Il Sud ha bisogno di credere in se stesso e cambiare mentalità

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Questo articolo vuole essere un contributo alla preparazione del convegno “Cittadinanza attiva e rinnovamento della politica nel Sud” che si terrà a Paestum dal 23 al 25 settembre per iniziativa della rete C3dem. L’autore è responsabile dell’Ufficio stampa della Fim-Cisl.

 

Il Mezzogiorno d’Italia è una realtà plurale sul piano economico, industriale e sociale.  Questo, assieme ad alcuni deficit strutturali, è uno dei motivi, sempre sottovalutati dalla politica, che lungo la storia repubblicana non gli ha consentito un percorso normale di crescita.

La crisi ha poi messo in evidenza tutti i limiti di un modello monodimensionle e ha finito col rendere ancor piu profondo il divario con il resto del Paese. L’ultimo rapporto elaborato dalla Svimez, pur discutibile in alcuni passaggi – “non siamo proprio alla vigilia di dell’Apocalisse del Mezzogiorno, ma ad una raffigurazione estremizzata dei suoi problemi, scaturita (forse) dalla frustrazione degli estensori di sapersi ormai inascoltati da lungo tempo dalle Autorità governative”, come ha scritto Federico Pirro (Consigliere Svimez) sulle pagine de Il Foglio il 3 agosto -, è inequivocabile. Anche se nel rapporto sono stati ignorati alcuni importanti investimenti realizzati al Sud da grandi gruppi industriali e importanti e vivaci realtà imprenditoriali, il Mezzogiorno d’Italia resta un paesaggio in cui la deindustrializzazione avanza e la caduta del reddito che deriva da questo fenomeno si riflette inevitabilmente sui consumi. Ovvio ancorchè drammatico  corollario è l’esplosione della disoccupazione – tornata addirittura ai livelli degli anni 70 – cui si accompagna in alcune regioni l’emergere di estese aree di povertà. Se a ciò si somma la ripresa su larga scala dell’emigrazione giovanile e il declino demografico, come sottolinea  un recente studio dell’Istituto Toniolo e dell’Università Cattolica, appare evidente che ci troviamo in una situazione dai contorni economicamente e socialmene preoccupanti; ma questo lo si sapeva da tempo,  parlare  solo di Sud che va male non aiuta a farlo andare meglio,  c’è invece la necessità di valorizzare, sostenere e prendere ad esempio dal buono che c’è e non è poco.

Più Mezzogiorni

Ci sono piu’ Mezzogiorni, è un fatto. Ed è un fatto anche che questi diversi Mezzogiorni abbiano mostrato gradi diversi di resistenza alla crisi. L’economista Leonardo Becchetti ha scritto al riguardo che “è proprio in momenti difficili come questi, in cui la “selezione naturale” della crisi distrugge realtà economiche che fanno più fatica a restare a galla, che emergono “specie” particolarmente resistenti” (Avvenire 5.7.2015). E ciò è tanto più vero laddove si ravvisa la capacità di sottrarsi ad una cultura dominante fatta anche di autocommiserazione, familismo, assistenzialismo, scambio politico. C’è dunque anche un Sud che sta reagendo positivamente, modificando in radice il paradigma dello sviluppo economico, industriale, urbanistico, sociale e ambientale, rispondendo contestualmente ai bisogni di cura della persona e della comunità. Scrivono gli autori del recente volume Per un altro Mezzogiorno (Carocci 2015) che “decine di migliaia di organizzazioni di volontariato, di forme di cooperazione sociale e di associazioni di promozione sociale hanno radicato competenze nuove di partecipazione e governo del territorio, rendendo possibile una politica di reciproca sussidiarietà tra poteri pubblici e forze della cittadinanza. La percezione di questo sviluppo consente al Mezzogiorno di liberarsi dei paradigmi politico culturali del ritardo, della omologazione,
della subalternità assistita”.

Nuove esperienze  

Da queste esperienze c’è molto da imparare­,  anche per il Sindacato. Si tratta di nuovi modi di interpretare e vivere la cittadinanza che stanno rigenerando un tessuto di comunità e al tempo stesso creando occasioni di crescita. In questi anni la Fim Cisl, pur continuando a svolgere il proprio ruolo contrattuale e di sindacato industriale, ha intrecciato una serie di riflessioni e momenti formativi per i suoi dirigenti proprio con alcune delle realtà che sul territorio hanno aperto grandi varchi alla speranza del cambiamento del Sud. Penso all’esperienza delle cooperative nate nel Rione Sanità a Napoli con don Antonio Loffredo, a quella dei Maestri di Strada con Cesare Moreno, al movimento cooperativistico e di responsabilità sociale intrecciato al tema della legalità cresciuto in questi anni a Casal di Principe attorno alla NCO (Nuova cooperazione organizzata) di Peppe Pagano. L’area di Caserta per certi versi riassume le contraddizioni e le potenzialità del nostro Sud, ne è quasi la cartina tornasole. Accanto ad un tessuto sociale in grado di produrre rilevanti novita’, va sottolineato come l’impatto della recessione abbia lesionato in modo gravssimo un tessuto industriale in altri tempi florido.

Il caso Whirlpool

La memoria corre ovviamente al caso Whirlpool. Una vertenza durissima, che già aveva visto il prologo nel piano di riorganizzazione presentato da Indesit 2013, con 1425 licenziamenti e chiusura dei siti di Melano (Fabriano) e Teverola (Caserta). Un duro colpo, per l’area industriale casertana, una delle meglio attrezzate del Sud Italia, in grado negli anni 70 e fino a metà degli anni ’80 di dare lavoro a più di 8000 persone nel solo settore degli elettrodomestici. Oggi quell’area versa in stato di quasi abbandono: Ixifin, Jabil, Firema, sono i primi nomi che vengono in mente di una lunghissima lista.

Per questo quando nell’ aprile di quest’anno venne annunciato il nuovo piano industriale da Whirlpool, che prevedeva la chiusura di quattro siti, Carinaro (Ce), Albacina (An), None (To) e Milano – con 2060 licenziamenti di cui 815 a Carinaro – il leader della Fim  Marco Bentivogli disse : “O con i lavoratori o con i camorristi”.

Chiara la visione:  tenere saldata la questione occupazionale con quella sociale. Dopo due mesi di lotta durissima  la multinazionale ha fatto marcia indietro e il 23 giugno la firma dell’accordo a Palazzo Chigi ha sancito il ritiro dei licenziamenti e assegnato una nuova mission industriale alle fabbirche ex Indesit.  Anche a Carinaro, che diverra’ il centro  per i mercati UE, Africa e Medio Oriente.

La vertenza Whirlpool repparesenta senz’altro un caso virtuoso di collaborazione tra sindacato, governo e istituzioni locali. Un caso che non rappresenta però un unicum in Campania, visto l’antecedente di Pomgliano, la fabbrica Fca, all’epoca dell’accordo con Fim e Uilm e del successivo referendum ancora Fiat, che oggi sta rilanciando l’occupazione in tutto il sud Italia. Il rapporto Svimez, spiace sottolinearlo, non ne parla. Un’omissione che finisce per inficiare un’analisi altrimenti rigorosa dei mali che affliggono l’economia del Mezzogiorno.

Pomigliano nella bolla mediatica: una storia di successo che crea troppi imbarazzi

Pomigliano d’Arco è lo stabilimento in cui si produce la Fiat Panda, lo stabilimento tecnologicamente più avanzato d’Europa. Sarebbe bene ricordare però che è stato ad un passo dalla chiusura. Ad inizio 2010 un report di Goldman Sachs agli investitori chiedeva esplicitamente a Sergio Marchionne di liberarsi di due delle fabbriche italiane del gruppo, possibilmente al Sud.  Essendo il destino di Termini Imerese  già segnato, non appariva difficile individuare l’altra candidata: Pomigliano, appunto.

In questi anni si è consumata una battaglia durissima nel sindacato. Una battagli tra chi ha raccolto la sfida del cambiamento prendendosi le proprie responsabilità – e di rimbalzo insulti e attaccchi alle proprie sedi – e chi ha contrastato un accordo che, grazie ad un’operazione di reshorig dalla Polonia, ha permesso la riapertura dello stabilimento ex Alfa Sud, da anni in bilico tra chiusura e cassa integrazione.

Una stampa mediocre, innamorata di un’immagine stereotipata del sindacato, non di rado apertamente parziale, ha costruito su Pomigliano un racconto carico di menzogne. Si sono superate, oltre a quelle del buon senso, anche le barriere del ridicolo, arrivando addirittura a parlare di schiavismo.

Alla fine restano i fatti. Senza l’accordo di Pomigliano Fiat non avvrebbe potuto lanciare un piano di investimento da 5 miliardi sui siti italiani, un piano che – vedi il caso Melfi – sta portando nuova occupazione anche al Sud, anzi specialmente al Sud.
Il caso Ilva

Ma il sud, lo abbiamo detto, è un mix di contraddizioni. E l’Ilva di queste contraddizioni si puo’ ben dire rappresenti il paradigma. E’ la la più grande acciaieria d’Europa, un totem della “vecchia” industria in una regione che tuttavia  da più di un decennio sta integrando nel suo modello economico anche una “nuova” industria, fortemente innovativa,  che va dalla chimica, alla farmaceutica, dalla meccanica, all’elettronica all’informatica, a casi straordinari di start-up come quella della Blackshape a Monopoli , di Luciano Belviso e Angelo Petrosillo,  dove si producono gli aerei più leggeri al mondo.

In questo contesto, nell’estate del 2012 arriva il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e l’arresto dei Riva (il padre Emilio e il figlio Nicola ex presidenti della società) cui l’azienda fu ceduta del 1995 dall’Iri, presidente Romano Prodi. La nazionalizzazione certo non è la soluzione – come alcuni nostalgici tra sindacalisti e politici sperano. “ “La siderurgia pubblica Italiana è stata una storia partita benissimo, ma che è finita malissimo, con debiti, tangenti e inquinamento – non ho nessuna nostalgia per questo tipo d’intervento pubblico, ha dichiarato più volte  Marco Bentivogli segretario generale della Fim Cisl. Il governo ha piuttosto, per il leader della Fim il dovere di responsabilizzare il capitalismo italiano. Altrimenti dopo aver privatizzato i profitti, con questa proposta, socializzeremo le perdite e i danni dell’inquinamento. Non comprendiamo perché i cittadini italiani dovrebbero pagare per i danni ambientali, finanziari e industriali generati dalla famiglia Riva”.

Oggi, tra continui ritardi e uno scontro durissimo tra magistratura, azienda e politica, che il resto del mondo non capirebbe, il prezzo più pesante continuano a pagarlo gli 11.131 lavoratori dello stabilimento pugliese, nonostamte i progressi del piano di ambientalizzazione.

Uno spiraglio si apre  ora con il riavvio di AFO1, dopo la norma “salva Ilva” inserita nel decreto fallimenti che dovrebbe permettere al colosso italiano dell’acciaio di rimettersi in piedi, seguendo una nuova strada per il rilancio della produzione siderurgica ecosostenibile come già avviene nelle economie avanzate del nord Europa. E’ una boccata di ossigeno che dovrebbe far sperare in un autunno più tranquillo, per i lavoratori dello stabilimento pugliese.

Le isole

E poi ci sono poi le Isole, la Sardegna e la Sicilia. Due perle del Mediterraneo che spiccano per storia, bellezze artistiche e paesaggistiche, con una vocazione naturale al turismo e una cultura che, come vediamo anche in questi giorni, in fatto di accoglienza seconde a nessuno, il sud che accoglie.

Il rovescio della medaglia è una cultura politica e civile ancora fragile, che poco o nessun giovamento ha tratto dallo formula istituzionale dello statuto speciale. Grazie alla quale sono giunti lungo decenni ingentissime risorse, ma alprezzo di una estesa deresponsabilizzazione delle classi dirigenti e al dilagare del clientelismo, moderna incarnazione di quel “familismo amorale” che purtroppo non è stato ancora del tutto debellato. Si aggiunga a ciò una criminalità organizzata pervasiva, che specie in Sicilia, intrattiene raporti incestuosi con il mondo politico ed economico. Sono queste, in estrema sntesi, le coordinate in cui è maturato il ritardo, insieme economico e sociale, rispetto al resto del Paese.

La Sardegna

Il Sulcis, in provincia di Carbonia-Iglesias, è l’area più povera d’Italia. L’unica fonte di lavoro sicura era legata allo stabilimento ex-Alcoa e a tutto ciò che, con l’indotto, vi ruotava attorno. L’ormai ex –Alcoa rappresenta sicuramente il caso simbolo del declino industriale della Sardegna. E’ Una vertenza che va avanti da 2012 , quando a causa del costo dell’energia troppo elevato la multinazionale americana decise la chiusura del sito. Da allora non si contano le manifestazioni e le proteste.  In ballo c’è la cessione dello Smelter ex-Alcoa a Glencore, su cui bisogna accelerare se si vuole riprendere la produzione dell’alluminio nel nostro Paese. Nella sua ultima visita in Sardegna il Presidente del Consiglio Renzi, a fine maggio, ha promesso che tornerà a settembre per portare buone notizie: speriamo non sia solo una promessa ma l’inizio di una.

Una terra, la Sardegna, che può contare su un capitale di eccellenze agro-alimentari e artigianali, ma anche su una certa vivacità impreditoriale, con una porpensione verso le nuove tecnologie. Basta citare il caso Tiscali o pronunciare il nome di Alessandra Spada della TSC Consulting, annoverata tra le 100 donne che contano di più nel digitale. Talenti e iniziative che vanno sostenute attraverso una politica industriale mirata. Subito, perchè  di tempo se ne è perso già troppo.

La Sicilia

Simile sotto questo aspetto, la storia della Sicilia, una terra meravigliosa in cui non mancano le eccellenze industriali.  Una di queste, la St Microelettronics di Catania, player forte nel ramo dei semiconduttori, più di  4000 dipendenti e altrettanti nell’indotto, da qualche tempo preoccupa sindacati e lavoratori. La ragione è il passaggio di quote pubbliche in FSI, per motivi di sola cassa, con il connesso rallentamento degli investimenti.  Agli appelli del sindacato dovrebbe seguire un’azione di Governo e Regione per valorizzare, come fanno paesi avanzati come Germania, Giappone, Cina, Stati Uniti, Francia, un settore industriale di frontiera come quello dei semiconduttori, che con l’avvento dell IoT ( Internet of Think) avrà sempre più importanza per il futuro dell’industria e non solo.

Anche in Sicilia il costo dell’energia – 40% in piu’ della media europea – rappresenta un freno strutturale allo sviluppo.  Di qui viene la crisi, simile a quella di Alcoa, delle Acciaierie di Sicilia.

Come se ciò non bastasse, una burocrazia barocca  come le splendide architetture di Noto o Ragusa, frena nuovi investimenti e scoraggia i capitali stanieri. Si veda alla voce General Electric, che voleva puntare su Catania e gli ingegneri catanesi, e che invece si è accasata in Toscana. Resta poi sullo sfondo l’incognita dell’area industriale dell’ex Fiat di Termini Imerese che come giustamente ha avuto di sottolineare lo stesso Bentivogli (Fim) nel corso della trasmissione di Gianni Riotta, Parallelo Italia su Rai Tre dedicata al Sud, lo smantellamento  di Termini Imerese mette a rischio di arretramento industriale tutta l’isola, per  questo va trovata una soluzione industriale concreta rispetto alla proposta Blutec, in grado di ridare una prospettiva industriale.

In conclusione  

Ora, volendo riprendere proprio le parole del direttore di Svimez, Riccardo Padovani, è forse vero che ci “sono tendenze invertibili se si attuano strategie di sviluppo di forte discontinuità”. Ma quante volte l’abbiamo sentito­. Mi scrive Francesco Berardi, un imprenditore di origine calabrese, presidente e fondatore di Orangee: “L’azienda l’Italia è troppo vecchia, il sud si sta spopolando e se qualcuno pensa di gestire la transizione che stiamo vivendo senza sconquassi e con i vecchi strumenti può essere ammirevole, ma non c’è tempo. Abbiamo al massimo 10 anni per ridarci una missione come Paese e questo significa sopratutto sostenere le migliori menti ed energie giovani che oggi fuggono all’estero.

Non so se restano effettivamente 10 anni, ma è certo che il Sud non può più aspettare, tra le priorità la lotta alle  mafie è sicuramente al primo posto e va di pari passo con il lavoro e lo sviluppo. Per questo servono investimenti seri sul piano infrastrutturale, che non significa solo grandi infrastrutture: trasporti, banda ultra larga, energia, indispensabili, ma anche un sistema bancario a servizio delle imprese, pronto a finanziare le buone idee e la manutenzione ordinaria del territorio e servizi di qualità per i cittadini. Vanno attuate politiche di attrazione delle imprese, anche multinazionali e in questo il sindacato può, insieme alla politica svolgere un ruolo determinate, come dimostrano gli accordi fatti in Fca.

Ma abbiamo bisogno anche di apertura culturale da parte delle imprese, per governare la transizione verso  l’industria 4.0 di cui la Fim ha iniziato a discutere in un convegno organizzato ad Expò lo scorso mese di luglio. Un processo di questo tipo, lo sappiamo, cammina solo sulle gambe della partecipazione e dell’ingaggio cognitivo dei propri dipendenti. Su questo abbiamo aperto un fronte di discussione all’interno della piattaforma per il rinnovo del contratto metalmeccanico presentato a Federmeccanica. Ci auguriamo che il convegno che si terrà il prossimo 25-27 settembre a Pestum, promosso dal 3 Cdem, a cui parteciperà anche il nostro segretario generale Marco Bentivogli possa rappresentare un punto di riferimento, per aprire e liberare le energie migliori di questo nostro Sud.

Augusto Bisegna Ufficio Stampa Fim Cisl

2 Comments

  1. Bello articolo che racconta con i fatti chi si adopera veramente per il lavoro, in particolare per il sud.

  2. Articolo molto interessante. Il divario nord-sud è una zavorra per l’Italia e ad oggi ancora non si riesce a fermare questo trend. Politica e sindacato insieme devono fare in modo non solo di bloccarlo, ma di invertirlo.

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