De Gasperi, Dossetti e il falso dilemma statalismo-sussidiarietà

| 0 comments

Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano, interviene sulla rivista on line del Pd, “Tamtam democratico” n. 7, a proposito di sussidiarietà. In precedenza su questo tema erano intervenuti, sulla stessa rivista, Giorgio Armillei, Enzo Balboni e Stefano Ceccanti (e prima ancora anche Franco Monaco, sul n. 3, e Filippo Pizzolato, sul n. 4).  Guido Formigoni  critica Ceccanti a proposito del giudizio di statalismo dato a Dossetti e offre una diversa valutazione delle idee dossettiane sul ruolo dello Stato. Il n. 7 di Tamtam, insieme all’articolo di Guido Formigoni, pubblica anche un altro articolo sulla sussidiarietà, per la penna del teologo Antonio Lattuada, il quale mette in guardia da interpretazioni schematiche della sussidiarietà.

Riportiamo di seguito il testo di Formigoni. Qui, da scaricare, gli articoli di Monaco, Armillei, Balboni, Ceccanti, Pizzolato e Lattuada.

Il confronto che si è sviluppato sugli ultimi numeri di «Tamtam» sul rapporto tra sussidiarietà e stato, con interventi di Armillei, Balboni e Ceccanti, è piuttosto interessante. Vorrei qui inserirmi nel dibattito per esprimere qualche critica all’amico Stefano Ceccanti, da modesto cultore di cose storiche. Il punto è questo: mi pare insostenibile, al limite della caricatura, la contrapposizione tra l’eredità positiva del degasperismo liberale e quella negativa del dossettismo statalista. Beninteso, non si tratta di negare il contrasto tra i due cattolici che facevano politica, ma di rappresentarlo correttamente. Da lì poi scaturiranno conseguenze sull’attualità.

Storicizzare quel conflitto impone di cogliere il problema generale dell’epoca costituente e poi centrista: come perseguire e realizzare un nuovo modello di stato. Nel dopoguerra infatti la nuova classe dirigente aveva di fronte due scogli: l’eredità della dittatura e la crisi drammatica del capitalismo degli anni Trenta. È chiaro quindi che nessun democratico (tantomeno cristiano) in quegli anni potesse rimpiangere uno Stato-moloch, come anche che nessuno potesse pensare di tornare semplicemente al liberalismo pre-fascista o pre-crisi del 1929. Il liberismo era stato spazzato via dalla storia, esattamente come il totalitarismo. Tanto che in tutta Europa i liberali discutevano di programmazione senza problemi.

Che fare in queste contingenze? La soluzione fu trovata in un disegno di Stato democratico e sociale, le cui premesse furono incoativamente disegnate in Costituzione (nella prima parte, difesa come «programmatica» rispetto ai giuristi liberali, che semplicemente non la comprendevano). Il modello costituzionale, cui Dossetti diede come è noto un contributo sostanziale, era piuttosto limpido: il «cuore ideologico» della costituzione, nel rapporto strettissimo tra articolo 2 e 3, configurava uno Stato diverso da quello etico del regime fascista e da ogni totalitarismo (dato che «riconosce e garantisce» i diritti della persona «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»), ma uno Stato che assume compiti finalistici propriamente etici (dovendo «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che impediscono «il pieno sviluppo della persona», nell’eguaglianza e nella libertà).

Né Stato minimo, né statalismo, quindi. La questione divenne ovviamente più delicata dopo il 1948, quando l’elettorato diede alla Dc il compito di guidare il governo in posizione del tutto preminente. Alla luce dell’esigente modello costituzionale, come muoversi? Il confronto acceso tra Dossetti e De Gasperi aveva avuto qualche premessa precedente, sul tema della rottura o continuità rispetto alla vecchia classe dirigente, sintomaticamente espresso soprattutto sulla questione della scelta repubblicana. Ma solo su questo nuovo terreno diede luogo a due prospettive politiche propriamente divaricate.

De Gasperi si orientò pragmaticamente a un mix di scelte liberiste e interventiste, sostenne la linea anti-inflazionista di Einaudi controllandone peraltro alcune istanze, salvò l’Iri e appoggiò le iniziative di Mattei, avviò la riforma agraria, aprì il commercio internazionale piuttosto prudentemente, diede spazio dopo il 1950 ai tecnici di formazione nittiana. Soprattutto, però, scelse l’einaudiano Pella per il Tesoro, con una posizione che rappresentava una visione di rigore nei conti pubblici, collegata all’ipotesi di una prosecuzione dell’equilibrio agricolo-commerciale-industriale tradizionale del paese, senza nessuna idea di rapida crescita.

La critica dei dossettiani si addensò su questo punto: occorreva una politica economica più decisa ed espansionista, che si ponesse l’obiettivo della piena occupazione. Non a caso «Cronache sociali» ospitava gli articoli keynesiani di Federico Caffè. Il che si collegava all’ipotesi di una politica estera dell’Italia più autonoma rispetto agli Stati Uniti, in chiave europea (e su questo punto il pungolo dossettiano divenne convergente con le scelte di De Gasperi dopo il 1950). L’immobilismo della difesa della lira era ritenuto fondamentalmente miope.

E tralasciamo «l’incontro tra il dossettismo e il comunismo», che non era proprio in agenda; come tralasciamo l’equivoco di un’opposizione successiva di Dossetti alla Dignitatis Humanae, che non ci fu: la sua era una critica all’argomentazione empirista e individualista, anziché basata sulla Rivelazione, e quindi alle incoerenze di alcuni passaggi del decreto. Ma torniamo al punto.

Il tanto evocato e poco studiato discorso di Dossetti ai giuristi cattolici del 1951 va letto su quello sfondo: era la testimonianza conclusiva di una posizione che si sentiva politicamente sconfitta.

Affermare un finalismo dello Stato per il bene comune si collegava al chiaro monito per cui «non è in potere dello Stato determinare il fine». Il fine era infatti nelle cose, in una visione del bene comune, peraltro democraticamente sanzionata: «lo Stato non può essere agnostico e limitarsi a garantire il meccanismo delle libertà individuali e assumere gli infiniti fini individuali come proprio fine». La sussidiarietà era prevista, anche se non si usava la parola, tanto che citando l’articolo 2 si affermava «la necessità che lo Stato riconosca la realtà e la consistenza delle persone e di alcune formazioni sociali intermedie specificamente individuate», chiedendo peraltro «un riconoscimento di queste realtà essenziali graduato e gerarchico».

Ecco perché Dossetti parlava di «reformatio del corpo sociale» ad opera dello Stato: quest’ultimo doveva assumere «una funzione non solo di mediazione statica tra le forze sociali esistenti, ma di sintesi dinamica». Evitare «l’immunità» tradizionale (liberale) dell’ordinamento economico era solo un aspetto del discorso. L’altro era evitare un interventismo statale spezzettato, episodico e quindi «controperante», perché non ispirato a una lettura della situazione e a una progettazione coerente da parte della politica. La politica democratica dei partiti, si badi bene, anima della democrazia, nell’aspirazione di Dossetti. Statalismo? Anticapitalismo? Mah…

E qui arriviamo all’eredità di questa storia per noi. Il quadro generale è esattamente rovesciato rispetto al dibattito De Gasperi – Dossetti. Oggi soffriamo l’eredità di una delegittimazione del compito sociale dello Stato, a fronte della cosiddetta rivoluzione neoliberista (etichetta ambigua, peraltro). Per dirla meglio, scontiamo quell’insieme di trasformazioni che ha introdotto dagli anni ’70-’80 in tutto l’Occidente un nuovo ciclo politico-economico. In cui la risposta alla crisi del modello fordista si è tradotta nella riduzione voluta del ruolo economico dello stato (sia diretto che regolatore!), collegata alla finanziarizzazione dell’economia e all’esternalizzazione delle produzioni di beni di massa, nella liberalizzazione inedita dei movimenti di capitali che si aggiungeva a quella delle merci (già matura).

Da quella rivoluzione ha preso le mosse un ciclo ormai trentennale che ha redistribuito il lavoro e il reddito tra regioni geografiche e settori sociali in modo altamente squilibrato e soprattutto altamente instabile. La crisi finanziaria esplosa nel 2007 e la conseguente Grande stagnazione, con collegata crisi del debito, sono lì a indicare il punto. A fronte della radicalità di questi problemi, come non rendersi conto che il dilemma statalismo-sussidiarietà è assolutamente inadatto a indicare un via per risolverli? Se vogliamo affrontare i nodi strutturali della crisi del sistema, non ci possiamo più baloccare in divisioni tra socialdemocratici e blairiani, quasi che il problema sia come lenire alcune delle conseguenze negative del nuovo ciclo storico-economico.

È del tutto evidente che non si può immaginare di tornare al dibattito del 1945 sulla programmazione economica. Ma come non porsi il problema politico di intervenire alla base degli squilibri strutturali dell’attuale sistema? Si tratta non di meno che porsi la finalità di ridurre il triplice squilibrio tra i percettori di redditi di diversa provenienza; tra settori produttivi e settori finanziari; tra aree geo-economiche del capitalismo mondiale, oltre che tra paesi ricchi e poveri. E come farlo, se non con un mix di incentivazioni a comportamenti sociali virtuosi, valorizzazione selettiva delle formazioni sociali e della loro vitalità e scelte democratiche della politica che correggano squilibri, affermando con chiarezza priorità e obiettivi?

La sintesi dell’articolo 2 e 3 della costituzione ci può ancora guidare. Il metodo era chiaro nel citato discorso del 1951: «affermare, costruire e diffondere una analisi sociologica che veda tutta la verità del presente, che determini la coscienza dei compiti prossimi, non rinviandoli a decenni: che quindi consenta di fondare una ideologia politica e infine un programma di strumentazione giuridica». A mio sommesso avviso, un procedimento che sarebbe tutt’altro che superato. Se ci fossero forze culturali e politiche in grado di applicarlo creativamente all’attualità

Lascia un commento

Required fields are marked *.