Ebbene sì, sono moralista, e ne vado fiero…

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L’infelice battuta del Segretario Fiom, Maurizio Landini, “Renzi non ha il consenso delle persone oneste”, (con scuse d’obbligo e ritrattata, sbagliata nel merito e nello stile), nonché il riproporsi di alcuni scandali anche in settori non strettamente politici (imprenditori e ‘ndrangheta; medici che trafficavano vantaggi invogliando le madri a utilizzare il latte in polvere; e altre mazzette via via dicendo…), hanno fatto riemergere – se per caso ve ne fosse ancora bisogno – il tema della questione morale nel nostro Paese. Ma credevo, francamente, che la vetusta distinzione tra morale e moralismo fosse stata superata. Invece c’è chi, articolo di Cesare Martinetti sulla Stampa del 22 novembre, riprende l’antica questione, aggravandola con un titolo chiaro: “Il moralismo che fa male alla politica”. E scrive chiaramente, giusto per far capire che non si tratta di pura questione semantica: “Sono tempi duri, le chiacchiere a un certo punto finiscono e siccome è di politiche del lavoro che stiamo parlando, o portano occupazione e dunque sono efficaci, o no e allora non sarà con i giudizi morali che ne verremo fuori. L’onestà di un governo deriva dall’efficacia delle sue politiche a vantaggio di tutti, non dal moralismo di chi usa vecchi e pur rispettabili slogan per perpetuare all’infinito le proprie certezze”. Bando ai moralismi! Questo Paese ha bisogno di cose vere, non di “chiacchiere”…

Certo se sono slogan, contro la politica delle “cose da fare”, i principi morali – quindi l’etica – non solo non servono ma possono anche essere controproducenti. Sono convinto, invece, che il rispetto della legge, la correttezza dei comportamenti, il disinteresse personale di chi agisce per conto della collettività, la trasparenza, non è presupposto politico: è già politica. In un’Italia agli ultimi posti in occidente per indice di corruzione percepita, (si vedano le classifiche di Transparency International Italia.it) quale può essere il tasso di certezza che merito ed efficienza saranno vincenti in una gara di appalto? Prossimo allo zero? e poi, dopo la vittoria del favorito di turno, la corretta esecuzione dei lavori non sarà una chimera? E l’assegnazione di un ruolo pubblico? Un bando per un posto all’università, la gestione di una partecipata o di una mensa di una scuola?

E per carità non mi si venga a dire che “così fan tutti”, che mi fa perdere la ragione…! Non è vero, c’è chi, nel nome di quella morale che ha interiorizzato per potersi guardare ancora allo specchio la mattina, è disposto “a perdere”. Conosco imprenditori che perdono gare per non cedere alle pressioni, amici che aspirano a fare politica che di fronte a proposte “indecenti” dicono un secco no; giovani donne che nel mondo di aziende o all’università non cedono alle “lusinghe” di beceri poteri maschili pur di non dover scambiare il risultato (leggi, il posto di lavoro) con la loro dignità. E sono tanti. Ingenui? Anime belle? Pronti a cambiare idea con una posta più alta? Forse, ma un pensiero siffatto (frutto dell’ignobile presupposto che “tutti hanno un prezzo, basta solo capire qual è”…), ci porta dritti e presto alla dissoluzione di questo Paese.

Allora perché facciamo i finti sorpresi di fronte alla “clamorosa” assenza dalle urne dei cittadini alle ultime elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria? La democrazia che i nostri padri fondatori hanno immaginato e costruito dopo le rovine del fascismo, e che, con non poca fatica, nei decenni scorsi abbiamo tentato di difendere dalle picconate della corruzione dilagante, era fondata sulla moralità come bene prezioso per essere fino in fondo e positivamente artefici di politica, e non solo occasionali comprimari. Ora invece sembra che tutto sia possibile, lecito, ammissibile al potere. Possiamo lasciare la rabbia a chi vuole distruggere tutto, senza distinguere le istituzioni da chi le occupa indegnamente? No, i cittadini che non hanno partecipato il 23 novembre all’ultima competizione elettorale non sono meri qualunquisti, sono solo indignati, e non ci stanno. Hanno ragione, diciamolo onestamente, noi che crediamo ancora alla Costituzione e alla Cittadinanza. Ma allo stesso tempo siamo convinti o no che la strada finora percorsa non sia irreversibile?

E’ vero: la differenza tra moralista e moralità sta nell’errore che fa il primo, nel giudicare con la stessa gravità la multa non pagata e la tangente per vincere un appalto, o peggio, la risata con cui si accompagna la sicurezza di avere lavori disponibili dopo un terremoto. Il moralista non fa distinzione, e pialla tutto, magari poi facendosi scoprire lui, non immacolato. L’uomo d’impeccabile moralità invece – e non solo Dio sa quanto ne abbiamo bisogno in questo Paese – parte da ragionevoli distinguo, e sa che trovare le giuste, equilibrate ed efficaci vie d’uscita è faticoso, richiede il consenso del più ampio numero di persone possibile e un senso di appartenenza ad una collettività ampia e pluralista raro di questi tempi. Ma necessario.

Per questo restano illuminanti, a mio modesto parere, le parole di Enrico Berlinguer sulla questione morale, nell’intervista rilasciata a Scalfari il 28 luglio 1981: “Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata”.

Ecco, porrei l’accento su quel “ovunque si annidi”. Siamo stati poco vigili, negli ultimi anni, proprio nel combattere i privilegi (la corruzione) anche dalle “nostre” parti. Ora scontiamo quella miopia e la democrazia fragile (e a rischio) ci presenta il conto. Non è mai tardi per ravvedersi, credo. Ma cominciamo dal non fare sterili distinzioni tra moralità e moralisti. Tra gli eccessi opposti, in questo Paese, preferisco quello di una severità maggiore e a volte eccessiva, rispetto a una guerra di tutti contro tutti dove vince solo il più forte, arrogante e senza scrupoli. Nel primo caso, con eccessi di moralismo, forse si può tornare a costruire una pur minima coesione sociale, nel secondo no. C’è solo da augurarsi di stare dalla parte giusta.

Vittorio Sammarco

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  1. Caro Vittorio, visitando il tuo blog ho ricostruito alcuni momenti del passato in cui ci siamo incontrati e gli articoli in cui ti ho letto su Segnosette. Agonico veteris vestigia flammae. E sono lieto di leggere questo tuo articolo, insieme umile, perché riconosci che siamo uomini esposti come tutti gli altri a peccare in pensieri opere ed omissioni, e orgoglioso, perché consapevole della trasparenza interiore della coscienza, che cerchi di manifestare anche all’esterno, per evitare di fornire alibi a chi si adegua o s’indigna per partito preso. Ricordo che a Reggio Emilia, con Pierluigi Castagnetti, allora studente dell’ITI, dove io insegnavo, fondammo l’USM, associazione di studenti secondari che aveva come criteri di riferimento, guarda caso, il Vangelo, la Costituzione e il Concilio. Ho fatto anche alcuni incontri di lavoro con Ermanno Dossetti, Ermanno Gorrieri e altri, nel Circolo Leonardo di Reggio, acquistato da noi laici per organizzare attività formative, fra cui una campagna contro la fame. Nel Consiglio c’erano anche Romano Prodi e don Camillo Ruini. Finiti i ricordi, sono lieto di aderire a c3dem e di mandarvi un contributo. Se mi telefoni, vedremo che cosa ti pare più utile. Buona Immacolata. Luciano Corradini

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