La frantumazione sociale della popolazione

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Da recenti dati dell’Istat sulla popolazione italiana emerge una situazione sociale fortemente frammentata, con molte disuguaglianze, ritardi, contraddizioni; rispetto alla quale risulterà sempre più difficile trovare elementi unificanti se non si aprirà una nuova fase di formazione di un’identità collettiva e di soggetti politici in grado di darle forma

 

Ai dati classici sull’andamento della popolazione (numero dei residenti, classi di età, occupazione, ricchezza e povertà, migrazioni), dal 2013 –nelle indagini statistiche dell’Istat –  si è aggiunta l’analisi sul “BES” (Benessere equo e sostenibile) che cerca di capire meglio l’evoluzione qualitativa di dodici indicatori: salute, istruzione (e formazione), lavoro (e conciliazione tempi di vita), benessere economico, relazioni sociali, politica (e istituzioni), sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio (e patrimonio culturale), ambiente, innovazione (ricerca e creatività), qualità dei servizi. Con il presente articolo vorrei evidenziare alcune condizioni strutturali che spesso vengono oscurate perché nella “società della comunicazione” ogni soggetto tende a deformare la realtà pur di costruire il proprio disegno politico.

Partiamo da alcuni numeri del contesto sociale di oggi. In Italia abitano quasi 60 milioni di abitanti (nell’ultimo anno sono diminuiti di 383 mila unità) distribuiti in 7.903 comuni e aggregati in 25 milioni di famiglie, di cui oltre il 75% vive in abitazioni di proprietà. Gli immigrati sono 5 milioni, lo stesso numero dei cittadini italiani che vivono all’estero. Il declino demografico e le ragioni della denatalità vengono da lontano: progressiva riduzione della popolazione in età feconda e clima di incertezza per il futuro; ma soprattutto da tutti quei mutamenti culturali che nel corso del tempo si trasformano in mutamenti dei comportamenti. Viene spontaneo chiedersi: come mai quando l’Italia era più povera nascevano più figli? Mentre negli anni ’60 il saldo naturale della popolazione era positivo (la natalità superava la mortalità), a partire dal 1993 cominciano a diminuire le nascite e ad aumentare i morti fino ad arrivare nel 2020 a una differenza negativa superiore a 340 mila unità. Il “livello di fecondità” delle donne, attualmente dell’1,24, è molto al di sotto del “livello di sostituzione” che in media è di 2,1 figli per donna. La media annua dei morti tra il 2015 e il 2019 è stata di 645.620, aumentata del 15,6% nell’anno successivo, quello della pandemia. L’indice di vecchiaia è di 173: su 100 giovani fino a 14 anni ci sono 173 persone di 65 anni e oltre. Quasi il 62% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive nella famiglia d’origine. La regione con più anziani è la Liguria, mentre quella con meno anziani risulta la Campania. Le famiglie costituite da una sola persona superano il 33% del totale pari a 8 milioni e 481 mila persone (in maggioranza donne).

Ci sono 16 milioni di pensionati, di cui 6 milioni aiutano regolarmente i figli e nipoti, mentre un milione e mezzo necessitano loro stessi di ulteriori aiuti. Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione e nel 2020 ha raggiunto il 9,4 per cento, che corrisponde a 5 milioni 627 mila persone; particolarmente colpiti donne e giovani. Una coppia con due figli minori è considerata povera se ha un reddito inferiore a 1.726 euro mensili.

L’Italia risulta al primo posto per il numero dei giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano: sono il 24%, oltre 2 milioni; vengono definiti con l’acronimo inglese “Neet” (Not in education, employment or training). Il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo del 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea. Questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno, dove il processo di avvicinamento con le aree più ricche del Paese è ormai fermo (e per questo il Recovery Fund vi erogherà il 40% dei fondi previsti per l’Italia).

Gli occupati ufficiali si aggirano intorno ai 23 milioni, una minoranza della popolazione; il resto è costituito da studenti (oltre 10 milioni, dalla scuola dell’infanzia all’università), pensionati, donne casalinghe (7 milioni). Occorre però tener presente che gli inattivi non sono nulla facenti, ma contribuisco al lavoro di cura delle famiglie o allo studio che prepara la classe dirigente del domani. Sulle donne casalinghe, secondo un’indagine Istat del 2016, il 63,8% vive al Sud e il livello di scolarità è piuttosto basso: oltre il 74% ha soltanto la licenza di scuola media inferiore.

I lavoratori occupati nelle imprese oltre 250 dipendenti sono 3 milioni 800 mila, di cui i metalmeccanici, protagonisti delle grandi lotte degli anni ’70, non arrivano a 500 mila. Mentre le assistenti familiari o “badanti” sono circa due milioni. Complessivamente gli addetti nei comparti del commercio, ristorazione e alberghi hanno già superato quelli dell’industria manifatturiera (nella fase della pandemia ha assunto un valore centrale la protesta di ristoratori, albergatori e i baristi, le categorie certamente più colpite, ma anche quelle più presenti nel discorso pubblico dei media sempre pronti a evidenziare gli elementi di protesta).

Il tasso d’occupazione della classe d’età 20-64 anni in Italia è del 62%, mentre la media dell’UE è del 71,6%. Quasi il 70% del totale degli addetti lavora nell’area dei servizi e della pubblica amministrazione, il 26% nell’industria e costruzioni e il 4% nell’agricoltura.

Le disuguaglianze, secondo le indagini di Eurostat, sono continuamente aumentate: il reddito del quinto dei cittadini più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei più poveri, mentre la media europea è di 5 volte (in Francia è di 4,3 e in Germania del 4,6). Anche il titolo di studio incide sulla distribuzione della ricchezza e sulla mobilità sociale: i nuclei familiari con componenti laureati possiedono una ricchezza superiore a quelli provvisti di sola licenza elementare. I nuovi laureati provengono da famiglie di laureati e solo una piccola percentuale da famiglie con licenza elementare. I laureati della classe d’età 30-34 sono il 27,9%, mentre la media europea è del 42,1%. Dati fortemente contraddittori se pensiamo che l’Italia è il primo paese al mondo per numero di beni artistico-culturali censiti dall’Unesco e per numero di persone che partecipano ad attività culturali fuori casa (35,1% a fronte di una media europea del 30,8%). Nel 2019 hanno visitato l’Italia oltre 60 milioni di europei e 35 milioni provenienti da altri paesi.

Secondo il Censis “gli italiani hanno mantenuto alta la loro capacità di risparmio” fino ad arrivare, nel 2019, a oltre 4.200 miliardi di euro di patrimonio, investito in attività finanziari, di cui il 33% (pari a 1.390 miliardi di euro) in depositi vari e conto corrente. La ricchezza netta, reale e finanziaria, delle famiglie italiane è di 9.743 miliardi pari a 8,1 volte il reddito disponibile, contro il 7,3 della media dei paesi dell’area dell’euro. Il 20% più ricco detiene il 66% di questa ricchezza, un altro 20% ne detiene il 18%, mentre il restante 60% meno abbiente ne detiene soltanto il 14,8%.

Siamo un paese con un debito pubblico elevatissimo (2.637 miliardi pari a quasi il 160% del Pil) e un risparmio privato superiore a tutti gli altri paesi occidentali. Le abitazioni costituiscono la principale forma di investimento delle famiglie e, con un valore di 5.246 miliardi di euro, rappresentano la metà della ricchezza lorda. Sul versante dei consumi la media mensile si attesta intorno ai 2.328 euro con una diminuzione del 9% rispetto all’anno precedente, mentre rimangono stabili le spese alimentari e quelle per le abitazioni. La pandemia ha accentuato le contraddizioni descritte e ha drammaticamente aumentato le disuguaglianze. Secondo le dichiarazioni dei redditi Irpef 2019, sul totale di un reddito dichiarato di 880 miliardi, il reddito medio è di 21.600 euro; il 50% dichiara tra i 15 e i 50 mila, il 44% fino ai 15 mila e soltanto il restante 6% dichiara più di 50 mila euro.

Da questi dati emerge una situazione sociale fortemente frammentata, rispetto alla quale risulterà sempre più difficile trovare elementi unificanti se non si aprirà una nuova fase di formazione di identità collettive e di soggetti politici in grado di darle forma.

 

Salvatore Vento

 

 

 

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