I problemi del lavoro nel mondo che cambia

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Il mondo del lavoro è attraversato oggi in modo evidente da un’infinità di problemi e non può che essere così perché il lavoro è “incastrato” nella economia e nella società e quindi partecipa delle loro trasformazioni e vicissitudini.

Proprio per questo i problemi attuali non sono né congiunturali né di razionalizzazione, in quanto attengono piuttosto ai cambiamenti epocali in corso, dove fra l’altro il lavoro costituisce spesso l’oggetto su cui scaricare le contraddizioni.

Per entrare nel merito ritengo che si possano riunire le molteplici questioni attorno a tre nodi fondamentali che sono i seguenti:

  1. Il lavoro manca, ce n’è poco, non ce n’è per tutti.
  2. Il lavoro è sempre meno importante nella vita come fattore di identità e di espressione personale.
  3. Con la caduta delle ideologie, il movimento del lavoro ha perso un orizzonte di valori e una visione della società che erano strettamente uniti fra loro.

 

1)  Il primo problema, tanto per l’Italia quanto per l’Occidente, è che il lavoro diminuisce, manca.

E’ così anche per l’emisfero Sud, ma ci sono più abituati; ora però la popolazione è in continua crescita e la situazione si aggrava.

Quando parlo del lavoro, intendo il lavoro buono, il lavoro standard (idealmente quello indeterminato a tempo pieno); è diminuito per via delle tecnologie, delle delocalizzazioni mondiali, della terziarizzazione, dello sviluppo del lavoro immateriale. In compenso si diffondono lavori precari, a termine, part-time, interinali, a basso costo, in nero, occasionali, lavoretti; riempiono la mancanza di lavoro, sono come dei succedanei sempre più discrezionali.

Uno sguardo mondiale è molto utile per capire come stanno le cose; e a riguardo si possono richiamare almeno due questioni principali.

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel mondo i lavoratori informali rappresentano il 60% del totale, contro il 40% dei formali. Se poi, come ricorda la rete delle riviste dei gesuiti “The future of the world”, si tiene conto anche del lavoro di sussistenza, queste cifre si riducono della metà perché il 50% di tutti i lavori è costituito dall’attività di pura sussistenza. Dunque la gente nel mondo vive anche senza il lavoro standard, e forse la diffusione del fenomeno del precariato potrebbe segnalare un processo incipiente che porterà alla trasformazione del lavoro anche da noi.

Occorre poi tener presente un secondo dato strutturale. Partecipando tempo fa a un seminario, ho avuto occasione di ascoltare l’ amministratore delegato di una filiale italiana di una multinazionale americana che stava realizzando il trasferimento di una fabbrica di 150 dipendenti dall’Italia al Vietnam: qui da noi il costo del lavoro annuo per lavoratore era di 37.500 euro, in Vietnam era di 1.200 euro. In questa differenza abissale, che consente alle multinazionali di pagare i prodotti in maniera irrisoria e di rivenderli nei paesi sviluppati con ampi margini, sta una buona parte dei nostri problemi.

Queste considerazioni ci portano a due conclusioni.

La prima ci induce ad adottare una visione diversa del lavoro, rispetto a quella che abbiamo sempre avuto, esclusivamente riferita al lavoro salariato; ci sono tante altre forme di lavoro nel mondo e occorre prenderne atto, perché nella società futura che si prospetta esisterà un misto di lavori diversi, per i quali dobbiamo attrezzarci.

In secondo luogo, l’Occidente vive in una buona misura sul lavoro poco pagato del Sud del mondo, che consente a noi dei consumi più che dignitosi, di cui altrimenti non potremmo godere. Così è assolutamente necessario far crescere i salari del Sud anche se questo avrà una ripercussione sul rialzo dei prezzi dei beni di consumo. Entrambi i processi potranno portare ad una attenuazione delle attuali differenze, il che significa per noi essere disposti a qualche sacrificio e forse, domani, ad una vita più modesta.

Siamo all’interno di processi più grandi di noi e tutto fa pensare che non sarà possibile tornare al pieno impiego del lavoro salariato di un tempo, ma che piuttosto si andrà verso una pluralità di lavori e di soluzioni differenziate.

 

2) Un secondo nodo è costituito dalla perdita d’importanza del lavoro come espressione di identità e di realizzazione personale. Si lavora perché si deve guadagnare, ma la ricerca della soddisfazione personale è ricercata altrove, al di fuori del lavoro. Ma il lavoro costituiva una condizione comune e quindi un legame che univa; le attività extralavorative sono invece scelte individuali che non possiedono questo carattere unitivo.

Il lavoro poi comportava una motivazione forte di stima di sé, di espressione delle proprie capacità, di contributo che si dava alla convivenza sociale; tutto questo è largamente assente nelle scelte individuali. Si determina uno scompenso notevole: un lavoro che occupa tanta parte del tempo quotidiano, ma con sempre minor senso; parallelamente un’attività di ricerca di soddisfazione individuale esterna altrettanto incerta socialmente.

Il lavoro deve avere senso. Per  questo fine innanzitutto deve essere dignitoso; questa è la battaglia fondamentale portata avanti dall’ Organizzazione Internazionale del Lavoro con la proposta del “decent work” e quella successiva dei “core labour standards” (condizioni minime di un lavoro civile e umano).

Questo è anche il senso del discorso, da noi e in Occidente, della partecipazione. La partecipazione del lavoratore nell’impresa non è un optional, non è un sovrappiù: è il senso del lavoro stesso, è il lavoro come deve essere: un lavoro dove il lavoratore possa esprimersi, dire la sua, manifestare le sue potenzialità personali.

Qui il discorso potrebbe e dovrebbe ampliarsi: continua a sussistere un’idea e un diritto dell’impresa che è quello di 100 anni fa. E’ ora di affermare con forza che l’azienda non è del padrone, è tanto dell’imprenditore che dei lavoratori: è un fatto collettivo, è un’associazione. Il capitalista mette i capitali, i lavoratori il loro lavoro e poi si decide insieme come gestire nell’interesse comune. Alla fine dell’anno, pagati gli interessi al capitale e i salari ai lavoratori (managers compresi) quello che avanza di chi è? Io penso di tutti, non solo del padrone, perché è il risultato di un’opera collettiva. Questo, del resto, mi sembra il significato attuale della dottrina sociale sulla partecipazione agli utili, che non può ridursi a qualche elargizione simbolica di azioni, ma deve riconoscere l’interesse e il diritto a poter condividere finalità e funzionamento dell’impresa. Forse sono andato un po’ lontano, ma è la strada su cui dobbiamo muoverci.

Ridare senso al lavoro, e non ridurlo a un puro scopo economico, è fattore essenziale per riequilibrare la vita e il lavoro; è importante la vita fuori dal lavoro, ma è importante anche il lavoro: dall’equilibrio delle due si può pensare a una vita umana migliore.

E la valorizzazione del lavoro è poi importante anche per le organizzazioni dei lavoratori; se il lavoro non conta, come può contare l’associazionismo sindacale dei lavoratori? Questa è poi una base importante per il rilancio di un movimento del lavoro nel nuovo quadro mondiale.

 

3) Infine una terza problematica impegnativa che riguarda il mondo del lavoro è la caduta delle ideologie che ne avevano determinato e sostenuto lo sviluppo per oltre 150 anni. Come è noto queste ideologie erano sostanzialmente due: la comunista e la socialdemocratica.

La prima è praticamente scomparsa col crollo dell’Unione Sovietica, ma già prima aveva perso il proprio ruolo “propulsivo” essendosi trasformata da una grande speranza di una nuova società per i lavoratori e per i popoli in un regime dittatoriale.

La seconda, in modi e per motivi diversi, è pure entrata in una crisi profonda. La socialdemocrazia, particolarmente in questo secondo dopoguerra, ha espresso una scelta esplicita a favore del capitalismo, a condizione che allo sviluppo economico fosse strettamente connesso lo sviluppo sociale.

Per diversi decenni questo legame tra sviluppo economico e  sviluppo sociale ha funzionato molto bene (sono stati i cosiddetti trenta “anni gloriosi”), sia perché erano anni di grande sviluppo, sia perché capitalismo ed Occidente erano uniti per contrastare il pericolo comunista.  Esisteva dunque un interesse comune a questa crescita condivisa. Poi lo sviluppo ha rallentato, il nemico comunista è scomparso, il capitalismo ha potuto espandersi liberamente nel mondo intero senza più il peso della responsabilità del sociale. Il neoliberalismo ha compreso che a livello internazionale l’economia poteva “slegarsi” dal sociale e così il modello socialdemocratico ha esaurito il suo ruolo, non serviva più, è stato accantonato. L’ area “sociale (il sindacato, i partiti di sinistra, i movimenti) si sono trovati nel contempo privi dei grandi orizzonti ideali e ancor più di una visione positiva della società, come era stata quella socialdemocratica.

Ricostruire qualcosa che sia anche lontanamente paragonabile a questo non è impresa facile. Così, è da 40 anni che alla posizione dominante della politica liberista non si è stati in grado di proporre una valida alternativa. E, come appare da quanto abbiamo detto, non si tratta di un po’ di keynesismo e di welfare, ma di una prospettiva che sappia tenere insieme tante cose: l’economia col sociale, la visione di una società più giusta, il riconoscimento della funzione tanto dei lavoratori quanto dei popoli.

In questa situazione ciò che avviene oggi sono tante battaglie specifiche, tutte giuste, ma che  faticano a trovare un senso generale, un denominatore comune. Non si può certo pensare di unificare facilmente lotte del Sud e del Nord, dei lavoratori e delle donne, lotte ambientali e lotte democratiche; ma uno sforzo perché tutti cerchino anche questo senso comune si presenta essenziale per dare forza queste stesse battaglie e per poter contare di più a livello globale.

Così, portando avanti le battaglie del lavoro, sociali e politiche a livello locale e nazionale, dobbiamo avere la coscienza che esse sono inserite in un contesto mondiale da cui non possono prescindere, e dobbiamo anche sostenerle in modo da affermare con evidenza questa più ampia dimensione.

 

Sandro Antoniazzi

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  1. Una gran sintesi su una tematica difficile da decifrare che consente di dare respiro e forza al dibattito per proporre inziative e un risveglio culturale nel sindacato. Grazie Sandro per questo tuo lavoro. Adriano Serafino

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