Karl Polanyi, “Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963”

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La recensione è apparsa nel supplemento Via Po del settimanale della Cisl “Conquiste del lavoro”

 

Karl Polanyi  nacque a Vienna nel 1886, visse in un ambiente socio culturale stimolante (il fratello era un noto filosofo) e fin da giovane studente partecipò e fu promotore di dibattiti culturali, come quelli che si svolgevano nel “Circolo Galilei” di Budapest che sfidavano il vecchio ordine monarchico (compresa la Chiesa). Vi partecipavano giovani che poi sarebbero diventati famosi intellettuali come György Lukács e Karl Mannheim, lo psicanalista Sándor Ferenczi e il musicista Béla Bartók. Organizzava corsi di alfabetizzazione per giovani operai e contadini godendo del sostegno morale  del poeta Endre Ady e di quello logistico della massoneria. Appoggiò la rivoluzione antimonarchica di Bela Kun, ma non si trovò in completa sintonia col breve regime comunista (durò 133 giorni) che venne instaurato nel 1919.  Apparteneva ad una generazione, quella dell’ultimo decennio dell’Ottocento, che subì due guerre mondiali (nella prima vi partecipò direttamente come ufficiale di cavalleria sul fronte russo nell’esercito austro-ungarico), vide l’affermazione della rivoluzione russa, del fascismo e del nazismo, le conseguenze della crisi della borsa di New York nel 1929 (estesasi in tutto il mondo) e la ricostruzione post 1945.

Gli studi di Polanyi spaziano dall’economia all’antropologia e alla sociologia e abbracciano tutto il versante delle scienze umane. Egli era profondamente convinto che il socialismo dovesse implicare un cambiamento culturale ed etico, prima ancora che economico; esso significa progresso umano e morale, responsabilità personale e libertà individuale. Il cambiamento etico e morale del singolo deve essere alla base  di ogni sviluppo in direzione di una società più libera. Rifiutava ogni filosofia della storia, del determinismo, dell’economicismo e quindi  di quel marxismo che porta queste caratteristiche. La lettura di Marx – in particolare il carattere di feticcio della merce e il suo arcano del primo capitolo del Capitale e le undici tesi di Feuerbach – sono determinanti nello sviluppo del suo pensiero.  A Londra aderisce al gruppo della Christian Left (seguace del pensiero personalista dello scozzese John MacMurray) e analizza i manoscritti economico filosofici di Marx appena pubblicati.

Nel suo capolavoro – “La grande trasformazione” -, pubblicato nel 1944, affermava la necessità di studiare le origini politiche ed economiche del crollo del capitalismo liberale affermatosi nel diciannovesimo secolo. Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere di acquisto porterebbe alla demolizione della società. Un concetto che in tempi più vicini a noi possiamo tradurre nello slogan “sì all’economia di mercato, no alla società di mercato”. Egli, scrive nella prefazione la figlia Kari Polanyi Levitt, era portato essenzialmente ad essere un filosofo sociale e un educatore socialista, nel senso più ampio del termine. Il suo ruolo non era quello dell’attivista politico, ma quello, spesso solitario, dello studioso. La sua critica s’indirizzava alla società istituita come sistema di mercato, che riduce il valore di qualsiasi attività umana al valore di scambio determinato dall’offerta e dalla domanda; il sistema di mercato non nasce naturalmente, ma è una costruzione sociale. L’economia deve perciò essere incorporata/integrata (“embedded”) nelle regole della società. Esistono tre forme di tale integrazione: la reciprocità (come aveva indicato l’antropologo Marcel Mauss), la redistribuzione (ad opera di un organismo centrale) e lo scambio di mercato (che tende a subordinare l’intera società). Ovunque vivesse, a Budapest o Vienna, a Londra o New York, egli fu un osservatore impegnato delle questioni correnti. Per mio padre e la sua generazione, sottolinea la figlia, la prima guerra mondiale fu un’esperienza traumatica e trasformatrice, che lo indusse a impegnarsi nella ricerca delle cause ultime sia del collasso di tutte le apparenti certezze del mondo precedente sia dei disastri che seguirono. Polanyi ammirava le realizzazioni dell’amministrazione municipale socialista di Vienna; fra di esse una moderna e mirabile edilizia sociale, progettata dai migliori architetti viennesi.

Dall’ampia introduzione di Michele Cangiani e Cluas Thomasberger (significamente intitolata “costruire la libertà”) riassumiamo i principali contenuti del volume di 371 pagine composto di sette capitoli (la crisi al tempo della grande guerra, una filosofia della libertà sociale, comunità società e socialismo, la controrivoluzione fascista, la questione sovietica nel panorama internazionale, quale scienza sociale, per un’istruzione popolare). Se la natura umana è sociale, in una “società industriale” il socialismo rappresenta la tendenza a superare il mercato autoregolato subordinandolo, consapevolmente, a una “società democratica”. A partire dalla nascita l’individuo viene educato nel suo contesto storico e a sua volta diventa educatore del suo ambiente. La libertà sociale è quella che corrisponde al nuovo livello di consapevolezza raggiunto dall’umanità che ha mangiato il frutto “dell’albero della conoscenza sociale”. La libertà si esercita nell’autogoverno, cioè nella partecipazione consapevole alla costruzione collettiva della realtà sociale. Essa comporta un processo di autoeducazione, per contrastare la tendenza alla massificazione. L’istruzione degli adulti, e in primo luogo delle classi lavoratrici, ne costituisce la pietra miliare; fin dalla fondazione della “Workers Educational Association” degli inizi del ventesimo secolo essa veniva considerata non solo come un mezzo per sviluppare il carattere e le capacità individuli, ma come uno strumento per esercitare i diritti e le responsabilità sociali. La discussione e la ricerca, auspicava Polanyi, devono diffondersi in tutto il movimento laburista, in modo che dalla realtà dell’esperienza della classe lavoratrice e dal contatto reciproco delle menti possa emergere una politica e forse una filosofia radicate nella storia del nostro tempo.

Del cristianesimo Polanyi adotta il concetto di persona e l’ideale comunitario, ma critica il disinteresse verso le istituzioni sociali che invece occorre trasformare concretamente in direzione di quell’ideale. Per Polanyi essere liberi significa essere consapevoli che le “oggettivazioni sociali”, cioè le soluzioni istituzionali di volta in volta date al problema del potere e a quello del valore, sono necessarie, ma sempre imperfette: e dunque occorre accettare la libertà e la responsabilità, tipicamente umane di crearle e cambiarle.  In conclusione, l’ideale di Polanyi di una società libera, solidale, democratica e giusta, basata sulla proprietà e il controllo sociali, continua ad essere vitale. Basti pensare agli studi di economisti come il francese J.P. Fitoussi, l’americano Paul Krugman, l’indiano Prem Shankar Jha o di sociologi come Mark Granovetter, che riprendono, adeguandoli all’attuale fase della globalizzazione, molti dei suoi concetti fondamentali a partire da quello di “embeddedness”, ossia di radicamento dell’economia nella società. Molti osservatori affermano che tracce del pensiero di Polanyii si trovano nei discorsi di Papa Francesco, soprattutto quando critica la mercificazione dei rapporti sociali e le ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati a discapito del primato dell’essere umano.

* Karl Polanyi, Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963, Jaca Book, 2015

 

Salvatore Vento

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