Tre brevi considerazioni per un buon sinodo

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L’autore di questo articolo è un laico della parrocchia di Marghera, a Venezia, che ha maturato oltre quarant’anni di servizio pastorale in vari organismi ecclesiali e ha vissuto l’esperienza di  un Sinodo parrocchiale, convocato tempo fa dall’allora Patriarca Angelo Scola. Ha letto sul nostro sito le considerazioni di Giandiego Carastro e i suoi “consigli non richiesti per un percorso sinodale”, e dice di averli trovati condivisibili e stimolanti. Ci offre qui – come ci scrive – “alcune minime suggestioni per vivere al meglio il cammino sinodale” che ha redatto per la sua Chiesa veneziana.

 

 

Nessuno escluso

Il “convenire in unum” (1 Cor 11,18) della Chiesa e per fare Chiesa deve includere tutti i battezzati.

Nel testo del manuale ufficiale per la preparazione del Sinodo nelle Chiese locali (il “Vademecum”) il concetto riguardante la necessità di non escludere dai lavori sinodali nessuno dei fedeli, di non tenere fuori dal cammino alcun battezzato è ripetuto ‒ con termini e espressioni differenti ‒ almeno sessanta volte!

Se il Battesimo conferisce davvero a tutti una funzione profetica, sacerdotale e regale, ed introduce realmente e irrevocabilmente nella Chiesa, come potrebbe la comunità ecclesiale escludere qualcuno dei battezzati, oppure non operare affinché egli possa essere soggetto attivo nell’opera di evangelizzazione? Sarebbe una Chiesa che contraddice la verità del Vangelo, che non dimostra con i fatti la sua fede nel Battesimo. Se ad ogni battezzato è tributato ex opere operato l’onore di essere figlio di Dio, non possiamo impedire a quanti sono insigniti di tale natura di esprimere nel concreto la loro dignità filiale escludendoli dalla  partecipazione.

Forse, come ha suggerito altrove papa Francesco, nel prossimo Sinodo dovremmo realizzare “il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fare i complimenti” (Evangelii Gaudium, 31).

Nessuno ritiene neanche lontanamente che tutto ciò possa essere facile, ma è altrettanto vero che ciò che si assume teologalmente come buono e vero non può, nella pratica, essere messo da parte come irrealizzabile, senza essersi almeno seriamente domandati «Cosa altro possiamo fare per…».

Non dobbiamo sposare una visione di ottimismo ingenuo, ma agire sulle nostre coscienze e stimolare riletture, revisioni, ripensamenti.

 

Una vera spiritualità

La sinodalità che sperimenteremo sia una forma di spiritualità di comunione, vissuta e coestensiva.

Gli incontri preparatori e quelli più propriamente sinodali non sono delle assemblee popolari alle quali appiccicare uno specifico momento di “spiritualità” ad hoc: un brano biblico, un preghiera e poi ‒ finalmente ‒ si comincia a lavorare al Sinodo.

La natura propria della convocazione sinodale (un Sinodo non si realizza, si “celebra”) richiede un approccio spirituale coestensivo a tutte le fasi del lavoro comune, non segregato in specifici momenti sacrali: anche ascoltare il fratello che parla è un momento di altissima spiritualità (è lo Spirito Santo che si sta rivolgendo a noi per bocca di quella persona); pure il fraterno scambio di idee è una manifestazione della varietà dei doni di Dio; anche il confronto sul futuro ecclesiale dice la ricchezza dei carismi pneumatologici (e quindi delle opzioni di salvezza) che sono stati effusi a piene mani tra di noi.

Del resto ogni aspetto del vissuto ecclesiale è una forte esperienza spirituale di comunione e di discepolato condiviso («Dove due o tre…», Mt 18,20). Serve davvero a qualcosa una spiritualità alienata (e alienante)?

Forse non c’è alcun bisogno di separare nettamente il momento spirituale di inizio riunione dal resto della serata, magari con un bel segno di croce quale “tramezzo” (che cos’è? un modo per non contaminare l’alto momento ascetico con la pochezza della discussione pratica?), e ritenere, invece, in fede, che ogni minuto dell’incontro sia un vero momento di spiritualità.

Dobbiamo fare un concreto atto di fede nello Spirito che soffia ‒ in ogni istante, come e con chi vuole! ‒ come un lievissimo refolo di vento.

 

Non è democrazia, è Chiesa

Quando parleremo del Sinodo evitiamo, anche implicitamente, di utilizzare idee che richiamino il concetto di democrazia.

La sinodalità è molto di più che la democrazia: questa fa appello alla sovranità ex lege, quella alla comunione tra le persone (e con Dio).

Se qualcuno affermasse che la sua veloce automobile «raggiunge il settimo grado della scala Mercalli» noi ci sbellicheremmo dalle risate. Perché non ci comportiamo allo stesso modo se qualcuno dice che il Sinodo è un modo per rispondere alle esigenze nate con l’evoluzione democratica della società? È lo stesso tipo di inadeguatezza verbale del nostro avventato guidatore: l’utilizzo di una matrice di valori che non ha nulla a che vedere con la comunità dei battezzati.

Che cosa c’entra la Chiesa con i criteri laici di gestione della società civile, con i suoi sistemi politico-sociali? Perché usare criteri statuali per interpretare l’essere, il sentirsi e il discernere insieme della comunità ecclesiale che si mette in ascolto di ciò che lo Spirito le suggerisce?

La sinodalità è una dimensione intrinseca della Chiesa, non qualcosa che vi introduciamo dall’esterno per far fronte ad una sensibilità in senso partecipativo della società d’oggi.

Proviamo a non usare sistemi di riferimento che non sono adatti alla realtà teandrica della Chiesa: ontologicamente la sinodalità è un “sinonimo” di Chiesa, è la Chiesa che attua se stessa, non una forma di coinvolgimento della gente in essa.

 

Gigi Malavolta

One Comment

  1. Nell’ultima parte ho l’impressione di un certo dualismo Chiesa-mondo.
    Vuole forse dire che lo sviluppo democratico nella storia non è un “segno dei tempi”? Cioè qualcosa che lo Spirito ha suscitato, fuori dalle sacrestie?
    Esistono veramente, secondo la logica cristiana, “criteri laici” e “criteri evangelici”? O la sfumatura è un po’ più sottile?
    E poi, se per democrazia intende un’ideologia politica è un conto, ma se intende una modalità concreta di prendere le decisioni (votazione in cui uno vale uno), non è lo stesso metodo usato da sempre nelle assemblee ecclesiali (sinodi, concilii, conclavi…)? Mutatis mutandis, ovvero ricercando maggioranze non assolute, non qualificate, ma addirittura il maggior consenso possibile.
    Il corpo ecclesiale non è forse un corpo sociale? La sociologia, la psicologia sociale e la politologia non hanno proprio niente da insegnarci?

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