di Sandro Antoniazzi
Lunedì 27 gennaio, è iniziata la discussione alla Camera della legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle aziende, proposta di iniziativa popolare promossa dalla Cisl.
La sua approvazione costituirebbe un evento di rilievo: per la prima volta, dopo oltre 76 anni, si darebbe attuazione all’art.46 della Costituzione che recita «…la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende».
La legge in discussione ha un carattere soft (il che lascia aperta la possibilità di miglioramenti ed estensioni in futuro) probabilmente anche per rendere più facile il consenso e l’approvazione.
Sia le due proposte specifiche di partecipazione negli organismi societari (due rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di Sorveglianza delle aziende a gestione duale e un rappresentante nelle società a partecipazione pubblica) che i piani di partecipazione azionaria dei lavoratori, sono previsti non in modo obbligatorio, ma con la formula “i contratti possono prevedere”.
Interessante è la proposta di istituire l’affidamento fiduciario per la gestione dei diritti derivanti dalle azioni possedute: in altre parole si possono unire tante piccole partecipazioni al fine di poter contare nelle assemblee, ciò che finora non era consentito.
Decisamente più importante è la cosiddetta partecipazione organizzativa, cioè la partecipazione diretta dei lavoratori per definire miglioramenti e innovazioni nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro.
Si prevede che essa si realizzi attraverso commissioni specifiche finalizzate all’innovazione e mediante una consultazione, almeno annuale, di organismi paritetici nelle aziende oltre i 250 dipendenti.
Landini, probabilmente per “vis polemica” ha affermato che la partecipazione distrugge la contrattazione collettiva, ma chi legge la proposta non può che constatare che ogni decisione relativa ai lavoratori è sempre attribuita ai contratti collettivi e dunque alle organizzazioni sindacali.
Sia la Cgil che la Uil esprimono poi la loro contrarietà alla presenza di rappresentanti nei Consigli di amministrazione, affermando di essere contrari alla “cogestione”, ma chiaramente la presenza di un rappresentante ha ben poco il significato di cogestire quanto di conoscere le scelte aziendali immediatamente e direttamente.
La maggioranza governativa si è dimostrata favorevole all’approvazione, pur con delle modifiche apportate in commissione, e infatti ha accelerato la sua presentazione alla Camera e ha stanziato in bilancio 72 milioni per la sua attuazione.
Favorevole sembrava anche l’opposizione: il PD ha presentato i propri emendamenti che non intaccano la sostanza della proposta, tendendo piuttosto a migliorarla.
Però gli emendamenti della maggioranza hanno modificato anche sostanzialmente alcuni articoli (è stata abolita la presenza nei Consigli di amministrazione delle aziende pubbliche e riformulato l’affidamento fiduciario) e secondo alcuni in questo modo la legge è stata svuotata.
Certamente sarebbe veramente un guaio che la legge passasse con l’approvazione della maggioranza e non del centro sinistra, su una materia costituzionale del lavoro.
Il problema maggiore è certamente costituito dalla Cgil, non tanto per le polemiche di questi giorni, ma perché appare purtroppo ancorata a posizioni che dovrebbero essere superate. “La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’uscire dalle vecchie” diceva Keynes.
La partecipazione dei lavoratori nelle aziende è stato un tema molto dibattuto in passato nel movimento operaio: dai Consigli di fabbrica di gramsciana memoria, ai Consigli di gestione del recente dopoguerra, alle proposte sul controllo operaio, ma in epoche dove ancora dominava l’idea che in futuro le aziende sarebbero state governate dai lavoratori.
E’ vero che anche successivamente la Cgil ha sempre preferito parlare di codecisione e codeterminazione, per rimarcare che le parti sono due, capitale e lavoro, ben distinte, ma anche in questa legge tutto è demandato ai contratti collettivi e dunque è rispettata la distinzione tra le due parti.
Va inoltre considerato che all’interno delle aziende moderne la partecipazione è sempre di più una necessità; i lavoratori devono essere coinvolti nell’organizzazione e nella strategia aziendale, se si vuole competere a livello internazionale.
Bruno Trentin, storico esponente della Cgil e prima della Fiom, sosteneva nella sua lectio magistralis all’Università Cà Foscari di Venezia, che il futuro del lavoro è nella cultura.
E dove i lavoratori possono accrescere la loro cultura lavorativa, la loro formazione professionale, le loro capacità se non partecipando a pieno titolo nell’impresa, non passivamente, ma con un ruolo attivo riconosciuto?
La proposta di legge presenta certamente dei limiti, ma costituisce un primo passo importante; ci sarà tempo per sperimentare e verificare e poi apportare tutte le modifiche e i miglioramenti opportuni.
Ora, piuttosto – se la legge, come ci auguriamo, sarà approvata – si apre un enorme impegno di lavoro, di informazione dei lavoratori, di formazione di quadri in grado di sviluppare la partecipazione, di contrattazione con le aziende per realizzare esperienze concrete che dimostrino la validità della partecipazione.
Se il sindacato saprà sviluppare adeguatamente questa prospettiva in futuro la sua azione potrà usufruire di due gambe: quella sperimentata della contrattazione e insieme quella nuova e promettente della partecipazione, allargando così le sue prospettive.
7 Febbraio 2025 at 13:53
La delicatezza e l’importanza del tema della partecipazione dei lavoratori nelle aziende, avrebbe richiesto tutt’altro approccio, sia nella fase della sua elaborazione, sia in quella della raccolta firme per la presentazione della legge di iniziativa popolare, quali indispensabili premesse per la sua corretta ed efficace attuazione nelle aziende pubbliche e private interessate
Così, invece, non è stato. Pensare di affrontare la crescente scarsa incidenza, per non dire la sempre più evidente marginalità che CGIL, CISL e UIL hanno rispetto ai temi delle politiche nazionali dell’economia, del lavoro, del Welfare, ecc. e, nel contempo, sprecare risorse ed energie nella esaltazione della propria identità attuando politiche e iniziative autoreferenziali e di immagine, è la scelta meno opportuna perchè determinata da ragioni politiche, se non ideologiche, del “+1” che comporta l’impossibilità di realizzare intese unitarie, e del “liberi tutti” conseguente al venir meno del vincolo unitario.
Ragioni e responsabilità equamente distribuite tra le confederazioni hanno determinato questo quadro e le ragioni per le quali la CISL ha scelto di procedere da sola sulla proposta di legge popolare mentre CGIL e Uil hanno scelto lo sciopero generale contro la Legge di Bilancio 2025.
C’è stato qualcuno che ha fatto sua questa frase: “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”.
Continuo ad essere iscritto alla CISL, ma ciò non mi impedisce di considero del tutto strumentale l’attenzione con cui il Governo Meloni e la maggioranza di centrodestra hanno accolto la proposta di legge popolare della CISL e l’impegno che su di essa hanno speso confermato anche dalla dotazione di 70 milioni a carico del bilancio dello Stato. Al centrodestra non deve essere parso vero di avere tra le mani una proposta di legge popolare che, rappresentando il punto più basso, se non di rottura, dei rapporti tra CGIL, CISL e UIL, rende marginale e ininfluente la contestazione di CGIL e UIL nel merito delle scelte politiche ed economiche del Governo Meloni.
E’ forse inopportuno pensare che tra le ragioni per le quali la Meloni ha deciso di far propria la proposta della CISL ci sia anche quella di aggravare ulteriormente la crisi dei rapporti unitari di CGIL, CISL e UIL?
Ma la domanda più importante in quanto “strategica” per il futuro del movimento sindacale è questa: a cosa servono e a chi servono le divisioni tra CGIL, CISL e UIL?
Risposta: non certo la risposta ai molti problemi del mondo del lavoro.