La scossa che sta percorrendo il mondo cattolico: il “Manifesto politico dei 500”

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Un «partito cattolico benedetto dal Vaticano»? No. Si tratta di una insolita fretta del quotidiano La Repubblica che, in luogo della prudenza dovuta, in un articolo pubblicato il 31 ottobre, già nel titolo dice cose fuorvianti. Il pretesto per fantasticare sul futuro (politico-partitico) dei cattolici impegnati nella società è stata la presentazione del Manifesto “Per la costruzione di un soggetto politico ‘nuovo’ d’ispirazione cristiana e popolare”. Che è chiaro già nel suo preambolo: «quello che segue è un Manifesto, e non (ancora) un Programma Politico. Esso mira a definire l’orizzonte entro il quale il nuovo soggetto politico intende muoversi per giungere ad articolare le policies e per chiarire il suo modo di agire».

È evidente che siamo in una fase di grandissimo movimento e di scomposizione del sistema politico italiano, il che non è necessariamente negativo («grande è la confusione sotto il cielo: quindi la situazione è eccellente» se vogliamo chiedere in prestito una frase al già citatissimo Mao Tse Tung). È interessante in questa fase capire verso quali forme c’è una ripresa di ruolo e di peso dei cattolici nella vicenda politica. Titoli come quelli di Repubblica che danno già per scontato la direzione di marcia non aiutano.

Così come non aiuta dall’altro lato la proliferazione di sigle, la frammentazione fino ad atomizzarsi delle esperienze, perché in questa chiave non si mette assieme niente e ciò che prevale sono semplicemente i personalismi, le cerchie amicali per cui si ritiene di aver già fatto molto mettendo in sistema la propria agenda telefonica. Questo è il grande rischio che abbiamo davanti.

A frenare gli animi di chi inneggia a un nuovo partito dei cattolici, a una nuova DC, è lo stesso Stefano Zamagni (uno dei promotori assieme a Leonardo Becchetti e l’ex parlamentare Lorenzo Dellai del Manifesto dei 500): «al momento i firmatari del manifesto sono 500, per gran parte associazioni. Quando avremo chiuso le sottoscrizioni convocheremo un’assemblea che deciderà se far nascere una nuova forza politica» ha spiegato. L’economista e neo presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, in un’intervista a Formiche, ha anche smentito un coinvolgimento delle istituzioni ecclesiali in questo progetto: «Si tratta di un’iniziativa aconfessionale, che parte dal basso. È normale che la Cei segua attentamente, ma non avrà alcun ruolo diretto». Il Vaticano «non interverrà, perché riconosce la piena autonomia del laicato e non ha alcuna intenzione di indirizzare il consenso».

È importante questa scossa che sta percorrendo il mondo cattolico più impegnato per impedire che un intero mondo subisca una deriva verso il salvinismo. Se c’è una scossa del genere va bene.

La nostra sensazione è che anche il Manifesto dei 500 nasca proprio da questo e abbia, nei suoi obiettivi primari, quello di «ridare speranza alla nostra gente». È quindi un punto di partenza. L’argine al salvinismo (e al populismo) deve poi sviluppare tutta la possibilità di mettere assieme le persone. Come del resto si dice già nei primi punti del documento: «Riteniamo che oggi vi siano le condizioni per dare vita ad una nuova forza popolare aperta a credenti e a non credenti attorno ad un progetto politico di rinascita del paese e dell’Europa. Tale progetto dovrà emergere ed essere precisato tramite il confronto democratico ed il dialogo tra tutte le persone e le forze che si ispirano ai medesimi principi» enunciati nel Manifesto «superando le divisioni ed i personalismi del passato».

Repubblica ha troppa fretta, sbaglia e rischia di sminuire tutti i tentativi in atto di riportare la voce dei cattolici nello stretto politico dell’oggi. Etichettarlo come «partito cattolico» – che per la verità nessuno vuol fare – e dire che è «benedetto dal Vaticano» ha in realtà l’intento preciso di ridurne la portata.

È caduto nella stessa tentazione anche il Corriere della Sera che nell’intervista pubblicata domenica 3 novembre prova a stuzzicare il card. Camillo Ruini, proprio sull’opportunità o meno di dare vita a un partito dei cattolici. «Mancano i presupposti» ha tagliato corto l’ex presidente della Cei, aprendo però alla necessità di un maggiore impegno dei credenti nell’agone politico. «I cattolici possono operare all’interno di quelle forze che si dimostrino permeabili alle loro istanze».

Dovremo abituarci a leggere sempre più spesso “fantasiose” letture di quello che si muove nell’area cattolica? Può darsi, tenuto conto anche dei prossimi appuntamenti elettorali in alcune regioni italiane.

Il tema del rapporto tra cattolici e politica è un tema che deve essere assolutamente ripreso non tanto nella forma del rimpianto di un partito dei cattolici ma nella forma di un confronto culturale. È diventata ormai urgente una rialfabetizzazione del mondo cattolico rispetto ai grandi temi della politica, anche a partire dalle «macerie» del passato. Nuove generazioni di cattolici (giovani) sono impegnati a più livelli nelle comunità parrocchiali, nell’associazionismo, nel volontariato organizzato. Anche a loro e prima di tutto a loro dobbiamo tendere la mano e chiedere aiuto per estendere il più possibile il confronto su questi grandi temi. La nostra «piattaforma» C3dem è in prima fila, come sempre, per ospitare e continuare ad animare questo confronto.

 

Paolo Tomassone

2 Comments

  1. Il “Manifesto” contiene molte idee importanti e condivisibili, al di là del fatto che presenta qualche ambiguità sulle intenzioni future dal punto di vista “organizzativo” (il termine “soggetto politico” non chiarisce del tutto).
    Ma su questo probabilmente la riflessione è in corso e i promotori intendono lasciare aperte più opzioni.
    Ciò che mi dispiace un po’ è leggere, tra tante cose buone, una parte assai importante della seguente affermazione: “Molti dei problemi italiani sono dovuti a un sistema bipolare che ha provocato divisioni e divaricazioni nella società, senza assicurare la governabilità, e ha reso più difficile il rapporto degli eletti con i loro elettori e con i territori di riferimento. C’è dunque da definire un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale – con le dovute soglie – capace di ridare viva voce e piena rappresentatività a tutti i settori vitali della società, valorizzando il ruolo del Parlamento e degli organi elettivi ad ogni livello, nel quadro di una forte affermazione della democrazia rappresentativa e partecipata.”
    Sono d’accordo sulla centralità del Parlamento e della democrazia rappresentativa, sul dare voce alla società, ma il resto di tale affermazione non mi pare supportato sufficientemente da dati obiettivi.
    Provo perciò ad argomentare il mio pensiero.
    1. Il sistema elettorale maggioritario, poi normato col c.d. “Mattarellum” ha garantito in realtà l’alternanza di governi di centrodestra e di centrosinistra (al di là del giudizio di merito su di essi); quando l’esperienza di governo si è conclusa anzitempo o “trasformata” in corso, non è stato a causa del sistema elettorale, ma di difficoltà interne, tra cui la pervicace tendenza di alcuni gruppi politici alla frammentazione e a considerare prioritaria la loro identità rispetto alla mediazione con le altre forze, indispensabile per poter governare; oppure (si pensi all’ultimo governo Berlusconi), è stata l’incapacità politica ad affrontare i problemi del Paese a costringere alle dimissioni, non altro (quel Governo godeva di una maggioranza schiacciante). Giova ricordare che il referendum propugnato da Mario Segni” nel 1993 fu sostenuto da tutti i principali protagonisti del cattolicesimo democratico di allora e dalle realtà che essi rappresentavano (da Pietro Scoppola a Giovanni Bianchi da Romano Prodi a Rosi Bindi, i fucini, gran parte dell’Azione Cattolica, molte associazioni cristiano democratiche e sociali ecc.), e da due “pezzi da ’90” di questo “mondo” come l’allora Presidente Scalfaro e dall’on. Sergio Mattarella, attuale Presidente.
    Il sistema maggioritario “costringe ” ad alleanze prima del voto e proprio per questo è più trasparente verso i il/la cittadino/a, che sa per chi e per cosa vota, così come avviene nei Comuni e nelle Regioni. Le alleanze post voto, come abbiamo visto, pongono i cittadini come “spettatori” rispetto alle trattative successive ed essi nulla possono determinare riguardo alle alleanze e ai programmi. Una “delega in bianco” che a un altro grande studioso cattolico democratico come Roberto Ruffilli certo non sarebbe piaciuta.
    Certamente il sistema bipolare ha manifestato anche limiti e debolezze (ma, appunto: per colpa del sistema o per colpa di chi non ha voluto davvero applicarlo con rigore, assumendosene le relative responsabilità?), è stato in seguito abbandonato (con le conseguenze, però, che abbiamo visto). Si può – anzi si deve – discutere se oggi sia da riproporre e se sia ancora adeguato alla – purtroppo – situazione attuale dell’Italia: non c’è infatti un sistema elettorale valido per tutti i tempi (Sturzo e i Socialisti nel ’19 si batterono per il proporzionale e lo ottennero, come noto); ci mancherebbe. Ma prendere una posizione così critica, in un Manifesto di intenti, su un aspetto così specifico e su cui le opinioni, anche fra cattolici, mi sembra siano diverse, mi pare sinceramente eccessivo e poco coerente con l’impianto generale del Manifesto stesso. Mi auguro che un’affermazione così tranchant non sia figlia – magari come riflesso condizionato – della tendenza a giustificare il proporzionalismo in quanto in grado di meglio garantire la presenza politica di un eventuale nuovo, magari non grandissimo, partito.
    2. Altra affermazione davvero strana è quella sulla difficoltà di rapporto che ci sarebbe stata tra eletti ed elettori: se c’è un sistema che al contrario ha rafforzato questo legame è il maggioritario uninominale. Durante il periodo del Mattarellum (eccezion fatta per i “paracadutati”, altro problema serio ma non imputabile solo al sistema elettorale) si è verificato molto spesso un rapporto stretto tra il singolo o la singola Parlamentare e il suo territorio, in quanto gli eletti diventavano, di fatto, i rappresentanti di quel collegio. Semmai, il possibile difetto di tale impostazione è di non garantire sufficiente “pluralismo” e possibilità di “ricambio” (col rischio di solidificazione di un potere che diventa sempre più difficile scalfire) nelle aree in cui una determinata forza politica o schieramento è di solito prevalente. Ma tale problema sarebbe in parte risolvibile con una correzione della stretta proporzione 1 collegio=1 eletto, ma non è qui il caso di addentrarci. Certamente ciò che risulta difficile dimostrare è che il Mattarellum abbia allontanato eletti ed elettori.
    Per il resto del Manifesto, bene proporre, discutere e confrontarsi sulle idee che possono diventare linee condivise di impegno.

  2. Una precisazione: come spero si evinca dal testo, mi riferisco a un sistema maggioritario versione Mattarellum o simili, non certo al “Porcellum” con lunghi listoni bloccati. Se era quest’ultimo l’oggetto della critica del Manifesto, concordo; ma da ciò non discende, a mio parere, automaticamente una preferenza per il proporzionale puro.

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