I migranti, il Grande Inquisitore e noi

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Questa mattina, appena salito sul taxi, il conducente smaschera la mia provenienza. Sarà stato l’orario di atterraggio o il mio accento, il taxista mi chiede immediatamente: “Ma ce l’avete voi i profughi a Genova?”. Io rispondo che sì, in tutta la Liguria ce ne saranno circa 200. E lui pronto ribatte: “Mbè, nemmeno tanti. Ma voi siete già stati invasi da quella gentaglia di marocchini”. Faccio cadere il discorso, credendo che le nostre posizioni siano talmente distanti da rendere inutile qualunque contraddittorio. E così gli chiedo se hanno bloccato quei furbetti di Uber, un po’ per creare empatia, un po’ per cambiare argomento.

Sceso dal taxi quelle prime battute mi continuano a balenare per la mente e mi pento di non avere svelato la mia posizione sulle migrazioni e di non averla difesa. Perché su questo tema ho una posizione chiara e ponderata: credo razionalmente che l’unico approccio moderato, realistico e razionale alle migrazioni globali sia quello di accogliere tutti e di consentire a chiunque la libera circolazione. Senza distinzione tra migranti con diritto d’asilo e migranti economici – distinzione utilizzata disinvoltamente dai nostri politici, come se i secondi fossero degli impostori e non donne e uomini che per prendere una carretta del mare hanno rischiato la vita marciando a tappe forzate fra i cadaveri di chi non ce l’ha fatta, che giacciono lì a migliaia nel deserto a seccare al sole.

Posizione di buon senso – accogliere tutti – che appare oggi come una deriva estremistica, roba da anime belle, tacciata di buonismo non soltanto dalle destre xenofobe, ma anche nel campo democratico. Viviamo un tempo nel quale tutto è capovolto, dove il buon senso e la moderazione non trovano cittadinanza nella sfera pubblica. Viviamo un tempo nel quale il Grande Inquisitore ha temporaneamente vinto su Cristo. Egli plasma a sua immagine e somiglianza il pensiero dominante, stabilisce coordinate e perimetro del discorso pubblico sull’immigrazione, mentre Cristo si è rifugiato in un aristocratismo etico, incapace di allargare lo spazio all’interno del quale le posizione moderate dovrebbero trovare almeno uno spazio di contesa. E così al “fuori tutti” di Salvini, si risponde con un “dentro soltanto qualcuno”, ipotizzando guerre navali, respingimenti e impraticabili rimpatri per i più.

Quando parlo della vittoria del Grande Inquisitore su Cristo faccio esplicitamente riferimento alla rivisitazione operata da Franco Cassano del racconto che Ivan fa a suo fratello Alioscia nel quinto libro dei Fratelli Karamazov. Cassano spiega in modo efficace come nella partita tra il male e il bene, tra il Grande Inquisitore e Cristo, il male parte sempre in vantaggio grazie alla sua antica confidenza con la fragilità dell’uomo, con le sue debolezze, nevrosi, paure. Il Grande Inquisitore è molto abile a muoversi in quella zona grigia tra bene e male, dove i ruoli si confondono, le morali si annacquano e il discorso pubblico si capovolge. Operando in questa zona grigia, interpretandone le retoriche ed entrando in piena empatia con le sofferenze contingenti degli uomini e stimolando gli interessi individuali, il male riesce a isolare il bene in una bolla che Cassano chiama “aristocratismo etico”, a ridicolizzare l’esempio di Cristo – buonismo, cattocomunismo, anime belle – e a renderlo innocuo. È quello che accade nel discorso pubblico sulle migrazioni.  Argomenti palesemente falsi si insinuano nelle contraddizioni sociali alimentando il conflitto tra i poveri: la competizione tra immigrati e italiani sull’alloggio popolare, nella ricerca di un lavoro, la propensione degli immigrati a delinquere, i contributi economici ai profughi in barba agli esodati, e così via. Sono gli argomenti falsi attraverso i quali il Grande Inquisitore fa intravedere delle spiegazioni ad un disagio sociale crescente, disinnescando il conflitto verticale (la crisi pagata troppo dai poveri e troppo poco dai ricchi) e alimentando un discorso politico antievangelico. Proprio in questi giorni ci ha profeticamente lasciati fratel Arturo Paolo, che bene ha sintetizzato questo discorso così: “vorrei dire a tutti coloro che mi ricordano, che non dimentichino mai che il nostro luogo di nascita si professa cristiano-cattolico ma presentemente noi facciamo parte di un sistema politico il più antievangelico immaginabile”.

Ma come ha fatto, nella nostra sfera pubblica, a prevaricare il discorso del Grande Inquisitore su quello di Cristo?

Abbagliati dalla retorica mistificatoria della postmodernità liquida, la classe politica del nostro paese – che negli ultimi decenni ha concepito erroneamente il pensiero politico in modo performativo sulla realtà sociale – ha pensato non solo di non dare più rappresentanza al conflitto sociale, ma addirittura di negarne l’esistenza per costruire una politica orientata all’interesse nazionale. Facendo questo ha però dimenticato che il conflitto sociale è una dimensione immanente della società, che non si può eliminare, ma soltanto mediare. Una politica fattivamente orientata al bene comune dovrebbe invece riconoscere il conflitto, orientarlo e governarlo. Se il conflitto verticale – quello tra strati sociali diversi per composizione degli interessi materiali – non viene rappresentato, necessariamente prende strade nuove. Il conflitto, cioè, prende altre vie di fuga manifestandosi in modo orizzontale, ovvero tra gli strati poveri della società che iniziano a distinguersi tra di loro per etnia e cittadinanza, nella convinzione che la responsabilità del proprio disagio sia un altro disagiato arrivato da lontano. È la storia politica del nostro paese degli ultimi 25 anni, venute meno quelle due tradizioni politiche che sapevano riconoscere il conflitto verticale e darne rappresentanza. Esse lo mediavano in modi differenti: le forze cristiane verso il bene comune, individuando le strade per ricomporre gli interessi in una dimensione nazionale, e quelle social-comuniste verso la prevaricazione di alcuni interessi su altri. Sta qui – nella negazione del conflitto come elemento immanente nella società – il peccato originale della classe dirigente del nostro paese, che ha aperto praterie politiche a chi utilizza il conflitto orizzontale come leva per conquistare il potere. In questo modo il discorso di Salvini (il Grande Inquisitore) è diventato egemone nella società, tanto da fare pensare ai più che Salvini sia un po’ esuberante ma in fondo dica cose di buon senso.

Se le cose stanno così, Cristo (noi) deve uscire in fretta dal proprio aristocratismo etico e buttarsi senza timore nella mischia di quella complicata zona grigia della quale il Grande Inquisitore interpreta tutte le debolezze e frustrazioni. Ciò significa che questa mattina al taxista avrei dovuto rispondere con argomenti che non richiamano degli alti principi etici e morali, ma che interrogano direttamente gli interessi di chi è convinto di subire sulla propria pelle il fenomeno migratorio. Alcuni punti, che dovrebbero diventare patrimonio comune del campo democratico per contrastare l’egemonia di Salvini, credo siano questi:

– tra gli elementi costitutivi della nostra crisi economica nazionale c’è anche la questione demografica. Nella finanziarizzazione dell’economia gli elementi strutturali sono stati messi in secondo piano, anche dagli studiosi, ma è evidente che nel nostro paese questo fattore abbia un peso non secondario. Un paese che vede la propria popolazione calare e invecchiare è un paese nel quale l’economia si comprime – e questo vale per tutto il continente europeo. In questo contesto, nuove persone giovani che vengono da fuori sono come capitali finanziari che piovono nel nostro paese, non sottraggono lavoro ma lo creano, generano economie, stimolano i consumi, portano competenze e legami transnazionali, portano ossigeno nelle casse pubbliche;

– gli immigrati non entrano in competizione con gli italiani nella fruizione dei servizi (casa, sanità, scuole materne e nidi), ma spesso la loro presenza ne garantisce la persistenza. In alcuni contesti territoriali, la presenza di immigrati consente di mantenere le soglie minime per garantire servizi altrimenti diventati insostenibili; in altre situazioni sono proprio loro ad offrire servizi, per esempio facendo sì che i nostri anziani non vivano in solitudine e siano accuditi con dignità;

– la mia Liguria è una terra malata, dove la popolazione anziana ha una incidenza altissima sulla popolazione e anche per questo è in depressione economica. Non a caso la Liguria è la peggiore regione del Nord Italia in termini di performance economiche e allo stesso tempo demografiche. A Genova nascono così pochi bambini che nelle scuole materne esistono le pluriclassi perché non si riescono più a formare classi di bambini della stessa età. Se non ci fossero i figli degli immigrati, alcune classi sarebbero chiuse: ciò significherebbe meno servizi anche per gli italiani e meno lavoro all’interno di tutto il sistema scolastico.

– L’entroterra ligure – come buona parte dell’Italia interna – è fatto da tanti piccoli comuni in via di estinzione, dove il numero di persone sopra i 65 anni arriva anche al 50-60%. In Italia i comuni polvere sono 800, e presidiano il 20% del territorio nazionale. Comuni clinicamente morti, se non ci fossero gli immigrati che in alcuni casi – ancora troppo pochi – mantengono viva la dinamica demografica e dove spesso i figli delle badanti permettono di tenere qualche scuola aperta, innescando una rinascita del contesto socio-economico locale; questi comuni avrebbero bisogno urgente di una iniezione di popolazione esterna, che potrebbe valorizzare economicamente le risorse territoriali, consentire ricambio generazionale nelle aziende agricole altrimenti in estinzione, creare ricchezza e occupazione attraverso attività ad alta intensità di lavoro, come tutta la filiera della difesa attiva del territorio dal dissesto idrogeologico;

– è necessario estendere la cittadinanza italiana e il diritto di voto a tutti gli immigrati, senza che debbano dimostrare nulla e giurare su nulla. Ma perché, qualche italiano ha giurato sulla Costituzione? Immigrati cittadini che votano vuole dire persone che si sentono parte di una comunità e ne condividono norme e valori più facilmente. Non è fondamentale per un paese che vuole uscire dalla crisi aprire spazi di partecipazione politica, tenuto conto che veniamo da anni di disaffezione e di governi che – se votati – vengono eletti da maggioranze di minoranze? Qualche politologo ha mai pensato che nei dati sulla non partecipazione al voto non vengono mai inclusi i circa 3,5 milioni di immigrati sopra i 18 anni che non ne hanno diritto? E che perciò la legittimazione democratica dei nostri governi è nella realtà ancora più misera, essendo escluse dal voto milioni di persone che lavorano e pagano le tasse nel nostro paese?

Questi pochi punti – e altri ancora – possono rappresentare l’ossatura di un controdiscorso sull’immigrazione, del quale il campo democratico ha disperatamente bisogno se vuole produrre un discorso differente e non dipendente da quello delle destre xenofobe. Il campo democratico deve avere più coraggio, deve sfidare il Grande Inquisitore nella zona grigia, dimostrando l’utilità dell’accoglienza e dell’integrazione. Deve uscire dalla retorica dell’emergenza e prendersi la responsabilità di governare attivamente il fenomeno migratorio, senza illudersi inutilmente di poterlo arrestare. Il campo democratico deve ricominciare a leggere la società e a costruire una rappresentanza politica degli interessi che in essa si scontrano, smettendola di illudersi che sia la politica a fare la società. Il campo democratico deve sapere aprire le braccia e fare cadere i muri materiali e ideali che da troppe parti si stanno alzando, promuovendo una politica dell’accoglienza in Italia e nella sempre più incerta Europa.

Giovanni Carrosio

sociologo, Università di Trieste

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