Il lavoro che non c’è. Né per gli italiani né per gli immigrati

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Un contributo alla lettura del libro di Pierre Carniti “La risacca. Il lavoro senza lavoro”, a partire dalla situazione degli immigrati e dalla politica sindacale. L’autore è coordinatore nazionale delle Politiche migratorie della Uil

 

 Indubbiamente il tema trattato in “La risacca” è di bruciante attualità. In Italia siamo nel pieno di una gravissima crisi economica, con tre milioni di disoccupati ufficiali ed altri tre milioni di persone inattive. Una disoccupazione giovanile che sfiora il 40% ed una crescita economica assolutamente negativa chissà per quanti anni.

Certo, c’entra anche l’Europa e le regole che ci impone, ma c’entra soprattutto il fatto che non abbiamo potuto o voluto fare quelle riforme necessarie a rendere il nostro sistema economico e produttivo più moderno e competitivo, pur nel rispetto della persona e delle sue aspirazioni.

Quello che spaventa di più è il quadro del cosa sia diventato il lavoro nella nostra società: non solo interi settori della produttivi stanno scomparendo, non solo la globalizzazione ha portato ad una finanziarizzazione dell’economia, ma la precarietà assoluta ha preso piede, rendendo il posto fisso una semplice chimera del passato.

La frammentazione del panorama contrattuale porta ad un progressivo indebolimento del sindacato che si è mostrato incapace di far fronte alla  trasformazione del mondo del lavoro, un cambiamento che è andato avanti senza che Cgil Cisl e Uil  potessero far molto per governarlo. Qualcuno dice che il sindacato ormai gestisce una quota sempre più piccola del mercato del lavoro, una classe lavoratrice sempre più vecchia ed in estinzione, e che il nuovo mercato del lavoro, quello fatto dal precariato, dall’immigrazione e dai giovani disoccupati, è una società di serie B che il sindacato non rappresenta e non tutela e che è destinata a crescere.

E’ dunque il sindacato a rischiare l’estinzione? Qualcuno tra i politici d’assalto lo teorizza e forse noi dovremmo fermarci un momento a riflettere.

Mi riferisco in particolare al problema dei giovani (assolutamente precarizzati, quando non disoccupati) e agli immigrati (oggi 5 milioni) che, pur occupando settori del mercato del lavoro complementari a quelli degli italiani (e dunque in posizione apparentemente non conflittuale), hanno concorso in forma non risibile al fenomeno del dumping sociale e quindi all’indebolimento del meccanismo contrattuale delle tutele.

Vi sono settori come il lavoro agricolo, delle costruzioni, del commercio o dei servizi alla persona, che sono in crescita della nostra economia e nei quali si assiste a una crescente presenza del lavoro etnico, a un appesantimento delle condizioni di lavoro e di retribuzione e ad una difficoltà forte del sindacato di rappresentare questi lavoratori.

Peggiore ancora è la situazione rispetto ai giovani, con forme di frammentazione contrattuale che allontanano milioni di nuovi lavoratori dal sindacato e dalle forme tradizionali di contrattazione.

Quello che spaventa di più è forse il fatto che la nostra società non sembra più in grado di produrre lavoro, malgrado il pesante gap demografico che sta erodendo la componente italiana della popolazione. Mi spiego: in Italia siamo oggi circa 60 milioni, ma senza gli immigrati saremmo solo 55 milioni: e questo per la perdita progressiva di popolazione italiana che prosegue inarrestabile ogni anno a causa del nostro deficit di fertilità. In effetti il tasso di fertilità femminile italiano è solo all’1,4 figli per donna (quello delle donne straniere è a circa 2,1%). A tassi come questi, siamo destinati a perdere popolazione: 3/400 mila persone l’anno. Negli ultimi dieci anni la nostra popolazione complessiva è rimasta stabile solo per l’immissione ogni anno di circa 400 mila immigrati. Senza di loro, avremmo perso già un decimo della popolazione (e l’11% del PIL, che oggi è prodotto da loro).

Ora il problema è che, da un paio d’anni, a causa della crisi economica, il numero di immigrati in arrivo sta scendendo rapidamente. Oggi contiamo in 380 mila immigrati che hanno perso il lavoro: se non lo troveranno entro un anno avranno di fronte la duplice negativa alternativa di dover lavorare in nero o di dover abbandonare l’Italia.

Ancora più significativo: gli arrivi di immigrati per lavoro stanno diminuendo rapidamente (tra il 2010 ed il 2012 sono scesi del 50%), tanto da rendere inutile (e forse dannoso) l’uso dello strumento del decreto flussi.

Se questo trend dovesse continuare, dunque, la nostra società sarebbe condannata ad un rapido declino  (demografico, ma anche economico), maggiore di quello già in atto.

Perché è ben chiaro che la ricchezza ed il PIL prodotto in una società si basano essenzialmente sulla presenza di popolazione professionalmente formata ed attiva,  nonché sulla ricchezza individuale prodotta: non c’è dubbio che diminuendo la popolazione scenderà fatalmente anche il PIL.

La perdita di popolazione è già in atto, eppure la nostra società continua a produrre sempre meno occasioni di lavoro: abbiamo dunque il paradosso di una società che perde popolazione, ma evidentemente perde più occasioni di lavoro di quanto non perda cittadinanza, e quindi non è in grado di dare prospettive ai pochi che restano: Come risultato siamo tornati ad essere una nazione che ha più emigrati che immigrati.  Una prospettiva non proprio rosea.

Tra il 2002 ed il 2012 la popolazione immigrata è quintuplicata. Purtroppo l’ingresso della stragrande maggioranza di questi cittadini è avvenuta in forma irregolare o attraverso il meccanismo degli overstayers. Questo è il prodotto dell’incapacità assoluta di governance da parte delle nostre autorità, ma anche dalla natura della nostra economia e struttura produttiva. Il risultato è che questa forte condizione di irregolarità ha alimentato il mercato del lavoro sommerso, producendo un esteso fenomeno di dumping produttivo e sociale che non ha mancato di produrre danni all’economia formale ed a indebolire il sindacato.

Non è un mistero per nessuno che un lavoratore straniero guadagna circa un quarto in meno di un suo collega italiano e per la stessa funzione. Inoltre il lavoratore straniero è più ricattabile essendo la sua presenza in Italia legata al contratto di soggiorno ed al posto di lavoro. Dunque egli è costretto ad essere più flessibile (e mobile) e meno naturalmente meno sindacalizzato.

Non dobbiamo dimenticare che almeno un quarto dell’economia italiana opera nel sommerso e che, a domanda di lavoro sommerso corrisponde necessariamente un’offerta di lavoro sommerso: questa è la maggiore causa dell’immigrazione irregolare. Non c’è solo un fattore push dai PVS ma anche un fattore pull guidato dall’economia sommersa. Se vogliamo combatterla, dovremo necessariamente fare i conti con la sua natura ed suo modo di funzionare: un mondo a volte non tanto lontano dal caporalato e dalla criminalità organizzata.

Tutto ciò, unito alle strettoie di una normativa sull’immigrazione che rendeva difficile entrare in Italia legalmente per motivi di lavoro, ha alimentato un mercato del lavoro irregolare spesso più fiorente ed efficace del lavoro regolare, malgrado i rischi di espulsione o detenzione che la condizione di irregolarità può comportare per un immigrato cosiddetto clandestino.

Non è neppure un mistero che moltissimi imprenditori, piuttosto che misurarsi sul terreno della competitività e degli investimenti e dell’innovazione di processo e prodotto, hanno preferito seguire la facile strada della competizione al ribasso con la compressione del costo del lavoro (salari più bassi, condizioni di lavoro peggiori) attraverso l’utilizzo di immigrati (spesso irregolari) oppure con la dislocazione delle imprese all’estero, in Paesi a basso costo della manodopera ed assenza di tutela sindacale.

Questa scelta può certo avere favorito alcuni settori nel breve periodo, a danno dei diritti dei lavoratori e spesso con gravi situazioni di sfruttamento degli immigrati (vedi quel che avvianein agricoltura, edilizia e nei servizi alla persona). Ma nel medio lungo periodo questa scelta non poteva non mostrare la corda: non basta infatti comprimere i salari per essere competitivi, e la scelta di non innovare, alla lunga, si rivela una strada senza uscita. C’è sempre, infatti, chi è in grado di competere su questo piano meglio delle aziende italiane (Asia docet).

Oggi ci troviamo in una situazione decisamente anticiclica: non c’è lavoro per le nuove generazioni di italiani, ma non ci sono prospettive neanche per gli immigrati: molti di loro se ne vanno assieme a molti nostri giovani; moltissimi stranieri non arrivano più in Italia perché scelgono qualche altro Paese europeo. Ed anche quelli che sbarcano dalle coste africane, non è affatto detto che intendano restare in Italia, che spesso è considerata solo un paese di passaggio. Questo, ben lungi dall’essere un sollievo per un mercato del lavoro asfittico, è un segnale del cattivo stato di salute della nostra economia.

Quali siano le risposte da dare, io credo che dovranno essere risposte globali e dovranno riguardare il nostro modo di concepire il lavoro, le dinamiche nella nostra società, la valorizzazione delle diversità in chiave di crescita economica.

Non c’è, a mio avviso, una risposta da dare ai problemi degli immigrati ed una a quella degli italiani (magari in competizione tra loro): c’è invece la necessità di ripensare al lavoro, alla sua natura ed alla sua funzione anche sociale, ripensare ai modelli di governance della nostra immigrazione e della nostra economia.

Una delle risposte che  Pierre Carniti dà in questo suo interessante libro è quella di distribuire il lavoro tra chi oggi ce l’ha e chi non ce l’ha, riducendo l’orario.

E’ una sua vecchia proposta, assolutamente apprezzabile. Non so però se sia da sola sufficiente a rispondere ai problemi del lavoro di oggi.

Se non troviamo il modo di produrre più lavoro, se non ne miglioriamo la natura, se non riscriviamo i valori anche etici del lavoro e non troviamo il modo di rilanciare lo sviluppo complessivo della nostra società, rischiamo di non andare molto lontano.

Questo vuol dire mettere mano ai nostri più gravi difetti e manchevolezze, avendo il coraggio dell’autocritica e accettando l’idea di dover in qualche modo cambiare.

 

Giuseppe Casucci

 

 

 

 

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