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  1. Una prima reazione a caldo.
    1. Oggi il lavoro, anzichè essere una dimensione che accomuna persone mature (che già lavorano da tempo) e giovani (che fanno il loro ingresso) è diventato uno spartiacque insieme economico e generazionale: da un lato i grandi, con un lavoro fisso o quasi, dall’altro i giovani, con un precariato che spesso si riduce a un quasi-capolarato.
    I “vecchi” stanno cercando di ovviare a questo problema sostenendo, attraverso la famiglia, i giovani, nella speranza che prima o poi si sistemino. Compito nobilissimo ma che erode i risparmi e che si gioca in una dimensione privata: mentre invece questo “aiuto” intergenerazionale dovrebbe essere condiviso e non rivolto da singolo a singolo, mantenendolo ma senza prospettive, e concretizzato in progetti di occupazione per i giovani stessi (start up, cooperative, borse di studio e di ricerca, ecc.). Pensionati e dipendenti col posto fisso (io sono tra quelli) hanno il dovere di contribuire, nei limiti delle loro possibilità: ma occorre un meccanismo per poterlo fare (un fondo nazionale gestito da saggi super partes? una fondazione ad hoc? E la comunità ecclesiale non può far qualcosa…?).
    2. Il lavoro oggi divide anche persone adulte, tra chi lo ha e chi lo ha perso o è in cassa integrazione. Anche qui, occorrerebbero meccanismi di solidarietà più marcati e un senso della condivisione maggiore.
    3. Ha ragione Bertani quando indica il rischio della riduzione del lavoro al solo obiettivo del salario per vivere o (in alcuni casi) per stra-vivere. Dimensione imprescindibile, certo, quella dello stipendio, ma che non può diventare assoluta. Mi domando: abbiamo trasmesso/trasmettiamo il valore del lavoro ai nostri giovani (ecco il tema educativo sollevato da Angelo)? O abbiamo fatto passare l’idea del solo guadagno? Un bravissimo professore delle medie di un mio figlio, alcuni anni fa, ha detto a noi genitori: ma voi raccontate ai vostri figli quello che fate al lavoro? Sanno di cosa vi occupate? Raccontate i vostri successi ed insuccessi, le sfide e le difficoltà? Da allora, quando i figli mi chiedono “come va?” non mi limito a dire più “bene” o “così così”, “giornata pesante” o “è stata una buona giornata”, ma cerco di dire quello che ho fatto, cosa succede nel mio ufficio, i progetti che sto seguendo, e così via. Il valore del lavoro si trasmette non solo vivendolo (che è la prima cosa) ma anche raccontandolo. Ho presente ragazzi e ragazze delle scuole “rapiti” dai racconti di artigiani che spiegano loro “il mestiere”, così come da esperti di marketing che svelano loro i trucchi di un’espansione della produzione…
    4. Assistiamo a un paradosso: da un lato il lavoro che manca; dall’altro persone che devono lavorare troppo. Giovani che appena assunti devono dedicare tutta la loro energia solo e soltanto al lavoro: come se in cambio di un agognato posto, il prezzo da pagare sia un impegno totale e totalizzante (e a proposito, come si fa in queste situazioni a programmare la nascita di un figlio…? Se non hai lavoro, non ci pensi nemmeno, se ce l’hai, rischi di non poter accudire tuo figlio!). Ho presente un amico dirigente di azienda che ha avuto come benefit una buona auto ma che, oltre a numerosi viaggi in Cina e in altri posti, deve usarla per recarsi in Germania una o due volte al mese, per qualche giorno. E la moglie e i due figli piccoli? La leggenda vuole che gli italiani lavorino poco: non credo proprio! Amici di una grossa azienda alimentare di Parma mi raccontano che, mentre loro si fermano fino alle 18,30-19 o anche più, se telefonano ai colleghi dell’azienda “consociata” nel nord Europa dopo le 17, non trovano nessuno… E d’accordo che là è buio presto e ci sono molti gradi sotto zero, però… Da noi in Italia, il sistema della “luce accesa” (far carriera non per meriti specifici ma rimanendo in ufficio un minuto in più del capo/a; cosa che il capo o la capa, ahimè, spesso apprezza, invece di guardare ad obiettivi raggiunti e capacità…) è ancora molto vivo ed è anche per questo che il telelavoro stenta a decollare…
    Si diceva anni fa: lavorare meno, lavorare tutti… Beh, sarà uno slogan trito, ma ha un fondo di verità. E aggiungerei: lavorare meno, lavorare tutti e lavorare meglio. In Italia molto spesso la quantità di tempo dedicato al lavoro è ritenuta più importante della qualità, anche per un ritardo nella nostra cultura organizzativa, sia nel settore pubblico- in particolare – ma anche in quello privato (basti pensare al numero di riunioni più o meno inutili che si fanno, magari iniziate in ritardo, interrotte da telefonate e messaggi e non-concluse con un “ci aggiorniamo”…). Occorre quindi ridare valore al lavoro ma anche ricollocarlo nella giusta dimensione: il lavoro è per l’uomo/la donna, non viceversa. C’è la famiglia (sia per i maschi che per le femmine, non scordiamocelo!), gli amici, i propri anziani, e sperabilmente un impegno volontario e associativo, la spiritualità… e anche il tempo libero, che anch’esso, oltre ad essere un diritto, è un buon volano dell’economia (non penso certo ai centri commerciali, ma a tutto il sistema culturale che si può avvantaggiare di questo: città d’arte, turismo, mostre, musei, iniziative musicali, sagre, feste popolari…). Non solo; ma se fossi un datore di lavoro serio, sarei più contento di avere dipendenti che hanno una loro dimensione personale e chiedendo loro un po’ meno tempo di lavoro potrei a buon diritto esigere maggiore impegno e qualità dei risultati.

    Scusate il tono molto concreto e poco… culturale, ma spero che si siano colti, al di là delle esemplificazioni, i nodi, davvero grossi, che vi sottendono.

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