Alluvioni e dintorni            

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Il territorio italiano è fragile, lo si sapeva da sempre.

Nel 1933 Arrigo Serpieri, alto tecnocrate del regime, varò il Testo Unico sulla “Bonifica Integrale”. Nel 1937 al Congresso di Roma dell’Istituto Italiano di Urbanistica, Cesare Albertini (tecnico comunale di Milano) e Gustavo Giovannoni (padre della conservazione urbana) affrontarono la pianificazione rurale. Nel 1946, in piena Ricostruzione, Amos Edallo (dirigente della sezione urbanistica del comune di Milano) pubblicò “Ruralistica” presso Hoepli, promossa da noti architetti come Giovanni Muzio e Gio Ponti, chiedendo che la ricostruzione delle città partisse dalla campagna. Negli Anni Sessanta l’Università italiana registrò un boom di iscrizioni a Geologia, con obiettivi dichiarati per la difesa del suolo (anche se – sotto sotto – petroliferi). Vent’anni dopo le leggi urbanistiche, ormai regionali, introdussero l’obbligo che i Piani Regolatori  Comunali, di fatto edilizi, fossero accompagnati da un Piano Geologico, proprio per evitare quegli eventi tragici che questo piovosissimo autunno ha reso concreti.

L’elaborazione teorica sulla difesa del suolo data dunque da quasi un secolo, anche se prodotta da una minoranza qualificata e inascoltata; il territorio non ha avuto benefici, anzi, via via deteriorato e ampiamente cementificato, è ormai incapace di assorbire eventi traumatici. Per capire, però, bisogna uscire dalla demagogia dei telegiornali, che cercano le responsabilità intervistando i disastrati dopo una bufera che in due ore scarica la pioggia di sei mesi.

Le alluvioni hanno abitudini antiche; in molte città attraversate da fiumi si vedono segni sui muri, con tanto di data, che indicano l’altezza delle piene di qualche secolo fa, in tempi non sospetti, dovute a stagioni di grandi piogge, allora indipendenti dall’azione antropica. Certo, oggi gli interventi umani rischiano di essere ben più distruttivi e un atteggiamento di responsabilità impone di ridurre le emissioni di CO2, per non favorire l’effetto-serra. Ma è un problema mondiale, non solo italiano. In ogni caso una popolazione di 7 miliardi di individui, anche solo respirando, ha un impatto non confrontabile con quello di pochi cacciatori-raccoglitori preistorici.

Gli effetti di atteggiamenti virtuosi verso l’ambiente sono però a lunga scadenza, mentre le azioni immediate, pur doverose, consistono nel rabberciare i danni con interventi che non incidono sulle cause che li hanno prodotti e che potrebbero ancora farlo in futuro. Ma non basta l’aspirina, è necessario il chirurgo.

Per le inondazioni, servono interventi a medio termine, che devono eliminare ciò che  limita il deflusso dell’acqua, anche in condizioni di piogge eccezionali. E questo non comporta l’elevazione degli argini; ma, spesso, significa demolire gli edifici o le opere realizzate malamente, che provocano impedimenti e strozzature.

I fiumi, nei secoli, si sono scavati da soli il corso, con sfoghi in aree golenali che erano vasche di laminazione. Se oggi sono diventati stretti canali di cemento ad alta velocità, o se li hanno intubati scambiandoli per rigagnoli, o se le golene sono adibite a zone industriali, risarcire il danno non basta; serve “smontare” 50 anni di indifferenza al territorio e di mancata manutenzione dei manufatti, oltre che mettere un po’ di buon senso nelle manifestazioni di protesta di chi è esigente in fatto di diritti, meno in fatto di doveri.

In montagna e in collina si aggiungono le frane, che non vengono per caso; certo dipende dalla giacitura degli strati e dalla consistenza dei terreni, ma in ogni caso la protezione del suolo richiede il bosco, o almeno il prato. Il vino italiano è ottimo, ma nella vigna il terreno è a rischio di dilavamento, specie se si è levata l’erba per lasciare tutto il nutrimento alla pianta. Il frumento o il mais collinare è saporito, ma l’aratura aiuta lo smottamento, specie se fatta a “ritto-chino”, ovvero nel senso della massima pendenza: cosa facile con la potenza dei trattori d’oggi.

Costruire poi case o osterie (o anche invasi d’acqua) sotto ripidi scoscendimenti è, a dir poco, improvvido, anche se panoramico. Qui le colpe non sono attribuibili solo alla ingordigia o all’irresponsabilità attuale (anche in tempi passati si costruiva in luoghi sbagliati, come ha mostrato il crollo di edifici non recenti), ma questo non consola e non giustifica lamentele e lacrime di coccodrillo, al di là della pietà per i morti.

Occorre pensarci prima, in sede di progetto, raccogliendo tutte le informazioni tecniche necessarie, oltre alle serie storiche degli eventi calamitosi.. E questo significa andare contro modi di uso consolidati e interessi solo a volte legittimi, accollandosi anche l’onere dell’impopolarità, nella temperie attuale piuttosto virulenta.

Infine, in un’ottica di lungo periodo e pur nel dubbio che non tutto il disastro ambientale dipenda dalla sola attività umana moderna, con i suoi comportamenti distruttivi, è certo che un atteggiamento di responsabilità imponga di indirizzare i processi produttivi verso assetti “sostenibili”. Questo è un problema complesso, che richiede a livello internazionale accordi non scontati (come si sa) e, a livello interno, può provocare reazioni a fronte di promesse facili e non realizzate.

I problemi sono interconnessi e affrontarli settorialmente, come si fa di solito, non dà frutto; le immani risorse sprecate per fare e smantellare attività rivelatisi inadatte, per  mancata verifica preliminare di idee apparentemente brillanti, fanno parte della faciloneria nostrana. Occorre dunque affrontare la complessità.

Fermare la cementificazione ulteriore del territorio e puntare al recupero degli edifici esistenti, senza nuove occupazioni di suolo, diventa una strada quasi obbligata per la residenza urbana, ma poco praticabile per industria e artigianato già in apnea. E l’esplosione di enormi attività commerciali o fieristiche, anche recenti, mostra la difficoltà dell’operazione.

I privati vogliono costruire anche dove non si deve, e le Amministrazioni non sanno dire di no, o magari edificano in proprio, con la foglia di fico delle motivazioni sociali. Ma soprattutto c’è il rifiuto, tutto nostro, di effettuare controlli e manutenzioni, perché costano o, forse, non sono abbastanza creativi; perciò basta il timbro preliminare sul modulo. In teoria esiste la VIA (Valutazione di Impatto Ambientale), che dovrebbe precedere il progetto dei grandi interventi; ma è fin troppo facile farle dire solo ciò che fa comodo, dove non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Inoltre si tratta di un provvedimento consistente, non applicabile a piccoli interventi, che nessun sindaco vorrà negare.

La ciliegina sulla torta è data dall’abusivismo che imperversa, soprattutto al Sud, ridotto a problema di condoni, perché quel che conta è fare cassa. E questo ci dice anche che le questioni non sono settoriali e serve un salto complessivo di civiltà.

Concludo con un sorriso: anni fa, un tale andò in Comune a chiedere quando scadeva il termine per costruire case abusive. Era evidentemente troppo ligio.

 

Edoardo Edallo

 

 

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