Fondamenti etici e antropologici per il rinnovamento della politica

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Pubblichiamo i testi (frutto di sommaria sbobinatura e non rivisti dagli autori) delle due realzioni tenute nel corso dell’incontro dei “cattolici democratici lombardi” lo scorso 9 aprile a Milano, e dell’intervento conclusivo di Franco Monaco

 MAURO MAGATTI

La crisi che stiamo vivendo chiude venti anni – dall’89 al 2009 – che ci hanno fatto passare dal ventesimo al ventunesimo secolo. Il tema, però, non è il ventesimo secolo.  La domanda è sul nuovo, che si dimentica ciò che è avvenuto prima. Siamo in un Paese che ha accumulato un certo ritardo nell’essere attivi dentro la modernizzazione, dentro i processi nuovi in cui siamo. Per vent’anni abbiamo avuto un motore che si tirava dietro tutto: la finanza  Nel momento in cui scoppia la crisi e la macchina finanziaria si inceppa, e non potrà più funzionare come ha funzionato prima, la politica è rientrata chiaramente in campo (gli Usa per risolvere il default 2008 hanno stampato 800 miliardi di dollari). L’azione politica consiste nel chiedersi: chi paga tutti questi debiti? La risposta: la politica, il cittadino, la società americani. Ciò che non succede in Europa. Il problema allora non è prettamente economico, ma chiaramente politico nel senso di chi paga in ultima istanza, di chi sostiene il problema che si è creato: una massa di debiti. La politica è rientrata in campo. Ci sono la Cina, il  Brasile, la Russia, situazioni che vent’anni fa non esistevano. In questa nuova fase, in cui non c’è più quel vento finanziario, sopravviveranno quelle comunità che sapranno rimettere in campo un discorso politico in rapporto ad un mondo di tipo planetario perché in questo periodo di vent’anni il mondo si è infrastrutturato per cui è inimmaginabile vivere a prescindere da tutti gli altri. Rifare un discorso politico nel senso pieno del riscrivere cioè le condizioni dello stare insieme. Noi dobbiamo parlare di una politica nascente a partire dagli esiti degli ultimi venti anni che abbiamo alle spalle. Le conseguenze culturali, antropologiche che quei vent’anni hanno lasciato sul campo. La vicenda del sud Europa che si iscrive in una crisi internazionale è emblematica: se non c’è una politica in questo momento sei destinato a diventare un deserto. Ci sono ragioni chiarissime per cui se non viene fuori una politica che riguarda il sud Europa rispetto all’Europa, il sud Europa è destinato a diventare un deserto. Noi abbiamo avuto la vicenda unica in occidente, archetipica se si vuole (altrove dove le istituzioni sono più forti è stata contenuta), costituita dalla trasformazione del mezzo televisivo che parte dagli anni ’70 ed è uno degli elementi che ha reso possibile quei vent’anni.

 

La rete

Noi  siamo ora entrati nella nuova vicenda che è la Rete. Da questo punto di vista l’Italia è sempre un fantastico laboratorio. Nella storia di Grillo c’è un pensiero che possiamo anche definire delirante, ma è un modo di immaginare la democrazia del 21° secolo. Se non l’avete visto andate su Google e digitate “gaia, casaleggio”  e guardatevi questo video di 8 minuti in cui Casaleggio ed altri hanno immaginato come sarà il mondo nel 21° secolo. Questi hanno fatto le primarie on-line così come pensano di realizzare leggi in rete, referendum. La rete fino a qualche anno fa non esisteva, ma c’è qualcuno che si immagina che questo sarà il nostro futuro: singoli individui tenuti insieme da un sistema tecnico. La possibilità di combinare la volontà di milioni di persone attraverso un sistema di comunicazione. Non è semplicemente una cosa da prendere sotto gamba ma, come Berlusconi,  da prendere sul serio perché è un sentiero che prende alcuni elementi della nostra contemporaneità e si immagina di renderlo come il sentiero della democrazia del 21° secolo. Dietro c’è il tema della libertà. La questione antropologica ha a che fare con la progressiva maturazione di quel percorso secolare che è l’emersione della libertà cosa che normalmente viene data per scontata, ma si deve invece  sottolineare il fatto che è solo nel secondo dopo guerra, a partire dagli anni ’60-’70, che in occidente, nelle democrazie che abbiamo chiamate avanzate, si sono raggiunte condizioni di accesso al benessere generalizzato, accesso generalizzato alla scuola e al pluralismo culturale e accesso generalizzato ai diritti di cittadinanza democratica. Queste tre condizioni per il 90% della popolazione di interi Paesi non si erano mai verificate. La stagione che abbiamo dietro le spalle ha a che fare con la prima stagione storica in cui abbiamo fatto esperienza di massa di condizioni di “libertà”. Noi non possiamo pensare né la questione della politica né tanto meno il 21° secolo se non riflettiamo su questo nodo della libertà.

 

 

La libertà dei liberi

Quella che a me piace chiamare “la libertà dei liberi”. Dove il tema non è liberarsi. Ci siamo già liberati, non ci sono più tiranni, lo dico provocatoriamente. Non c’è più nessuna Bastiglia da conquistare. Le democrazie fanno emergere questo tema della libertà di massa e si confrontano non più tanto con grumi di potere, che pure ci sono, ma non per liberarci da un potere oppressivo. Il problema è che dobbiamo fare i conti  con una potenza diffusa. Le democrazie avanzate nel 21° secolo avranno a che fare con il problema di cosa ce ne facciamo di questa emersione di libertà che chiede potenza soggettiva e domanda potenza sistemica. Io divento libero con una vita che immagino sempre crescente con possibilità di star sempre bene e quindi volontà di potenza che viene a galla cui i sistemi rispondono con la potenza. E quali sono questi sistemi? Il sistema tecnico ed economico che danno ai cittadini quella potenza che chiedono. Più opportunità di vita per tutti. Le regole più che politiche o democratiche sono regole funzionali. Questo circuito potenza e volontà di potenza ha chiaramente modificato le nostre condizioni di vita. La crisi del 2008 interrompe questo circuito che si pretendeva sempre in espansione e quindi ha slegato tutte le relazioni e persino i significati. Questa crisi così drammatica per noi è una straordinaria occasione perché quel tempo in cui questa espansione che si pensava illimitata, che potesse andare avanti all’infinito, non c’è più  e richiama il ritorno di una politica. Naturalmente di una politica che deve dire qualcosa di significativo rispetto alle condizioni nelle quali ci troviamo. Massimo Recalcati ha pubblicato questo libro “Il complesso di Telemaco” in cui ha una immagine bella di Telemaco che sta  sulla riva ad aspettare il ritorno del padre, segno di una mancanza. Noi aspettiamo avendo messo culturalmente in discussione ogni autorità, ogni paternità, ogni tradizione, come adolescenti non potevamo fare diversamente. La stagione che abbiamo alle spalle ha visto vivere la libertà incentrata sull’io. Sono io che mi libero, io che aspiro ad avere tutte queste possibilità, io che non riconosco più né maestri né tradizioni perché mi dispongo ad esplorare la vita che sarà meravigliosa. Recalcati con questa immagine di Telemaco fa emergere questo tema, che va trattato con cautela, che è quello del testimone nella misura in cui gli unici padri, gli unici maestri accettati nel 21° secolo sono quelli. La questione della libertà la possiamo capire nella misura in cui la vediamo che viene fuori come libertà  per che cosa si è disposti a  pagare. Sappiamo bene che non basta più essere padre e maestro. Cosa chiedono i nostri figli, i nostri allievi: dietro quel ruolo c’è qualcosa che ti tocca, mi parli di qualcosa che c’entra con te o mi fai discorsi campati per aria?  Questo tema è evidente ha a che fare con libertà e democrazia. In questi 30 anni ci hanno detto che c’erano possibilità per tutti. Bastava qualche responsabilità o solidarietà e andavi dietro a queste possibilità. La democrazia era questo: più possibilità per tutti. La democrazia non è questa, è un’altra cosa. E’ trovare forme di convivenza tra esseri umani che si riconoscono su certi valori.

 

 

Generare

La libertà nelle democrazie deve essere declinata con il generare perché nella stagione che abbiamo alle spalle ci è stato detto che essere liberi significava consumare. Consumare è un atto antropologico originario e noi non possiamo vivere senza consumare, perché è uno dei modi attraverso cui entriamo in rapporto con la realtà. Non è che il consumare è sbagliato;  il problema è che se diventiamo solo consumatori diventiamo obesi. Il problema non è che non dobbiamo consumare, il problema è che ci dicevano che dobbiamo diventare “solo” consumatori cioè incorporare tutto. Questo è un movimento  solo distruttivo. Il generare è antropologicamente tanto potente quanto il  consumare. Generare anche in senso simbolico: mettere al mondo,  lasciare un segno, assumere una responsabilità. E come cittadini anche sul fronte economico e della convivenza. Donne e uomini responsabili di ciò che mettono al mondo per la comunità sia un’impresa, un’associazione, un figlio, un’opera d’arte. Come donne e uomini liberi generiamo, qui entra anche l’esperienza del lavoro. Abbiamo avuto una stagione centrata sul lavoro, una stagione centrata sul consumo, io spero che si entri in una stagione in cui avremo un’economia, un sistema politico incentrati sul generare valore. Generare va alle radici della nostra umanità proprio perché va all’origine. Anche in politica. La nostra responsabilità politica sta nel generare l’elemento della socialità. I Condomini sono  l’emblema di una società devastata, ma il condominio è un luogo politico come anche il quartiere.  Il cittadino quindi genera. Il bene comune è metterci il nostro mattoncino e generare un pezzo di bene comune.

 

 

Contribuire

Parola vicina al generare è contribuire, chi genera contribuisce.  Contribuente è chi paga le tasse  rispetto allo Stato, ma deve essere riconosciuto come cittadino contributore  della democrazia. Pensiamo anche ad esempio al rapporto pervertito con le imprese. Stabiliamo una relazione con le imprese viste come contributrici a creare lavoro e  dire all’impresa :facci capire cosa fai per la comunità e noi volentieri ti sosterremo come elemento positivo della nostra vita insieme.

 

 

Alleanza

La terza parola è Alleanza Nei 20 anni trascorsi c’è stato un sistema basato sull’espansione guidata dalla finanza, dalla deregulation, sistema tecnico che è diventato planetario. Interrotto quel movimento espansivo si tratta di riscrivere alleanze. Schmitt  associava  il mare alla tecnica. Nel momento in cui Cristoforo Colombo attraversa il mare salta la politica europea. Il mare si associa alla tecnica sia perché per andare sul mare ci vuole tanta tecnica, ma poi perché la tecnica tende a scardinare  le terre politiche consolidate. Negli ultimi 20 anni è come se noi avessimo costituito un mare tecnico planetario. Il tema oggi è di riscrivere alleanza per fare emergere entro questo mare tecnico planetario terre umane. La terra emerge, emerge l’umano laddove si potranno costruire alleanze  in rapporto a questo mare.  Questo vuol dire ad esempio alleanza tra generazioni per cui la scuola non è un costo, ma un investimento. Il tema dell’alleanza fa emergere la terra e la rende umana. Allora bisogna riscrivere alleanze nuove. Il tema dell’alleanza interpella il sistema dell’Europa o noi ci diciamo perché vogliamo stare insieme o ciascuno per la sua strada. Certamente un altro termine è “sostenibilità” che non è una retorica perché in quei venti anni l’economia poteva crescere a prescindere dalla società. E l’economia aiutata dalla tecnologia poteva anche trascurare ambiente, salute, energia. Questa crisi ci dice che non c’è una crescita che prescinda da tutto. Il sistema dei subprime faceva leva su questo. Pensiero delirante perché la realtà non esisteva. Nelle nuove condizioni se non si sostiene la società dal punto di vista dell’uguaglianza, dell’integrazione sociale non c’è più nemmeno economia perché l’espansione illimitata non esiste. Nella consapevolezza che le risorse non sono più infinite, neppure quelle pubbliche.

 

 

Innovazione

Ultimo punto è innovazione. Il patrimonio di idee, democrazie che abbiamo  ricevuto dai nostri padri, occorre avere il coraggio di innovarlo anche a costo di sbagliare. Tutto ciò che le democrazie hanno costruito sarà trasferito nel 21° secolo se avremo il coraggio di innovare. L’esempio è l’Europa: dobbiamo inventarci una cosa che non è lo Stato nazionale classico, che deve mettere insieme degli Stati, li combina in una unità superiore essendo consapevoli che bisogna dare la dimensione sussidiaria locale. Inventandoci una forma istituzionale che i nostri padri non potevano neppure concepire. In un’unità superiore dobbiamo inventarci nuove forme. Per conservare bisogna innovare.

 

 

 

Franco Totaro

 

Vorrei partire dal libro di Magatti “La grande contrazione – I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto”. In questa grande contrazione sono in gioco i concetti di potenza e la volontà di potenza. Occorre mettere in evidenza che questa coppia di concetti è indispensabile per capire ciò che viene chiamato da Magatti tecno-nichilismo o capitalismo tecno-nichilistico che è animato appunto da potenza e volontà di potenza. La potenza è il lato oggettivo della relazione, è il sistema di crescita, la volontà di potenza è il lato soggettivo, il soggetto che promuove nell’espansione Una circolarità che vorrebbe essere perpetua. Questa è  la frattura con cui dobbiamo fare i conti perché queste due realtà sono alimentate da una sorta di bulimia reciproca in una complicità che sembrava destinata a protrarsi in modo illimitato, ma che è arrivata a sbocchi insostenibili e quando questa insostenibilità è diventata palese la potenza e la volontà di potenza invece di sostenersi a vicenda sono collassate una sull’altra e quindi l’alimentazione reciproca è diventata privazione e sterilità. Questo grande giocattolo ha smesso di funzionare. Ma insieme al giocattolo si è rotto anche il giocatore. Perciò oltre che di grande contrazione si può parlare anche di grande implosione dove vanno per aria stracci di tipo umano che contrassegna in tecno nichilismo e l’individuo nella sua pretesa individualistica che si realizza in pratiche di libertà autoreferenziale . Questa libertà però è una falsa libertà perché serve all’ingabbiamento nel dispositivo del tecno nichilismo, cioè si risolve in un consumo ipertrofico. Non si tratta solo di consumo di cose, ma anche di occasioni, persone e non solo sul piano economico ma anche in altre sfere, per esempio in quella del linguaggio, dei significati che sono ridotti a funzioni  e risucchiati in quel grande sottosistema che è lo spazio estetico mediatizzato, il sistema della comunicazione di massa.

 

 

La cura

Esiste una terapia a fronte di questa condizione a dir poco lacrimevole? La cura consiste nella elaborazione del limite e della misura. Occorre passare dall’espansione incontrollata al limite e alla misura. Questo però è l’antidoto a quello che Magatti chiama l’infinitazione del sistema. L’infinitazione è l’infinito che non si riconosce come tale e quindi si butta nella sua espansione senza controllo. Bisogna usare questo antidoto nei gusti, nella sensibilità ecc. Il mondo si è infranto è quindi da cambiare secondo una logica non proprio di necessità, ma certamente di urgenza. Come intendere l’opposizione del limite alla potenza, perché questo è un nodo antropologico fondamentale. Bisogna forse imboccare la strada di una antropologia non della potenza, ma della impotenza. In termini più forti bisogna demonizzare la potenza dell’umano a favore della sua impotenza. Si tratta di elaborare e proporre una nuova antropologia della potenza oppure una antropologia di una nuova potenza, capace di limitarsi e quindi ancora più forte di quella che ha cercato la propria soddisfazione nei dispositivi del capitalismo tecno-nichilista. Se le cose stanno cosi possiamo dire che solo apparentemente il tecno-nichilismo è il trionfo della volontà di potenza perché nella sostanza è la sottrazione all’umano di dimensioni che il tecno-nichilismo emargina e tende ad espellere. Esaurendo l’umano nella ipertrofia di una dimensione che è unilaterale, cioè la dimensione della produzione e del consumo di beni che per lo più escludono il godimento comune e la relazione con l’altro, il tecno-nichilismo riduce la potenza dell’umano. Si tratta di denunciare la riduzione nel tecno-nichilismo della potenza dell’umano. Personalmente ho cercato di evidenziare come un’antropologia ricca e non impoverita come quella applicata dal tecno-nichilismo dovrebbe dare soddisfazione  non soltanto al momento della produzione e del consumo ma anche ai momenti dell’agire e del contemplare.

 

 

Agire e contemplare

Così agire è per un più di essere, per un incremento sia riguardo a se stessi sia riguardo ad altri Infatti è un grave errore della nostra cultura confondere l’agire con il lavorare e il produrre. Incremento soprattutto dell’essere più che dell’avere. E ugualmente il contemplare è l’introduzione di possibilità dell’andare oltre, la possibilità del novum. Senza questa visione del novum di un possibile da accadere, di prospettive, novità. In questo vedo un intreccio tra le parole d’ordine indicate da Magatti e questa antropologia ricca e non impoverita come quella del tecno-nichilismo, che dovrebbe dare soddisfazione non soltanto al momento della produzione e del consumo ma anche ai momenti dell’agire e del contemplare. Non si tratta di abbattere la potenza insita nell’umano, la sua energetica esistenziale, ma di riconvertire, di qualificare la potenza dell’umano. Allora la transizione ad altro, auspicabile, si configura come un obiettivo positivo e non come una perdita. La sofferenza riguarda il recente passato; ora si tratta di andare verso una situazione più adeguata alle aspettative antropologiche. Si tratta di mettere insieme un guadagno sia in senso antropologico sia in senso etico.

 

Cosa ha a che fare questo discorso con il rilancio o il rinnovamento della politica? La sofferenza attuale della politica dipende dalla restrizione, dall’impoverimento dei fini della politica o dal ritaglio di quelli che sono i fini praticati dalla politica, dal più generale consenso antropologico in cui la politica si situa e non può non situarsi. La politica si ritaglia i fini riducendoli rispetto alla richiesta antropologica perché innanzitutto, all’inizio della modernità, è una politica per l’ordine e dell’ordine. “Gli Stati non si governano con i Pater noster”, la famosa affermazione di Machiavelli. Se si vuole la garanzia e l’ordine allora gli elementi teologici, antropologici, etici vanno relativizzati. Primo ruolo della politica è la costituzione di Stati ben ordinati. Nella vicenda moderna  la politica non si ferma a questo perché al di là della politica dell’ordine nasce e si realizza la politica dell’utile anche nel senso universalistico della partecipazione agli utili. La convivenza e quindi la relazione sociale è in grado di produrre e quindi eventualmente di distribuire. Si tratta di perseguire una distribuzione il più possibile giusta, equa degli utili tra i soggetti appartenenti alle varie classi e con vari interessi. Tutto lo Stato sociale ha prevalentemente una filosofia utilitaristica: ci sono delle risorse e queste vanno distribuite secondo una logica di giustizia, di partecipazione. Questo tipo di politica, a sua volta, presenta delle incapacità di soddisfare i requisiti di una convivenza che deve sempre di più agire a favore della realizzazione della dignità di ciascuna persona nell’ambito della relazione di convivenza.

 

 

Il compimento della dignità della persona

Quindi il fine della politica si sposta dall’utile alla tutela e al compimento della dignità della persona. Questo ha a che fare con l’essere della persona più che con il suo avere. Oggi si impone alla politica un nuovo salto di qualità perché sono gli stessi mondi vitali che chiedono di essere messi in comunione con la politica. Oggi la politica si gioca le proprie credenziali di legittimità nella capacità di tradurre in domanda politica  ciò che appartiene ai mondi vitali. La politica è trascinata in un ambito non politico, in-politico come humus della stessa politica.. C’è un magma ribollente di istanze, di esigenze oggi che cingono di assedio la politica che per forza di cose deve far fronte ad esse ridefinendo l’immaginario collettivo che fa da sfondo al proprio fine. Occorre perciò andare oltre sia al confinamento della politica nel perimetro dell’ordine sia a quello dell’utile quindi al di là delle istanze di sicurezza e delle istanze di prosperità. Si tratta di realizzare fino in fondo la dignità ontologica di una persona, ma non astrattamente considerata. Il rapporto con l’ambito vitale comporta anche il rapporto con l’ambiente con altre risorse finora trascurate o prese in considerazione in misura molto ridotta. Quindi anche qui si impone un compito di arricchimento della politica. Questo non vuol dire che la politica non abbia dei limiti perché rimane una parte dell’umano però è quella parte dell’umano chiamata a svolgere una funzione di ordine generale. Certamente limiti in quanto non si può chiedere tutto alla politica : ogni persona è portatrice di una visione originaria del bene da realizzare per sé, nella relazione con altri, liberamente scelta. Tutto ciò non è caricabile su ciò che la politica può promettere e può garantire a ciascuno. Ciò non toglie che bisogna andare sempre di più verso un arricchimento della politica grazie agli stimoli radicati nelle istanze dei mondi vitali e quindi nel sistema della eticità concretamente intesa.

 

 

Implementare la politica

Si tratta allora di implementare la politica in senso etico e antropologico. Questo orizzonte che oggi si impone per la politica è un orizzonte ideale, ma può far intendere qual è la condizione tragica in cui si trova oggi la politica proprio rispetto a queste attese. Proprio quando dalla politica ci si attende un compito di corrispondenza ad attese antropologiche complessive, questa attesa viene frustrata e delusa. Questa situazione deludente va fronteggiata generando quelli che Magatti, nel suo libro, chiama i “contro ambienti” capaci di inserire elementi controcorrente rispetto ai danni provocati dalla grande contrazione di cui la politica è parte non secondaria.

 

 

 

Franco Monaco

 

Nel mio intervento pensavo di mettere a tema la questione del rapporto tra azione politica con specifico riguardo agli anni che sono alle nostre spalle, ed elaborazione ideologica della politica, pensiero politico circa l’ideale di società giusta storicamente possibile nelle condizioni date.

Avrei provato a ragionare sul cosiddetto processo di de-ideologizzazione della contesa politica in Italia.  Non è un mistero che il sistema politico italiano era contrassegnato da un esorbitante carico di carattere ideologico nel senso spregiativo della parola. Quindi agli inizi degli anni ’90 avevamo un po’ tutti provato a ragionare su una riflessione che stava a monte di un progetto e poi dell’azione dell’Ulivo. Quindi il mio dire è un tema affatto diverso e molto più limitato.

 

 

Il deficit della politica

I nostri amici per ragioni di competenza ci hanno intrattenuto su questioni di ben altra portata. Siamo in presenza di una crisi epocale, comunque di una svolta, di una discontinuità. Se ho capito bene, come dice Magatti, è un dramma ma anche un’opportunità ma non banalmente dal punto di vista del modello di sviluppo ma piuttosto proprio dal punto di vista della visione antropologica. La percezione è più sul versante del dramma, ma lo stimolo è ad un pensiero lungo e anche decisamente alternativo, anche politico, per passare dall’utile, dall’ordine e dalla prosperità al benessere di ispirazione umanistica, personalistico-comunitaria. Si misura questo con le mappe radicalmente nuove al centro delle quali sta il tema, detta con uno slogan di: “una libertà che si libera”, la libertà dei liberi come dice Magatti.

 

Intuisco che c’è un nesso tra queste riflessioni ed una elaborazione politica degna di questo nome, proprio perché sono consapevole e necessito di una riflessione. Per altro verso conferisce anche ai poveri operatori politici qualche attenuante perché in qualche modo il pensiero e l’azione politica sono tributarie di questo vistoso deficit. Quando ci sorprendiamo di certe dinamiche politiche e magari anche elettorali e misuriamo anche la nostra relativa impotenza a dominare certe dinamiche che ci incalzano, ci sorprendono: dal risultato di 5Stelle alla vittoria di Maroni in Lombardia. Di fronte a questo uno si chiede di che altro c’era bisogno perché maturassero le condizioni per una alternativa, per voltare pagina e non è bastato quello che si è prodotto alle nostra spalle. Non vorrei che la lettura degli interventi di questi amici suonasse come auto-giustificazione, ma dice anche della debolezza, della inadeguatezza della politica che è sicuramente interpellata sui fini e sul loro restringimento e impoverimento ma verso la quale si proiettano una serie di aspettative esorbitanti. Questa è una riflessione che faccio a caldo su ciò che ho sentito e che richiede da parte mia una ulteriore riflessione.

 

 

La politica dagli anni ’90: un’esperienza

Io avrei invece più banalmente e più semplicemente ragionato su quanto ho anticipato. Io sono entrato dalla porta di chi scommetteva agli inizi degli anni ’90 sul fatto che la politica italiana aveva bisogno di una riduzione del suo tasso ideologico. Ideologie di matrice ottocentesca e già consumate e la democrazia italiana aveva bisogno di svilupparsi verso una normalità. Ricordiamo gli slogan: “democrazia compiuta”, “la democrazia normale”, “la democrazia competitiva”, “la democrazia dell’alternanza” tutte espressioni che evocano significati diversi ma che partivano da questa scommessa: la de-ideologizzazione della contesa politica è un’opportunità, è una cosa buona. Anche perché quelle ideologie erano consumate e in particolare i partiti che in qualche modo facevano riferimento a quelle ideologie erano silurati. Ricordate lo slogan: partitocrazia senza partiti. E’ bene anche in questa stagione in cui si dice che si sta chiudendo la seconda repubblica e si aprirebbe una terza. Diffido sempre di queste affermazioni in quanto finché vige una Costituzione dobbiamo piuttosto parlare di un primo tempo e di un secondo tempo della Repubblica e, se si vuole un terzo tempo che riguarda la discontinuità dei sistemi politici non dell’ordinamento costituzionale. Partiti silurati, ma che cavalcavano strumentalmente quelle ideologie di cui non era rimasto quasi niente.

 

 

L’esperienza dell’Ulivo

Dovendo ragionare, e questa sarebbe stata la linea che mi sarebbe piaciuto sviluppare,  sul primo bilancio critico di quella stagione, mi sembra che il  prodotto più innovativo e originale sia stato l’esperienza dell’Ulivo che aveva una sua elaborazione alle spalle. Era la scommessa di portare dei fini di portata storica. Non siamo a livello etico e antropologico, ma la scommessa era di  venire a capo dello storico contenzioso, eredità lunga della questione romana e della opposizione politica tra laici e cattolici. Era un obiettivo ambiziosissimo quello un po’ enfaticamente espresso come sintesi e insieme trascendimento delle culture politiche , democratiche e riformatrici che avevano forgiato il novecento. Quello anche di un soggetto politico nuovo, aperto alla partecipazione dei cittadini. Oggi c’è il Web ma io ricordo che l’Ulivo nasce come proposta politica di governo tramite il fax. Ricordo il programma confluito nel libretto verde dell’Ulivo che nel ’96 fu il prodotto di una mobilitazione e di una elaborazione programmatica largamente partecipata. Sarebbe interessante, in sede un po’ di bilancio, ragionare oggi di quella stagione che va un po’ sotto la scommessa della de-ideologizzazione della contesa politica.

 

Faccio tre conclusive osservazioni. Certamente noi abbiamo scontato dal punto di vista di un positivo rapporto tra una elaborazione ideologica nuova e originale e l’azione politica, tre deficit. Il primo è costituito da un pensiero molto critico e poco alternativo, molto conforme al pensiero dominante. Si pensi alla rincorsa anche a sinistra nei confronti di posizione di centro liberali e liberal-tecnocratiche che avallavano acriticamente quei processi di cui si è detto in precedenza da Magatti. Nel movimento 5 stelle c’è di tutto e il contrario di tutto e io sono dell’opinione che non bisogna cavalcare questo tsunami, anzi in qualche posizione contrastarlo energicamente. C’è di tutto ci sono anche delle pulsioni regressive come l’antipolitica che è più un prodotto di una destra nuova, ma anche tradizionale Però lì certamente c’è l’attenzione, un pensiero e una pratica alternative, combattuto su due fronti di cui uno è il protagonismo dei cittadini via Web e l’altro dei beni comuni. La riflessione sui quali porta molto nella direzione umanistica, personalistica, relazionale che sia Magatti che Totaro ci hanno indicato. Anche a sinistra c’è stata una subalternità a questo pensiero dominante.

 

 

Il nuovo positivismo

Nella Octogesima adveniens, PaoloVI parla di nuovo positivismo, sotteso a certa cattiva retorica antiideologica. Dopo aver registrato il declino delle ideologie, in particolare delle due grandi ideologie del novecento, quella marxista e quella liberale su cui ha parole severissime, Montini scrive: “se oggi si è potuto parlare di un regresso delle ideologie ciò può indicare che è venuto un tempo favorevole alla apertura verso la trascendenza concreta del cristianesimo, ma può anche indicare uno slittamento verso un nuovo positivismo: la tecnica generalizzata come forma dominante di attività, come metodo assorbente di esistere e magari come linguaggio senza che la questione del suo significato sia realmente posta”. La rimozione della questione dei significati che è il profilo critico, allarmante del declino delle ideologie se si risolve nel nuovo positivismo, se la questione dei significati neppure viene posta. C’è da riflettere su certe posizioni politiche di stampo tecnocratico sposate anche da molti nostri amici di marca cattolica. Questa iniziativa politica di Mario Monti noi l’abbiamo vista soprattutto sul versante di questo ibridismo con questa contraddizione di settori del cattolicesimo sociale che convergono su queste posizioni. Personalmente lì ho criticato anche da un altro punto di vista della sequenza. Noi siamo fermi alla sequenza che prima si fa un partito, poi si fa un programma e poi si fa una lista. Invece in quel caso la sequenza è stata rovesciata. Prima si è fatta l’agenda, peraltro schiacciata sull’emergenza, poi si è fatta la lista e il partito se mai lo si farà. Noi saremo un po’ all’antica, ma le cose serie, buone anche in politica pretendono un loro tempismo, una loro elaborazione. Da ultimo non ci è stata di aiuto in questa azione ed elaborazione politica la via alla re-ideologizzazione dell’azione politica, l’enfasi posta dei principi irrinunciabili da parte dei vertici ecclesiastici. Non è questa la via  buona perché ci costringono non a rielaborare la visione complessiva ma a concentrarsi ossessivamente su questo o quello dei principi non negoziabili a cortocircuitare i principi negoziabili e la prassi politica. Tra l’altro questa enfasi è stata improvvisamente sospesa in occasione delle elezioni dove bisognava dare un mezzo sostegno alla lista Monti.

 

 

La mediazione dei principi

In altri casi questa enfasi è stata molto incalzante quasi ignorando che il compito proprio della politica è esattamente quello dell’arte della mediazione dei principi per insediarli dentro la polis. Questo è il bello e il difficile dell’azione politica tanto più dentro società contrassegnate da un pluralismo delle concezioni etiche in cui l’operatore politico deve interrogarsi almeno sotto tre profili. Primo quello con la proposta politica, tanto più quella legislativa e quello del costume. Non si possono fare proclami, si deve coniugare la legislazione con l’ethos dominante. Secondo con il pluralismo delle concezioni etiche rappresentato, stante l’ordinamento democratico, dal Parlamento e da tutte le istituzioni rappresentative. E da ultimo con il principio di maggioranza. Noi purtroppo non siamo stati aiutati in questo. Quando penso alla prassi politica e ai principi non negoziabili mi rifaccio alle pagine scritte da Martini quando, informato da questo nostro travaglio come nel caso della fecondazione assistita piuttosto che delle unioni di fatto, ci dava una mano a rimarcare questa consapevolezza della complessità dell’esercizio di questa arte della mediazione. Mentre venivo qui ho scorso i titoli di questa Memoria di Fabrizio Barca che si affaccia con qualche ambizione politica e lì ho trovato, devo capire se è vino buono in otri vecchi al di là del linguaggio immaginifico. Ma la circostanza che un ministro di successo abbia l’ardire di mettere la questione di una forma nuova del partito e anche non abbia paura di evocare la sinistra in polemica con questo pensiero di stampo tecnocratico che molti hanno messo in circolo per cui da destra e da sinistra  nasce un pensiero unico da appaltare ai tecnici contro l’idea che la politica democratica, come diceva Bobbio, è per definizione un universo dialettico in cui ci sono visioni, progetti e programmi tra loro alternativi. La tesi che dal pensiero unico, sortisce la soluzione unica da appaltare ai tecnici è la morte della politica democratica. La tecnocrazia è l’altra faccia del populismo, entrambe negano lo statuto proprio di una politica democratica.

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