In ricordo di Pippo Morelli e della conquista delle 150 ore

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 di Giampiero Forcesi

Poco più di un mese fa, il 21 giugno, a 82 anni, è morto Pippo Morelli, sindacalista della Cisl. Ne ho un ricordo sbiadito. Di lui, della sua persona. Ma ho un ricordo vivido, invece, di una delle sue battaglie più rilevanti. Le 150 ore. Erano il pacchetto di ore di permessi retribuiti che i lavoratori potevano prendere per seguire un corso di approfondimento o per prendere la terza media se non ce l’avevano. Il via a quell’esperienza la diede il nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici, firmato nell’aprile del 1973, nel quale questo diritto fu inscritto per la prima volta. E un ruolo grande, in quella conquista, lo ebbe proprio Pippo Morelli, e con lui lo ebbe la Cisl di Pierre Carniti e di Bruno Manghi. E la Cgil di Bruno Trentin e di Tonino Lettieri.

Allora io lavoravo in un cantiere edile, ed ero iscritto alla Cgil. A quei tempi, però, c’era una forte unità sindacale, e io ero delegato unitario dei lavoratori di quel cantiere. Lavoravo a Ostia, ma vivevo alla Magliana, dove c’era la sede unitaria del metalmeccanici, la Flm, e del Consiglio unitario di Zona, cioè di tutte le diverse categorie sindacali appartenenti a Cgil, Cisl e Uil. Ebbe inizio, allora, una straordinaria esperienza, che partì da alcune delle (poche) fabbriche metalmeccaniche della zona (tra cui uno stabilimento della Fiat) e si estese poi agli altri comparti industriali del territorio (chimici, legno, impianti navali…), all’azienda agricola di Maccarese e ai lavoratori dell’Aereoporto di Fiumicino. Un’esperienza che raggiunse poi non più solo i lavoratori regolarmente inquadrati, ma anche operai e artigiani di piccole realtà lavorative; e, infine, le donne che non avevano un lavoro, se non l’attività di casalinghe, e quei non pochi giovani che non erano riusciti a finire la scuola dell’obbligo. Ci fu una forte spinta a riportare tra i lavoratori l’attenzione alla cultura, che significò soprattutto la possibilità di avere uno spazio, garantito dallo stesso contratto di lavoro (per chi aveva un lavoro in fabbrica) e comunque promosso dallo Stato (che aprì le scuole in orario pomeridiano e serale), per riflettere sul proprio lavoro, su se stessi, sulla società che era attorno. I corsi toccarono le condizioni di salute nelle fabbriche, i problemi del territorio, il piano regolatore, l’ambiente, la storia sociale e politica delle generazioni precedenti, la storia del fascismo, della Resistenza, del secondo dopoguerra, le opportunità di legare studio e lavoro, fabbrica e scuola, fabbrica e università.

Mentre ancora si lottava – in molti quartieri – contro i doppi turni (la scuola dell’obbligo e di massa era esperienza recente) si iniziò, nelle sere d’inverno, a vedere le luci accese delle aule delle scuole. E dentro le aule era un fervore di studenti assai anomali e, in qualche modo, anche di insegnanti piuttosto anomali. Erano gli insegnanti che “ci credevano di più”; e a loro si mescolavano persone chiamate a testimoniare, a raccontare, a comunicare le proprie esperienze. Le donne erano numerose e molto entusiaste. Talune, che avevano appena fatto una o due classi elementari e volevano imparare qualcosa, e parecchie innanzitutto a leggere e a scrivere, dovettero combattere con i mariti che non ce le volevano mandare (ricordo che quando andai nelle scale delle case popolari della Magliana a proporre, sull’onda delle 150 ore, la partecipazione a un corso di alfabetizzazione, non furono poche le donne che, dapprima contentissime, dovettero poi rinunciare perché il marito non glielo permise: “a che ti serve – le dicevano – saper leggere e scrivere?”).

Furono anni di grande sommovimento, di avanzamento culturale che muoveva sia dall’alto che dal basso. E quelle scuole  – che la sera si riempivano di operai, artigiani, madri di famiglia, giovani un po’ sbarellati ma desiderosi di prendere quella terza media che si erano lasciati sfuggire per colpa loro o di altri, e persino di qualche persona con i capelli grigi che voleva tornare a imparare qualcosa o anche solo non starsene chiusa dentro casa – furono, di quegli straordinari anni Settanta, forse una delle esperienze più fervide e importanti. Anche se destinata, come molti altri percorsi, ad esaurirsi abbastanza presto.

E Pippo Morelli lo ricordo come un sindacalista che aveva raccolto con grande convinzione questa domanda di cultura, di socialità, di partecipazione, e che ne fece una propria missione, dapprima lottando tenacemente per far approvare nel contratto nazionale dei metalmeccanici questo diritto nuovo e in seguito difendendolo e diffondendolo oltre il mondo delle fabbriche. In una visione del sindacato assai alta. Non presuntuosa, come pure poi fu. Ma seria, unitaria, e ricca di prospettive umanizzanti.

Di sindacalisti come lui si ha, credo tutti, una forte nostalgia.

 

Qui il ricordo che, di Pippo Morelli, ne hanno fatto, sul sito Eguaglianza e Libertà,

Pierre Carniti

La lezione di Pippo Morelli

e Rino Caviglioli

 Pippo, che ci ha insegnato a contrattare

 

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