacato di essere promotore e artefice non solo del nuovo “contratto sociale”, richiesto dai cambiamenti in atto, ma anche di un nuovo “patto di cittadinanza” perché le idee di progresso economico, politico, sociale e civile, così come quelle della giustizia sociale e difesa della dignità e della crescita delle persone, chiamano in causa la società in quanto realtà unitaria e non solo una parte di essa.
    R. Vialba
    20 ottobre 2015

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