Democrazia partecipativa e necessità della decisione. Intervista a Carlo Cellamare

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Carlo Cellamare è docente di urbanistica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università “ La Sapienza ”, svolge attività di ricerca sul rapporto tra città di pietra e città degli uomini e sul tema dei processi di progettazione urbana e territoriale, con particolare attenzione alle pratiche urbane, al rapporto tra reti sociali e trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie. Ha sviluppato la propria attività attraverso percorsi di ricerca-azione e lavoro sul campo, mostrando uno spiccato interesse all’interdisciplinarietà e ai temi della partecipazione. Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Plural Cities (a cura di, Plurimondi , n. 5, Dedalo, 2002), RomaCentro. Dal laboratorio alla “Casa della Città” (a cura di, Palombi, 2006), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008).

 

L’alternativa tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, così come viene intesa oggi da alcuni, sembra non solo costituzionalmente improponibile ma anche nei fatti irrealizzabile. Su quali cardini costruire il giusto mix per non rendere la prima residuale né la seconda utopistica?

Siamo di fronte ad una crisi della rappresentanza e delle forme democratiche che abbiamo sperimentato sinora, ma anche ad una crisi della politica e delle istituzioni che misurano una distanza sempre maggiore dei cittadini, per molti motivi peraltro ben noti (professionalizzazione e personalizzazione della politica, venir meno dei soggetti di intermediazione politica e indebolimento delle funzioni del tradizionale partito di massa, crisi della rappresentanza, prevalenza di interessi di parte, prevalenza dell’economico sul politico, venir meno degli spazi di discussione pubblica, arretramento delle istituzioni rispetto al loro ruolo pubblico di governo, ecc.). Problemi che evidentemente non si risolvono solo con l’introduzione della democrazia partecipativa ma con la riattivazione delle forme e delle modalità di interazione politica. Questo lo si potrebbe pensare anche a livello istituzionale, ad esempio attraverso forme di democrazia locale e di democrazia partecipata di prossimità (come sta avvenendo in Francia o come è tradizione dei Paesi anglosassoni).

Ma soprattutto l’esperienza ci insegna che la democrazia partecipativa non funziona bene se semplicemente è introdotta “per legge”, istituzionalmente. In questi casi si trasforma in una democrazia procedurale e in meccanismi facilmente elusi dalla pubblica amministrazione (forme di consultazione, binari paralleli, costruzione del consenso). Non vi può essere introduzione di forme partecipative e integrazione tra democrazia partecipativa e democrazia rappresentativa se non vi è una chiara scelta politica, un chiaro disegno politico. La partecipazione si ottiene e si pratica attraverso le vie della politica, di una politica rigenerata e convinta che poi sceglie (anche di volta in volta) le vie concrete da praticare. E d’altra parte la partecipazione non può vivere senza il conflitto. Il conflitto (che spesso interpretiamo negativamente ed invece può rivelarsi profondamente creativo) è condizione e motore per una forte partecipazione, soprattutto dal basso.

 

Come riattivare la partecipazione democratica alla vita della comunità senza perdere di vista l’obiettivo della necessaria soluzione dei problemi, e sprofondando in processi decisionali lenti che alla fine scoraggiano e danno l’impressione della deresponsabilizzazione delle istituzioni?

Questi problemi nascono – ripeto – quando si intende la partecipazione in forma procedurale e come un passaggio “obbligato” per arrivare alle scelte concrete. La partecipazione,, se apparentemente più impegnativa e lunga, porta in genere a scelte di qualità maggiore e più condivise, riducendo fortemente i tempi di attuazione, che invece sono in genere il problema reale per la soluzione dei problemi. Facendo un bilancio complessivo di tutto il processo, in genere i percorsi partecipativi sono più corti e di qualità maggiore.

Ma il problema non è questo. La partecipazione deve essere sviluppata sulle politiche e sulle grandi scelte e deve essere realizzata in contesti che lavorano continuativamente nel tempo (e non riattivati ogni volta). In questo modo, quando arriverà il momento delle scelte concrete, queste si compiranno molto più facilmente. Inoltre questi percorsi devono intersecare continuativamente i percorsi istituzionali (come tante esperienze ci insegnano). Non possono essere percorsi separati o paralleli. L’organizzazione e la programmazione di un buon percorso partecipativo devono prevedere fin dall’inizio questa intersezione.

 

Il senso di partecipazione nasce anche dal senso di cittadinanza, dalla condivisione di un’appartenenza ad una comunità, piccola o grande che sia ma che crea reti e relazioni. Il rischio però è che si creino “appartenenze corte” finalizzate alla soluzione di singoli problemi spesso in contrasto con soluzioni diverse proposte da altre piccole comunità. Come uscirne?

Il nucleo della partecipazione non è “politologico”, ma “sociale e culturale”: riappropriazione dei luoghi, autorganizzazione, cittadinanza attiva, costruzione di tessuti sociali e di solidarietà, reti e relazioni, ecc. Il soggetto pubblico, se ha a cuore questa dimensione e ne fa una scelta politica, deve creare le condizioni perché questo si sviluppi. Perché siano responsabilizzate a “dimensioni pubbliche” più ampie le comunità locali devono essere coinvolte nell’affrontare problemi di più ampio respiro. Esistono diverse “culture del pubblico” e bisogna stare attenti all’esistenza anche di una concezione un po’ “leghista” di “territorialità” locale. Questo deve essere affrontato creando appunto le condizioni di una visione più ampia.

 

Qual è il ruolo della leadership in una politica sempre più personalizzata? Con una leadership debole non si riesce a trascinare alla partecipazione; ma con una forte si finisce per indebolire il senso di responsabilità che è alla base di ogni autentica partecipazione

Il problema delle leadership è sempre esistito ed è un noto problema, molto grande. Ma è anche un problema dettato dall’evoluzione attuale del sistema politico e istituzionale, più legato all’intraprendenza, allo spettacolo, all’uso di strumenti comunicativi e mediatici, alla pubblicità, ecc. L’antidoto fondamentale è creare le condizioni di una buona politica, di un maggiore e più diffuso scambio pubblico. Questo è l’antidoto fondamentale, anche attraverso le forme della democrazia di prossimità. E poi ovviamente ci vogliono leader capaci di una visione politica connessa alla capacità di costruire relazioni e contesti di interazione pubblica partecipati. Con un coinvolgimento di soggetti intermedi e la formazione di nuove soggettualità politiche.

 

Gli attuali strumenti della partecipazione (referendum, petizioni e iniziative di legge popolari …) sembrano datati. Eppure garantiscono interventi diretti del cittadino. Come rinnovarli per rilanciarne il compito?

Gli strumenti come il referendum, le petizioni o le leggi di iniziativa popolare non hanno mai permesso grande partecipazione, se non in forme molto indirette e strumentali. Sono ben altre le forme più ampie di coinvolgimento dei cittadini.

 

I canali ordinari di verifica dell’operato delle istituzioni (la rendicontazione, l’audit…) debbono necessariamente confrontarsi con i saperi specifici e con le esperienze acquisite che spesso la cultura dell’immediatezza e del confronto in piazza spinge a trascurare nel nome della ricerca del consenso. Quali strumenti utilizzare per non scadere nella superficialità e nell’approssimazione?

Degli ottimi strumenti di partecipazione e di valutazione dell’operato delle istituzioni sono i bilanci sociali e i bilanci politici di mandato sviluppati in forma partecipata. Sono esperienze molto interessanti e molto ricche.

 

Anche le associazioni di categoria, dei consumatori, i comitati di quartiere, le associazioni di malati o in generale di portatori di interesse hanno bisogno di riconoscimenti di legittimità. Con quali criteri farlo? Possono bastare la costituzionalità degli statuti fondativi o il numero degli iscritti?

Istituzionalizzare i percorsi partecipativi o i soggetti intermedi è sempre un’arma a doppio taglio. Comitati e associazioni sono, allo stesso tempo le prime forme di democrazia partecipativa e un grande rischio, in quanto possono costituire un filtro tra le istituzioni e le realtà locali. La soluzione non è formale o istituzionale, ma sta nella gestione politica dei processi. Indubbiamente un riconoscimento istituzionale favorisce la forza di comitati e associazioni, ma deve essere gestito con molta prudenza e con ulteriori gradi di apertura.

 

La partecipazione ha bisogno anche di un principio d’ordine che definisca i processi partecipativi e dia loro la certezza che una volta giunti al termine non siano contestati alla radice i risultati. Come riabilitare il principio di autorità in un’epoca di disintermediazione?

Nello sviluppo di percorsi partecipativi le regole devono essere chiare fin dal principio e deve essere chiaro e formale l’impegno politico e istituzionale del soggetto pubblico a dare seguito a quanto emerge dal percorso partecipativo (in termini di deliberazioni formali e di attuazioni concrete). Un grande problema è la frustrazione, che si può tradurre in un drammatico boomerang per le amministrazioni e per i politici. Attualmente i cittadini sono abbastanza stanchi di partecipazioni finte e un po’ truffa. E’ necessario individuare fin dall’inizio un campo di azione su cui è abbastanza sicuro che si possa raggiungere un risultato e che appartenga allo spazio in cui l’amministrazione coinvolta può prendere degli impegni. Una buona organizzazione e programmazione di un percorso partecipativo deve prevedere anche questo, preventivamente; e poi esplicitarlo pubblicamente.

 

Vittorio Sammarco

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