Giuseppe Dossetti e Divo Barsotti. Un rapporto durato quarant’anni

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Nel corso di una settimana di esercizi spirituali, il 24 ottobre del 1952, quando ha già lasciato il suo impegno politico e ha rimesso il suo mandato parlamentare, Giuseppe Dossetti annota: “Proposito fondamentale: fare di tutto per accelerare da Dio la grazia di un direttore spirituale saggio e santo, adeguato ai bisogni dell’anima mia. (…) Gli parlerò delle mie ansietà ricorrenti e mi assoggetterò alle sue decisioni in spirito di mortificazione del mio orgoglio”. Perché è questo per Dossetti “il punto nodale” da affrontare: la lotta al suo orgoglio. “Cercare le umiliazioni – scrive – per conquistare pian piano l’umiltà e attraverso essa avere ogni altra grazia: la povertà, l’ubbidienza, la castità, l’unione intima con l’Istituto, con tutti i fratelli entro e fuori il Corpo visibile della Chiesa, l’amore vero verso tutti, la carità e l’abbandono totale a Dio”.

Un direttore spirituale, Dossetti, lo ha cercato da molti anni, fin da quando ha sentito nascere dentro di sé una forte vocazione religiosa. Aveva vent’anni e, a Reggio Emilia, frequentava don Dino Torreggiani, il prete degli zingari. Erano i primi anni Trenta. Poi lo studio, l’Università cattolica, l’ingresso nell’Istituto della Regalità di padre Gemelli (da cui però esce pochi anni dopo insieme a Lazzati), la cattedra universitaria, la guerra, l’ingresso in politica, proseguito fino al 1951, e infine l’adesione all’Istituto Milites Christi Regis, creato da Lazzati stesso. Ed è questo “l’Istituto” di cui scrive nell’ottobre ’52 desiderando di appartenervi sempre più profondamente. Dossetti avverte il bisogno di sottoporre la sua ricerca spirituale, il cammino della sua consacrazione, al “controllo” di qualcuno in cui riporre totale fiducia. L’Istituto, ma meglio ancora un direttore spirituale. Direttore che non ha mai avuto, da vent’anni, dopo don Torreggiani a Reggio. Vuole espiare i peccati dei 40 anni passati, scrive, e, per riuscire a farlo, sente il bisogno di un “sollecito, completo e sincero assoggettamento a un direttore spirituale, ormai come mezzo dei mezzi, condizione prima, inderogabile e indifferibile, al punto attuale (dopo oltre venti anni), per qualunque progresso spirituale: il vero controllo dei miei atti e dei miei abiti e dei miei stati”.

Lo troverà, Dossetti, il suo direttore spirituale. Sarà don Divo Barsotti, di un anno più giovane di lui, amico di La Pira e di Giampaolo Meucci, assistente dei Laureati cattolici di Firenze, prete fuori dagli schemi, studioso dei Padri e del cattolicesimo ortodosso, biblista, autore nel 1951 di un libro che influenzò molto Dossetti e, con lui, la Piccola Famiglia dell’Annunziata cui Dossetti diede vita a Bologna a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Otterrà il consenso di don Barsotti a fargli da direttore spirituale nel corso del 1953. La loro amicizia durò quaranta anni. Barsotti fu percepito da Dossetti, come quest’ultimo dirà nel 1996, poco prima di morire, come “padre della mia anima”.

Sul rapporto tra questi due testimoni del cattolicesimo del Novecento è uscito ora un bel libro curato da Fabrizio Mandreoli, giovane docente di storia del pensiero teologico nella Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, e da Elisa Dondi: Giuseppe Dossetti e Divo Barsotti, “La necessità urgente di parlare. Carteggio 1953-1995”. Il libro, edito da il Mulino (pp. 225, euro 20,00), contiene 43 lettere di Barsotti e 66 di Dossetti. E’ preceduto da una introduzione di una novantina di pagine, scritta da Mandreoli, che è di grande interesse, e ha in appendice un documento abbastanza straordinario: la lettera che Giuseppe Dossetti, nel gennaio del 1966, scrisse al cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna e suo altro padre spirituale per tutto il periodo che va dal 1953, quando Dossetti avviò a Bologna il Centro di Documentazione, fino al 1968, quando il cardinal Lercaro, nel clima caldo del primo post-concilio, fu costretto alle dimissioni per ragioni mai del tutto chiarite. Una lettera in cui Dossetti con cristallina sincerità illustrò al suo vescovo le ragioni per cui riteneva sbagliata, anzi dannosa, la scelta, che egli si stava orientando a fare, di conferirgli un incarico di rilievo nella diocesi.

Le lettere ora pubblicate in questo libro sono solo una parte di quelle che i due ebbero a scriversi lungo quattro decenni. Molte sono senza data e di non facile collocazione nel tempo. La maggioranza di esse riguardano strettamente la ricerca spirituale di Dossetti, e in parte anche dello stesso Barsotti, e non toccano in modo diretto i tanti avvenimenti di rilievo che costellarono quegli anni: del Concilio, ad esempio, in queste lettere, Dossetti non dice pressoché nulla; come pure nulla è detto di quei due cruciali anni del post-concilio bolognese, in cui il card. Lercaro, alla fine, si decise a nominare Dossetti pro-vicario della diocesi (nonostante le argomentazioni contrarie contenute nella lettera sopra citata) e, insieme a lui, cercò di impostare un nuovo corso nel cammino della Chiesa di Bologna.

Ma, nonostante questo, l’epistolario è di grande interesse. Consente di cogliere gli aspetti più profondi dell’itinerario di Dossetti, la sua persistente, inflessibile, autocritica (in questo senso, il libro andrebbe letto, almeno per gli anni più remoti, insieme a un altro volume, pubblicato dalle Paoline nel 2010 e curato dalla Piccola Famiglia dell’Annunziata, che contiene i suoi “appunti spirituali” degli anni dal 1939 al 1955, “La coscienza del fine”). E getta luce anche su alcuni nodi affrontati da Dossetti nel corso della sua vita, che non solo hanno una rilevanza per la storia del cattolicesimo italiano ma costituiscono tutt’oggi temi di riflessione, interrogativi brucianti. Un solo esempio: la lettera scritta nel febbraio del 1970 a don Barsotti che gli aveva fatto sapere di non voler più essere la sua guida spirituale dopo le critiche rivolte a Paolo VI da Giuseppe Alberigo e Raniero La Valle, amici e collaboratori di don Giuseppe, l’uno al centro di Documentazione, l’altro, più indirettamente, sulle colonne dell’Avvenire d’Italia, che allora si stampava a Bologna; è una lettera che spiega il differenziarsi della posizione di Dossetti sul nodo delicato della contestazione ecclesiale di quegli anni.

Quanto alle lettere di don Divo Barsotti, esse colpiscono in particolare per la loro sincerità, per come questo prete, che è padre spirituale non solo di Dossetti ma di molte altre persone e comunità religiose, rivela al suo figlio spirituale le fragilità del suo cuore, i suoi momenti di scoraggiamento, le sue sconfitte.

Il fascino e l’interesse del libro è il risultato, anche, della densa introduzione come pure delle molte note e dei molti riferimenti ad altre fonti (ad esempio i diari di don Barsotti e altri testi rari o inediti di Dossetti), che consentono al lettore di ricostruire il travagliato percorso sia pubblico che privato di Dossetti, dall’inizio degli anni ’50 alla morte nel 1996 (compresi i ritorni sulla scena politica negli ultimi anni), e di collocare dentro questo percorso la sua ricerca di una sempre più assoluta purificazione, una – come talvolta egli la chiama – “immolazione” a Dio.

Annota don Divo nei suoi diari nel 1972: “E’ venuto Dossetti. Forse è l’ultima volta. Partirà per Israele e si seppellirà nel silenzio (…). La preghiera, la penitenza hanno scavato il suo viso, hanno come disseccato le sue carni, hanno consumato in lui tutto quello che vi era di umano. E’ divenuto semplice e povero. La sua vita è solo la presenza di Dio”. E aggiunge: “Mi è sembrato che Dio lo avesse preparato e ora lo scagliasse lontano soltanto perché domani, quando questa nostra cristianità sembrerà sfasciarsi, di lontano potesse ritornare, dal paese stesso di Gesù, come suo dono, come speranza e segno di una sua presenza ancora efficace”. Venti anni dopo, nel 1993, dopo un altro incontro con lui, scrive: “Don Giuseppe ora è un’anima umile, semplice, pura. Tutto in lui respira semplicità e pace. Tutto in lui si è sciolto, tutto si è liberato. La grazia ha reso liquido il suo cuore”. E ancora, il giorno della morte di don Giuseppe, nel 1996, sempre sul suo diario, scrive: “Mai egli ha rifiutato di sentirsi mio figlio, anche se a volte sembrava nascondere i suoi interventi che lo sottraessero al silenzio, all’umiltà, a una vita contemplativa”. “Sì – aggiunge -, avrebbe potuto governare lo Stato o addirittura la Chiesa, Dio invece ha voluto che vivesse la sua vocazione nella rinuncia alla politica attiva, a ogni missione gerarchica per vivere la sua vocazione nella preghiera, l’atto, l’unico atto, cui Dio ha promesso efficacia”.

Divo Barsotti e Giuseppe Dossetti avevano molto in comune nel pensare e nel vivere la vita cristiana: nel mettere in evidenza il senso del mistero, nel sentire centrali l’eucaristia e la Parola, nella radicalità stessa della loro fede. Ma tra loro vi erano anche delle differenze. Ciò che, talvolta, don Divo ha considerato come la mancanza di unità nella vita interiore in Dossetti, e che Dossetti stesso non faticava affatto a giudicare come tale, era però anche una diversa visione che Dossetti aveva del rapporto tra la vita del cristiano e la storia (visione che condivideva con La Pira). Su questo punto le pagine di Fabrizio Mandreoli sono molto intense e pertinenti. Per Barsotti, annota Mandreoli, “il cristianesimo ha essenzialmente un tratto di ‘inutilità’ storica che è indice della sua verità e provenienza da Dio”. Mentre per Dossetti “l’efficacia storica non è la prima cosa cercata. Tuttavia, se il cristiano segue con tutte le proprie forze il Vangelo, tale sequela ha un’influenza ed efficacia storica, tanto più vera, incisiva e necessaria, quanto più non cercata come primo e assoluto risultato. E tale azione, a debite e attentamente verificate condizioni, è importante perché è il modo con cui rispondere alle responsabilità che il cristiano è chiamato a discernere e ad assumere. In tale quadro la stessa comunità dei credenti ha dei compiti storici di vigilanza e di profezia, che quando non sono adempiuti adeguatamente o del tutto omessi sono il segno eloquente di una qualche debolezza nella sequela evangelica”.

 

Giampiero Forcesi

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