Il lavoro come “relazione”. Ripartire da qui

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“Diventa urgente anche l’elaborazione di politiche del lavoro basate su una concezione relazionale e non puramente funzionalistica, come invece, in larghissima misura, è avvenuto finora. “. Dalle conclusioni (che pubblichiamo in parte) del nuovo libro di Pierre Carniti (per info vedi http://altrimediaedizioni.blured.biz/). Un impegno alto, una scommessa, un punto forte su cui progettare la ripresa.

 

Assumere una concezione relazionale significa che le politiche del lavoro non derivano più il loro carattere politico dal fatto di venire emanate dallo Stato. Ovvero dal sistema politico amministrativo e impugnabili davanti alla magistratura. Ma dal fatto che esse corrispondono a un modo nuovo di percepire e fare lavoro nelle varie sfere sociali, che nascono e si propagano dalla società civile. Naturalmente il lavoro è una “relazione sociale” che ha sempre un valore economico, anche se questo non significa che debba essere esclusivo e solo monetario. Il lavoro, infatti, è relazione fra una risorsa (strumentale), un bene da produrre, un modo di produrre beni, un valore umano coinvolto.

In definitiva (anche a prescindere dalle technicality tutte da definire) si tratta di concepire il lavoro come una possibilità reale di relazioni inedite nel campo della produzione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi. Considerato che è la sua connotazione relazionale che ne fa un’attività generativa e non puramente una cosa che si può comprare e vendere sul mercato. Nella nuova prospettiva il punto che bisogna avere chiaro è che il lavoro non si esaurisce, perciò non è soltanto agire economico, uno strumento di produzione di beni di consumo da monetizzare, ma appunto una relazione sociale che chiede di essere trattata come tale.

Invece negli ultimi due secoli, dal capitalismo al marxismo, si è sempre visto il lavoro esclusivamente come fattore di produzione. Trascurando quindi una visione relazionale intrinseca del lavoro e della società stessa. Al punto che avere un lavoro, studiare per un lavoro, imparare un mestiere, eccetera, alla fine, lungo processi di globalizzazione sregolati e incontrollati, ha portato alla formula cinica del significato assunto dalla vita: “produci, consuma, muori”. Per tutti naturalmente la speranza dovrebbe essere un’altra. Considerato che se la società del futuro non vedrà sicuramente sparire il lavoro, avrà però, al tempo stesso, sempre più bisogno di energie e di capacità e di una crescente qualità umana, per fare fronte a bisogni sociali vecchi e nuovi da cui vengono ricavate le risorse di vita per gli stessi soggetti che svolgono tali attività.

Pensando al futuro, non essendo possibile prefigurare nel dettaglio i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione sociale di domani, andrebbero almeno evitate le discussioni inutili e fuorvianti di oggi. In mancanza di profeti, di oracoli, di sciamani riconosciuti, ci si deve limitare a considerare che quello prefigurato non è un circolo o un club nel quale saranno ammessi e potranno riunirsi solo visionari e sognatori. Tanto più che non esiste nemmeno alcuno abilitato a rilasciare o ritirare patenti. E comunque, se si vuole che funzioni davvero, il modello di “lavoro relazionale” deve essere aperto a tutti i contributi e a tutte le esperienze.

Quindi chiunque, in qualunque momento, deve poter essere coinvolto per portare il suo impegno, il suo ingegno, la sua creatività, in un clima di convivialità e di condivisione. Il problema presente, per altro, non consiste affatto nel perdere tempo a immaginare un futuro ipotetico e per alcuni magari del tutto improbabile. Al contrario, ciò di cui c’è bisogno è un impegno concreto, di trasformazione graduale ma costante delle strutture e della cultura economica e sociale esistente. Al riguardo la ricerca e il dibattito possono già contare su apporti significativi. In proposito, il sociologo Ulrich Beck, in un recente articolo sostiene che “viviamo in un’epoca nella quale è accaduto qualcosa di inimmaginabile fino a poco tempo fa”. Ossia che i fondamenti del capitalismo globale in passato spacciati come “razionali”, ma adesso rivelatisi alquanto “irrazionali”, sono diventati sempre più problematici. Anche politicamente.

Al punto che esistono ormai versioni radicalmente differenti del futuro dell’occidente, dove è in corso quasi una guerra fredda interna. Da un lato c’è, infatti, chi vuole un capitalismo “regolabile”, che cerca un compromesso con i movimenti sociali, aperto alle questioni ambientali e alla partecipazione dei lavoratori. Dall’altro c’è chi punta su un’autoregolazione “dell’ego-capitalismo globale” che non disdegna gli interventi militari nel tentativo di ricreare la coesione nazionale attraverso lo schema amico-nemico. Per uscire da questa trappola Ulrich Beck ritiene che l’unica strada possibile sia “una maggiore libertà, una maggiore sicurezza sociale, una maggiore democrazia”. Quindi si può aggiungere un modo “altro” di concepire il lavoro.

A sua volta, il capo della più importante agenzia britannica per la promozione e l’innovazione tecnologica, Geoff Mulgan, afferma che non si riuscirà ad andare da nessuna parte se gli obiettivi della società non incominceranno a essere valutati invece che in moneta anche per la loro capacità di sostenere vite piene, ricche di relazioni, di appagamento e di affetti. Non si tratta di un’illusione, di una fantasticheria, ammonisce Mulgan. Perché stiamo assistendo “al nascere di un’economia fondata più sulle relazioni che sui beni di scambio, sul fare più che sull’avere, sul mantenere più che sul produrre”. Mulgan raccomanda anche d’incentivare “quelle parti del capitalismo che a loro volta premiano la dimensione della vita di relazione”.

Questo potrà avvenire grazie all’intervento della cultura, della politica, delle istituzioni, della società civile per raggiungere un equilibrio finalmente a misura d’uomo. Che non nascerà spontaneamente, perché presuppone un cambiamento di mentalità, di abitudini, di cultura, indispensabili per perseguire la dimensione libertaria della società e dello stesso capitalismo. Anche a costo di cambiargli le caratteristiche.

Sono naturalmente abbozzi, strade da esplorare, ma l’obiettivo è chiaro. Il capitalismo in tutte le sue forme (continuamente mutate nel corso della propria storia) deve essere considerato semplicemente una modalità strumentale e specifica dell’organizzazione produttiva, non il padrone della società nel suo insieme, come invece è avvenuto negli ultimi decenni. Quindi gli eccessi, gli errori di cui si è reso responsabile e che hanno ferito e devitalizzato la società contemporanea, devono essere drasticamente combattuti e corretti. Il che significa che, per continuare a mantenere un ruolo, non potrà ulteriormente mettersi di traverso al perseguimento di un futuro costruito a partire da una società più consapevole, più partecipata, più giusta.

Nella quale il lavoro riacquisti un “senso”.

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