La scomparsa dei cattolici dalla politica, secondo De Rita

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Da qualche tempo Giuseppe De Rita bacchetta i cattolici impegnati in politica per la loro scarsa rilevanza. Oggi, sul Corriere (“La scomparsa dei cattolici dalla campagna elettorale“), scrive che “l’appartenenza cattolica non è più il riferimento a un’anima collettiva di proposta politica”. Ne individua la causa nel loro prevalente statalismo, che poi significherebbe delega allo Stato a preoccuparsi del bene comune, rintanamento nel proprio privato, riununcia a dare alla fede religiosa una qualche rilevanza pubblica. Una posizione di comodo, passiva. E incapace di capire che oggi la logica politica è policentrica e si svolge per molti aspetti al di fuori dello Stato.

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  1. RISPONDENDO A DE RITA SULLA “SCOMPARSA DEI CATTOLICI DALLA POLITICA”

    Ho sempre portato molto rispetto alla storia intellettuale e alle capacità di analisi sociali impregnate di lungimiranza, a volte sofferta, di De Rita. Conservo una sua lettera di congratulazione per una mia ricerca sulle Tribune Politiche della Rai, e sono sempre stato un suo estimatore.
    Oggi tuttavia non posso fare a meno di registrare la sua nostalgia verso l’unita politica dei cattolici italiani. Il che non è un peccato, intendiamoci. Per De Rita è solo un modo per non fare sparire dal dibattito pubblico una nobile tradizione di pensiero politico laico.
    Questa tensione lo ha spinto, non da oggi, a ricercare una nuova “anima collettiva” del cattolicesimo politico italiano. Che poi è stato il filo conduttore dei tanti suoi intereventi sul Corriere, sin dalle prime avvisaglie di Todi 1, all’interno dei quali non si faceva fatica a scorgere addirittura il desiderio di una nuova Dc. Desiderio riproposto nel suo ultimo articolo sul C.s. del 28 gennaio, citato da questo portale, dove afferma con malcelato rammarico che in previsione delle elezioni politiche il mondo cattolico è “frantumato e disperso”.
    La ragione della dispersione? Secondo De Rita essa va attribuita ad una “debolezza culturale profonda”. Su cui non si può non essere d’accordo. Anzi, da sottoscrivere.
    Tutto allora sta forse a intenderci sui significati di “mondo cattolico”, al singolare, e di “debolezza culturale profonda”, anch’essa al singolare. Che a mio avviso non fanno i conti col raggiunto pluralismo, il quale pur slavato e gattopardesco, nominalistico, sempre pluralismo è.
    Mondo cattolico, per rimanere nella sfera politica, che rimanda dal primissimo Sturzo in avanti, ad un almeno “bipolare” e distinto cattolicesimo : quello cattolico democratico e quello clerico-moderato. Se poi si arriva ai nostri giorni si possono notare ulteriori sfumature e sensibilità. E si possono elencare oltre ai più accademici cattolicesimi, liberale, antiliberale, liberista, sociale, socialista e socialdemocratico, anche quelli strumentali come il cattolicesimo berlusconiano, il cattolicesimo leghista, ateo-devoto, clericale, tradizionalista di destra, progressista di sinistra, uno di centro per gli (ex) ceti medi, uno conservatore, uno moderato, ecc. Se poi ci spingiamo al cattolicesimo sociale, incontriamo un associazionismo storico ecclesiale, uno laicale, uno delle professioni liberali, uno delle imprese, uno del libero mercato, uno del non- profit e del volontariato, uno della scuola, uno di Reti in Opera, delle banche, ecc. ecc. Dunque mondi cattolici plurali. Ma anche, aggiungo, debolezze culturali plurali. Che tuttavia spiegano le “…varie strade e le innumerevoli liste”, nelle diverse elezioni politiche a cui accenna De Rita. Quasi sempre però con pochissimi rapporti verso una autentica ispirazione cristiana.
    Siamo allora sicuri che questa pluralità di mondi possa diventare una unica “anima collettiva” per perseguire una “unica proposta politica” e medesimi obiettivi tutti ispirati dal Vangelo di Cristo?
    O si nasconde per caso la volontà di convergere solo sui “principi non negoziabili” attorno ai quali si dovrebbe ritrovare il senso cultural-religioso di un anima collettiva e di una prassi politica, trascurando poi l’essenza della nostra democrazia laica liberale, delle nostre regole costituzionali e del nostro Stato sociale, e soprattutto l’assodato pluralismo delle scelte politiche del cattolico?
    La debolezza culturale apre invece interessanti spazi analitici sulla cultura secolarizzata del cattolico dei nostri giorni. In termini di appartenenza, norme, valori, comportamenti, attese e visioni del mondo, su cui varrebbe la pena di indagare a fondo. Spazi più complicati sicuramente, ma più stimolanti e su cui bisognerebbe insistere perché di più lunga durata. Ma anche spazi dove si registrano le contraddizioni più acute e insanabili. A partire dal fai-da-te rispetto alla precettistica della religone cattolica, sino alla crisi dei corpi intermedi in una economia di mercato finanziario globale, passando dal bene assoluto della società civile e dal male di quella politica, dall’enfasi sull’individuo confuso con la persona, dal più società e meno Stato. Dal meno partiti e più centri di autogestione sociale, dal meno politica e più post-politica, dal meno centralismo ma più presidenzialismo, ecc. dove però risulta sfumata la centenaria dottrina sociale della Chiesa, spesso citata a spizzichi e bocconi prendendo ciò che serve alle proprie tesi.
    Sia dunque lecito qualche dubbio sui motivi del “silenzio cattolico” e dei frammenti del cattolicesimo politico italiano.
    Quando infatti De Rita, dopo le sue storiche e memorabili analisi sulla questione meridionale, dopo le sue magistrali lezioni sulla eclissi della borghesia, sulla crisi delle istituzioni, ritorna alla società policentrica e poliarchica e allo sviluppo locale, non fa altro che ripetere un suo vecchio paradigma sociologico che ha entusiasmato diversi studiosi compresi quelli di complemento come il sottoscritto. Ma che oggi di fronte alla dimensione globale dell’economia e della politica, necessita di aggiornamenti. Alla luce del fatto, per esempio, che la Bce, il pareggio e i vincoli di bilancio, dettano ormai quelle regole che lo Stato e l’economia italiana subiscono senza diritto di parola e senza sovranità alcuna. E che una industria come la Fiat si trasferisce negli Usa per ottimizzare i suoi profitti lasciando sul lastrico migliaia di “corpi intermedi” a partire dalla famiglia.
    Innamorati del “glocal” risolutore, quando poi il globale è risultato rilevante e il locale raccatta briciole, abbiamo per un momento pensato alle due dimensioni come futuro delle società complesse. Al tempo degli Statuti regionali e delle successive municipalità cittadine, del Titolo V della nostra Costituzione, dei Distretti territoriali, questo paradigma sembrava dar conto di quanto in termini di policentrismo stesse succedendo in Italia. Facendo pensare che il policentrismo, la sussidiarietà in equilibrio, orizzontale e verticale, ( le famiglie, le tante città, le scuole, le diocesi e le Chiese, i tanti territori, la piccola e media impresa locale, i tanti poteri politici diffusi, ecc. ) fossero ormai a portata di mano, e che dello Stato centrale regolatore, dei poteri statali, nonché delle regole generali, potevamo fare a meno, in quanto il bene comune non era nient’altro che una conseguenza non voluta di azioni umane volute. Anzi meno poteri statali c’erano meglio si autoregolavano la società e il mercato. Non è proprio così. E non è andata così. Mentre invece è da qui che parte la critica allo statalismo e alla concentrazione del potere politico con tutta l’enfasi di ieri sul decentramento e sulle 100 città, che si trascina sino a oggi. Quell’oggi che vede Comuni e Regioni con l’ acqua alla gola poiché non si sono valutate bene le ricadute egoistiche di istituzioni che pensavano ( avrebbero pensato) solo a se stesse anche con la corruzione e l’illegalità in una ottica di mero localismo chiuso. E quell’oggi che non aveva fatti i conti con i mercati globali e col sopravvento di un super-statalismo surrettizio , quello della Bce ma anche e soprattutto quello irresponsabile del capitalismo finanziario globale, questa volta invisibile davvero, che viaggiando senza regole, come avverte Obama, ha però il potere “centrale e monarchico” come una sorta di superstato, di decidere sul destino di intere nazioni, sui corpi intermedi, sulla economia di mercato sana e capace, sulle famiglie. Motivo per cui sta crescendo il bisogno, inascoltato, di più politica in Europa mentre paradossalmente si critica l’eccesso di politica. Voglia di statalismo la mia e di poteri centrali? Voglia di dirigismo? Neanche per sogno. Ma solo realismo cristiano che si interroga. Siamo infatti sicuri che abbandonando lo Stato-centrismo dei semafori, risolviamo i problemi della globalizzazione ( finanziaria innanzitutto ) che sono sotto i nostri occhi ? Si fa un torto all’economia capitalistica e al libero mercato, allo stesso liberalismo, se si avverte che la globalizzazione e la concentrazione del potere economico a Wall street e nelle Borse di Tokio, Londra, Berlino, sta mettendo alla corda una lunga storia economica basata sulle economie nazionali e sull’autogestione locale? Io credo che inserendo questi interrogativi e questi dubbi, si inserisce solo più consapevolezza. Senza per questo diventare bolscevici con la statolatria senza libertà da una parte, o iperliberisti con le molte libertà e con la deregulation globale senza Stato dall’altra. Ma sono quelle consapevolezze che costringono il pensiero politico cattolico a ragionare su una benintesa eguaglianza, e ad andare oltre, alla ricerca e allo studio di nuovi paradigmi.
    Rimaniamo dunque convinti della debolezza culturale. Ma inseriamo il sospetto che se non si affronta il problema dalle trasformazioni radicali e recenti del capitalismo globale, a partire da quello finanziario, saremo sempre di fronte a risposte deboli e datate. Regole sovranazionali con cessione di sovranità e poteri verso l’alto non sono tanto digeribili ai paradigmi del policentrismo e della poliarchia. Ma sono forse necessarie e occorrono al nostro futuro. Speriamo col contributo dei cattolici. E c’è solo una prima risposta a portata di mano: quella di creare più Europa e non meno Europa; più Stato europeo e non meno Stato europeo; più politica europea e non meno politica, e forse più partiti europei e non più partiti antieuropei. Su cui a guardar bene la stragrande maggioranza del cattolicesimo politico maturo ha le carte in regola.
    Ultima domanda a De Rita: siamo sicuri che la finanziarizzazione dell’economia e la sua concentrazione nelle mani di un super potere “invisibile” , possa ancora permettere analisi sociologiche ricorrendo al policentrismo economico e politico e alla poliarchia?
    Con immutata stima e affetto.
    Nino Labate – Roma

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