Il problema non è il debito ma come si spendono i soldi. Colloquio col prof. Paolo Bosi

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Sono tanti i temi di politica economica e sociale che si affollano in questa difficilissima stagione politica. La stagione della ripartenza, e di una ripartenza che si voglia più avveduta, più coraggiosa, più tesa – finalmente – a segnare anche elementi forti di maggiore giustizia sociale, di revisione di parametri economici e di paradigmi culturali che hanno condizionato negativamente il cammino del Paese in questi anni, e quello della stessa Unione europea.

Giorni fa ci è caduto l’occhio su un articolo pubblicato da il Mulino nel numero 2 del 2020: “Il debito italiano in Europa: un problema malposto”. Autore Paolo Bosi, modenese, classe 1942, docente di Scienza delle finanze, prima, e di Economia pubblica poi, all’università di Modena e Reggio Emilia. Dell’associazione il Mulino Bosi è membro del direttivo, e per ben trenta anni ne ha diretto la rivista “Politica economica”. L’articolo era molto interessante. Parlava di due “idola da sfatare”. Il primo: che il debito sia sempre un onere; non lo è, diceva, se è tollerabile la pressione fiscale aggiuntiva che è necessaria per pagare gli interessi, e soprattutto se lo si fa per fare cose utili alla collettività. Il secondo: che la “credibilità” di un paese, come l’Italia, nell’ambito dell’Unione europea, dipenda dal rispetto dai vincoli sul debito posti dai trattati dell’Unione; sono vincoli sbagliati, diceva Bosi, che obbligano i paesi a seguire il modello economico e sociale ordo-liberista e impediscono di fare le riforme che sono necessarie in ogni singolo paese.

“In realtà – scriveva a un certo punto Bosi – mi pare che l’ossessione per il debito riveli una sfiducia eccessiva sugli effetti keynesiani dell’intervento pubblico”. “Ma soprattutto – aggiungeva – quell’ossessione sembra non comprendere che le vere riforme richiedono anche molta spesa pubblica corrente, su progetti specifici (istruzione, sanità, assistenza agli anziani, contrasto all’evasione, lotta alla criminalità…  Queste sono le ‘riforme’, ancor più necessarie dei pur necessari investimenti pubblici”. Concludeva con l’indicazione della necessità di soluzioni radicali a livello dell’Unione europea.

In questo particolare momento, la riflessione del professor Bosi ci è parsa molto stimolante. Abbiamo deciso, come redazione di c3dem, di raccogliere alcune domande per approfondire con lui le questioni nel suo articolo.

Nasce così l’intervista che qui pubblichiamo, con le domande venute da Guido Formigoni, Sandro Campanini e Giampiero Forcesi, e con il contributo anche di Vittorio Sammarco. Essa vuole segnare un primo passo di un percorso di attenzione, da parte nostra, al tema generale di una politica economica e sociale, in Italia e in Europa, che sappia riconoscere i condizionamenti ideologici in cui è rimasta imprigionata negli scorsi decenni e che guardi con lucidità alle possibilità di sviluppare una svolta in direzione di un’economia con forti connotazioni sociali.

 

Professore, come intendere il debito pubblico? È un vincolo inaccettabile messo da una generazione su quelle future, come per lo più lo intendiamo? Oppure è uno scambio con il risparmio privato – che acquista i titoli del debito e riceve gli interessi -, che ha, sì, dei costi per la collettività ma non così esosi?

Il debito, secondo la più nobile tradizione dell’economia politica (si veda Ricardo e i suoi Principi di economia politica e della tassazione) non pone un onere a carico delle generazioni future, se per onere intendiamo l’uso di risorse prodotte di cui lo stato dispone per proprie finalità. In caso di emissione di debito pubblico in futuro ci saranno interessi da pagare, ma questi, in un’ordinata gestione delle finanze pubbliche, verranno finanziati con incrementi dell’imposizione ordinaria. Il punto è ben chiarito dalla frase: “Non si combattono le guerre con le risorse di domani”, (solitamente le esplosioni del debito si hanno in occasione di guerre, vere proprie, o di fattori straordinari come il coronavirus). Il debito ha come esito una redistribuzione di risorse tra chi riceve interessi e chi paga le imposte per finanziare gli stessi. Non c’è uno scambio tra debito pubblico e risparmio privato perché non si sta ragionando nell’ottica di prestiti forzosi (sarebbero, in tal caso, non un prestito ma una sorta di imposta straordinaria). Nessuno è obbligato ad acquistare titoli di stato. Se lo fa, e oggi i privati e le banche sembrano farlo volentieri, è perché pensano di fare un buon affare.

Rispetto ai costi per la collettività ci si deve chiedere:

  1. Come lo stato ha utilizzato i fondi ottenuti con l’emissione del debito? Ha fatto la guerra? Ma l’ha vinta o l’ha persa? Ha fatto ospedali e scuole o, invece, ha aumentato le pensioni di anzianità?
  2. Quanto politicamente è tollerabile la redistribuzione che il debito impone, nell’ipotesi che si aumentino le imposte per pagare gli interessi? Chi riceve gli interessi, chi paga le tasse? Di solito gli interessi li riceve chi ha risparmio accumulato; le tasse le pagano (o dovrebbero pagarle) tutti, sulla base dei principi generali della tassazione, su cui si discute in continuazione: progressività, flat tax, ecc.
  3. I costi possono esser seri se c’è il rischio che uno stato non sia in grado di fare fronte alla restituzione del debito (il cosiddetto default), come parzialmente ha fatto la Grecia, come è stato concesso alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale, come è accaduto all’Argentina e in altri casi di gravi crisi. Senza dubbio questa eventualità si è proposta dopo la crisi del 2007, quando il debito dei privati (negli Usa) e i comportamenti poco corretti di banche e intermediari finanziari deregolamentati (americani, ma anche e forse soprattutto tedeschi, olandesi e francesi) hanno prodotto una crisi finanziaria che si è estesa all’Europa e ha richiesto interventi dei governi mettendo all’ordine del giorno la possibilità di insolvenza dei debiti sovrani, soprattutto di quelli più fragili (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna: i paesi cosiddetti PIIGS). È da allora che è comparso lo spread. Ma, come accenno nell’articolo sul Mulino, questo ha a che fare soprattutto con la pessima disciplina costituzionale dell’euro, con la regolamentazione delle banche a livello mondiale, con la inaccettabile dilagante finanziarizzazione mondiale. In ogni caso, ritengo che il giudizio negativo sull’Italia sia inappropriato, e ciò sulla base di indicatori (posizione netta sull’estero, saldo della bilancia dei pagamenti, rilevanza industriale del paese, ecc.) che dovrebbero convincere che il default per l’Italia è poco plausibile, a meno di attacchi puramente speculativi. Non lo penso solo io, ma anche Ignazio Visco nelle Considerazioni finali di quest’anno laddove dice, parlando dello spread: “il differenziale è ancora quasi il doppio di quelli di Spagna e Portogallo, su valori che non trovano giustificazione nei fondamentali della nostra economia, che pure sono da consolidare e sui quali dobbiamo costruire”.

Le spiegazioni fornite ora potrebbero sollevare l’obiezione che il problema si possa porre in modo diverso se il debito pubblico fosse non interno, sottoscritto cioè da italiani, ma estero, cioè sottoscritto da investitori stranieri (la posizione netta sull’estero di un paese è indicatore ben diverso dalla quota del debito pubblico sottoscritto da investitori stranieri. Solo la prima, se negativa è indice di un paese che vive al di sopra delle proprie possibilità]. Nel caso di debito interno parrebbe appropriata l’interpretazione del debito come trasferimento tra chi riceve gli interessi e chi paga le imposte per finanziarli. Questa narrazione potrebbe apparire inappropriata se gli interessi sono pagati a stranieri. In realtà non è così. Nel caso di prestito estero il paese che si indebita riceve, al momento dell’emissione, risorse dall’estero addizionali rispetto al caso di prestito interno. Se queste risorse sono state impiegate correttamente frutteranno maggiori risorse sufficienti a pagare gli interessi all’estero. Se non sono state ben impiegate si può parlare di onere per le generazioni future. Il problema è come si spendono i soldi, non il debito.

 

Il debito non deve essere un tabù; ma allora fino a quanto può crescere senza diventare un peso insostenibile per le generazioni future?

Se si concede che il rischio di default sia piccolo, il debito può crescere fino al punto in cui la pressione tributaria per finanziare l’ordinaria spesa pubblica e gli interessi non diventa politicamente troppo elevata. Per le generazioni future vale quanto detto sopra: dipende da cosa si è fatto con le risorse ottenute col debito. È meglio per le generazioni future avere una buona scuola e debito pubblico o avere una cattiva scuola senza debito? Apro una parentesi provocatoria: su un piano in qualche modo filosofico, è davvero chiaro e condiviso a chi invoca le generazioni future quale sia il dovere delle generazioni presenti nei confronti di quelle successive? Il dovere è forse abbastanza definito quando si parla di ambiente, risorse non rinnovabili, etc; ma in altri campi la risposta è molto meno ovvia.

 

Secondo lei sono credibili i piani di rientro del debito pubblico di cui si discute? Oppure occorrerebbe una più decisa crescita economica, che però appare incompatibile con l’austerità della finanza pubblica?

Penso che i piani di rientro del debito realizzati attraverso aumento dell’avanzo primario siano difficilmente sostenibili. L’Italia è il paese che più di ogni altro ha tentato questa strada (abbiamo sempre avuto avanzi primari a partire dal ’92, tranne che nel 2009), e come conseguenza presenta evidenti segni di carenze di infrastrutture pubbliche e di capacità di funzionamento di una pubblica amministrazione che è stata decimata o comunque precarizzata in varie forme (esternalizzazioni). Occorrerebbe una più decisa crescita economica, ma questa non può essere realizzata in pochi anni, e le condizioni per realizzarla richiedono comunque rilevanti impieghi di risorse pubbliche (sanità, scuola, ricerca, controlli contro l’evasione, contro la criminalità organizzata, contro gli abusi del mercato del lavoro, etc.). I casi in cui i piani di rientro hanno avuto successo sono pochissimi e spesso attribuibili a maggiori entrate fiscali.

 

Pensa che il salvataggio dell’euro effettuato dalla Bce di Draghi con l’acquisto di titoli e la creazione di liquidità sia sufficiente, oppure occorre aggiungere un cambiamento delle regole finanziarie?

La politica attuata da Draghi e sinora proseguita da Lagarde è stata essenziale. Gli strumenti utilizzati (contestati dalla Bundesbank e dalla Corte tedesca) sono innovativi, ma sono strumenti temporanei. Se cesseranno troppo presto o si attenueranno, potrebbero manifestarsi rischi molto seri. Il differenziale è ancora quasi il doppio di quelli di Spagna e Portogallo, su valori che non trovano giustificazione nei fondamentali della nostra economia, che pure sono da consolidare e sui quali dobbiamo costruire. Il cambiamento delle regole è quindi auspicabile, ma lo ritengo poco probabile o comunque troppo lento.

 

Nella recente storia d’Italia c’è un po’ un paradosso: il debito pubblico è spesso cresciuto con i governi di centrodestra, mentre sono stati quelli di centrosinistra a ridurlo. Sembrerebbe quindi che l’equazione “più debito=più progresso/benessere” non sia così evidente, salvo non imputare alle forze di sinistra una volontà autolesionistica. Come spiega questo fatto? Oppure esiste un “debito buono” e un “debito cattivo”? Se sì, in che senso?

Penso esista un debito buono e uno cattivo, come si può dedurre dalle sottolineature che ho fatto sopra su come si usa la spesa pubblica. Nel caso dei governi di centro destra, ma anche di parte non piccola della sinistra, il debito cattivo è stato spesso quello che si è posto principalmente l’obiettivo di “ridurre le tasse” (che può prendere la forma di condoni, tolleranza dell’evasione o riduzioni del cuneo fiscale). È questo lo slogan che ha consentito vittorie elettorali alla destra, e al quale anche la sinistra, in minore misura e quindi con minori dividendi elettorali, ha spesso dato credito.

 

Come mai l’Italia, tradizionalmente (ma non da sempre, in realtà) ha un debito maggiore degli altri Paesi europei? Questo fatto non rende più difficile sostenere, in frangenti come quello attuale, l’opportunità di indebitarsi ulteriormente per favorire l’espansione?

Il debito italiano si è formato soprattutto negli anni ‘80 con politiche di spesa poco responsabili. Il 1992 ha rappresentato uno spartiacque a cui però non ha fatto seguito una politica coerente per ragioni diverse e complesse: l’alternarsi di governi di centro sinistra e destra con obiettivi contrastanti, la mitologia delle privatizzazioni ed esternalizzazioni, l’adesione prematura all’Unione monetaria e la vittoria delle politiche di austerità. Abbiamo sprecato anni preziosi. Poi le crisi del 2008, del 2013 e del 2020 hanno fatto il resto. Certamente ora, rispetto ad altri paesi, abbiamo meno spazi per continuare ad indebitarci. Ma sia chiaro: la teoria economica non fornisce alcuna indicazione definita di quale sia il valore ottimale o quello insopportabile di debito pubblico rispetto al Pil, se non escludere che possa crescere all’infinito.

 

Lei sostiene che dobbiamo liberarci “culturalmente” dell’idea che il debito pubblico sia un peso. Ma ripagare il debito implica un aumento della pressione fiscale oppure la riduzione dei servizi pubblici. Entrambe le strade sembrano assai onerose…

Il peso del debito (nel senso del rapporto debito/Pil a cui il mainstream economico attribuisce tanta importanza, quindi non nel senso di onere come descritto sopra, che è in definitiva pari ai punti di pressione fiscale in più per pagare gli interessi) si riduce a una (o più) di queste condizioni: se aumenta la crescita nominale del Pil (crescita reale + inflazione), se calano i tassi nominali d’interesse, se aumentano gli avanzi primari (la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi). Oggi abbiamo tassi quasi a zero, che certamente non possono essere ulteriormente ridotti; le prospettive di crescita reale sono modeste in ogni caso. Riduzioni del rapporto debito Pil possono, allora, venire solo da una maggiore inflazione e dall’austerità fiscale. La prima non è alle viste. Resta solo l’austerità, che comporta riduzione dei servizi pubblici, e che rende impossibili le riforme che sarebbero necessarie per ottenere una maggiore crescita. Io sarei favorevole a politiche che si limitino ad evitare che il debito aumenti ulteriormente (una volta scontato l’aumento straordinario attribuibile alla pandemia) e punterei a investire bene le risorse pubbliche per favorire la crescita, la quale andrebbe definita in modo un poco più ampio della mera valutazione del Pil. Vincenzo Visco in un recente libro dimostra che 50-60 miliardi di evasione fiscale possono essere recuperati. Se gran parte di questi potranno esser destinati a “buona spesa”, i servizi pubblici necessari potrebbero non essere compromessi.

 

L’emergenza connessa alla pandemia ha provocato un aumento cospicuo della spesa e quindi del debito. C’è la possibilità che questo sposti le convinzioni diffuse sul peso di questo “fardello”, rendendolo più accettabile? Oppure precipitiamo verso una situazione fuori controllo?

Sicuramente la pandemia ha messo in luce, per l’aspetto sanitario, l’errore di avere tagliato la spesa sanitaria pubblica e i limiti degli attuali strumenti di ammortizzatori sociale e reso consapevoli della necessità di investire in scuola e in ricerca. Ma il problema sono le regole europee. Se si riprende il Patto di stabilità e crescita con il tradizionale ritmo, paesi che hanno avuto meno vantaggi dall’Unione monetaria si troveranno in gravi difficoltà (consiglio caldamente la lettura del libro Ginzburg, Simonazzi et al, Una unione divisiva, il Mulino, appena uscito).

 

I margini ulteriori necessari per investimenti in stato sociale, sanità, sostenibilità ambientale sarebbe meglio siano gestiti dai singoli Stati con maggiore flessibilità delle regole, oppure sarebbe meglio pensare direttamente a un grande investimento europeo solidale?

Entrambe le vie sono da perseguire, ma credo vada lasciata molta autonomia ai singoli stati. L’Europa ha ancora molte differenze che non possono essere sanate solo con obiettivi comuni (ad es., un’unica indennità di disoccupazione o un piano di investimenti infrastrutturali a raggio europeo). Non è detto che le riforme che suggerisce/impone la Commissione europea o il Consiglio europeo siano quelle di cui l’Italia, a mio avviso, avrebbe bisogno. È molto probabile che continuino ad essere favorite politiche cha hanno come principale obiettivo il controllo della spesa pubblica. In questa direzione si muovono le proposte più accreditate.

 

Lei ha scritto che, a posteriori, la scelta di entrare nell’euro è stata, per l’Italia, un errore, perché si sono sottovalutati i rischi… Ma adesso cosa prevede che si possa fare: un passo indietro, non solo dell’Italia, per restare nella Unione europea, ma smontando l’Unione monetaria, oppure riformare il sistema monetario europeo in modo che sia riconosciuta la condivisione dei rischi e rivisto il Patto di stabilità?

Ho in mente senza dubbio la seconda via, che certo è politicamente difficile e richiede alleanze non tra paesi, ma tra linee politiche transnazionali in Europa. Si tratta di ottenere risultati che estendano le pur interessanti aperture prodotte dalla crisi della pandemia (la BCE oggi di fatto finanzia con moneta i disavanzi con le politiche del Quantitative easing e del Pandemic Emergency Purchase Programme, e può operare seppure timidamente anche al di fuori delle strette regole del patto di stabilità, deviando dal capital key, cioè il criterio che stabilisce che la Bce può acquistare debiti sovrani in proporzione alla quota che ogni paese detiene nell’azionariato della Bce stessa). Il Recovery fund potrebbe essere acquistato in misura elevata dalla Bce stessa realizzando in tal caso una monetizzazione del debito (che sarebbe a mio avviso la principale politica da attuare nell’immediato) o producendo embrioni di un debito pubblico europeo e un ampliamento del budget europeo. Per ottenere pur importanti risultati nel breve periodo (cioè per sostenere l’uscita dalla pandemia) non si deve cadere nella trappola di assecondare politiche o strumenti che rendano dopo più difficile muoversi nella direzione di un’Europa unita (anche in questo senso va letta la discussione sul Mes e sul Recovery fund, che penso tuttavia vadano sfruttati in modo pragmatico e attento). I paesi del nord devono essere messi politicamente alla prova per saggiare il grado di condivisione dei rischi che sono disposti ad accettare.

 

 

*Qui il link all’articolo di Paolo Bosi “Il debito italiano in Europa: un problema malpostouscito su il Mulino n. 2/2020.

*Si veda anche, suggerito dal prof. Bosi, l’articolo di Roberto Artoni,Ricorre una descrizione distorta della realtà economica del nostro paese“, uscito il 9 aprile su Welforum.it

2 Comments

  1. Grazie per l’interessantissima intervista su un tema nodale per il nostro Paese. Condivido che la primaria importanza deve essere rivolta al buon uso dei soldi e quindi alla buona gestione del debito, ma mi pare che che quando una moneta diventa “carta straccia”, lo spread sale e ….Argentina, Grecia, Libano, ecc…. diventano esempi che non vorremmo rivivere. Forse l’Europa ha accettato di guardarci in un modo diverso; forse sta maturando un cambiamento nella visione politica del futuro…. .ma l’Italia era già in grande difficoltà ed il Covid ci ha devastato.
    Forse i prestiti agevolati della BCE ed il credito a fondo perduto ci permetteranno di sopravvivere…ma con il fiato sempre più corto. Saremo sempre più l’ultimo Paese del nostro continente. I giovani capaci dovranno andare all’estero, e le nostre ditte prestigiose, ancora in mano ai capitali italiani, verranno pian piano comprate da fondi esteri o inglobate da ditte straniere che porteranno altrove la nostra conoscenza ed il lavoro di qualità….come già fanno da una quindicina d’anni.
    Io penso, senza essere un economista, che fra i tanti problemi per la ripresa, fra i progetti organici che si devono mettere in cantiere per costruire il nuovo Paese diventa prioritario ….abbassare il debito pubblico con un forte colpo condiviso dal Paese.
    Tocca oggi a noi, a quelle generazioni che dagli anni ‘60 agli anni ’90 hanno vissuto la loro giovinezza, assumerci la responsabilità di dire che abbiamo vissuto un periodo d’oro, spremendo in anticipo anche i risparmi dei nostri figli: tocca in primis a noi collaborare e contribuire a riportare il debito pubblico in una logica supportabile per i giovani che vogliono ricostruire l’Italia.
    Alle imprese private ed ai loro lavoratori si può solo chiedere impegno, lavoro e d il pagamento delle giuste tasse.
    Tocca ai pensionati che godono di una pensione dignitosa o ai baby pensionati ai quali è stata ingiustamente donata, tocca ai dipendenti statali e parastatali che non hanno mai avuto in discussione lo stipendio nemmeno in questi mesi, tocca ai dirigenti, ai Parlamentari ed agli amministratori pubblici e parapubblici, tocca ai Magistrati ed ai comandanti dell’Esercito, tocca ancor più a quanti non hanno pagato le tasse dovute; tocca alla nostra generazione, senza toccare imprese e lavoro privato, restituire un contributo molto significativo per ridare credibilità e vitalità al Paese ed alleggerire un peso che sappiamo già insostenibile per i nostri figli e nipoti.

  2. L’articolo espone aspetti e considerazioni pertinenti, equilibrate ed utili per traguardare la situazione economica del nostro paese; va’ oltre i soliti piagnistei oppure visioni banalmente sovraniste. Ad una prima lettura manca comunque una disamina delle disuguaglianze, in forte aumento non solo in Italia; questo aspetto non emerge con la dovuta enfasi se si ragiona solo su grandezze economiche “aggregate”, ma conta se poi ragioniamo di giustizia, pari opportunità e prospettive per il futuro. La finanziarizzazione dell’economia ha reso i ricchi troppo ancora più ricchi ed i poveri sono aumentati. Se non si trova il modo di redistribuire le opportunità … ci penserà la Storia!

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