Tina Anselmi, costruttrice di democrazia

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Tina Anselmi merita di essere ricordata al di là di un necrologio d’occasione. Per molteplici motivi. Sono stati sottolineati in queste ore la sua esperienza come staffetta partigiana, la militanza sindacale e poi politica, l’essere stata la prima donna ministro (allora non si diceva ministra) nella storia della Repubblica, la sua coraggiosa guida della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2.

Ma c’è probabilmente dell’altro che oggi chiede una riflessione. Per età, la Anselmi non può essere definita una «madre della Repubblica». Era ancora una ragazzina minorenne quando, come lei stessa ricorda, fece campagna per il voto alle donne prima delle elezioni del 1946. Eppure, credo si possa dire che ella sia stata una protagonista nella categoria delle costruttrici della democrazia e della Repubblica. Quella generazione non così estesa, me nemmeno troppo élitaria e circoscritta, che seppe lavorare duramente per far nascere  qualcosa che in Italia non era mai esistita, o meglio che quando si era affacciata per la prima volta era stata subito spazzata via dal crollo dello Stato liberale nella dittatura. La dedizione straordinaria a questo compito, in qualche modo anche «leggera», fatta più di entusiasmo e progettualità che di oppressivo senso del dovere, era la spina dorsale di questa generazione. Che aveva convinzioni forti, maturate in anni terribili. La scelta partigiana della giovanissima Tina (che faceva la staffetta di mattina presto o di notte, continuando a seguire le lezioni all’Istituto magistrale) era nata vedendo i partigiani impiccati nella piazza di Bassano del Grappa. E i gruppi della gioventù cattolica del suo Veneto dovevano riflettere su questioni morali e umane durissime. Da cui scaturirono appunto scelte di impegno e anche di militanza ideologicamente accesa e convinta. Era una generazione dal pensiero forte, anche se magari sintetizzato e semplificato nelle urgenze della quotidianità. Ma è stata anche una generazione che conosceva esistenzialmente l’importanza della convivenza con il diverso: la democrazia si poteva costruire solo se con coloro che erano gli avversari (i comunisti) si fosse salvato un filo e un senso di convivenza nella «casa comune» della Costituzione e dei diritti di tutti. Vicenda non facile, di fronte a sfide e rischi di conflittualità radicale, che però questa generazione seppe sostanzialmente vincere. E ci insegna ancora molto, credo, in tempi di sottovalutazione radicale di quanto conti questo senso di una civile convivenza, che solo permette di instradare il conflitto, fino a farne un elemento di crescita comune.

Non è un caso quindi la battaglia così puntuta e decisa, che scontò durissime opposizioni, contro l’inquinamento della P2. Era il frutto della percezione che in quel disegno politico-affaristico  – che è stato giustamente definito il più articolato progetto di destra della storia repubblicana – c’era una minaccia molto pericolosa, proprio perché subdola e non frontale, alle realizzazioni della prima fase della democrazia. C’era in sostanza anche la convinzione che quel fenomeno rivelasse proprio le difficoltà di radicamento della prassi e della cultura democratica. Quei limiti che avrebbero di lì a poco travolto il sistema politico, anche nella sua componente migliore, proprio perché non aveva avuto abbastanza anticorpi contro le degenerazioni.

E poi non va dimenticata la sua capacità di vivere questo percorso proprio da donna. In una stagione ancora tutt’altro che semplice per la consapevolezza, l’autonomia, la presenza pubblica femminile. Molto prima di un femminismo successivo che a volte forse ha peccato di sufficienza rispetto al ruolo di queste donne impegnate nella fondazione della democrazia. I movimenti femminili dei partiti, compresa la Dc, erano allora straordinarie esperienze di emancipazione e crescita, nonostante alcuni limiti evidenti nell’elaborazione politica, o alcuni riti di subordinazione alle rispettive componenti maschili. Nonostante la visibilità magari modesta, fino appunto a quel 1976 dell’acquisizione del ministero del Lavoro per la nostra protagonista. I racconti di Tina sulla mobilitazione per la legge Merlin contro la prostituzione, o sulle questioni che più avanti sarebbero state definite di «pari opportunità» sul lavoro, nelle professioni, in famiglia, sono ricchissimi. La lenta elaborazione di una nuova cultura e di nuove sensibilità umane, che ebbe proprio nella riforma del diritto di famiglia un punto cruciale, fanno parte di una stagione troppo spesso dimenticata, che invece gli studi storici, dopo i lavori pionieristici di Paola Gaiotti, stanno opportunamente valorizzando. Oggi si devono esibire ministeri con il 50% di donne, ma siamo sicuri che il clima complessivo sia migliore, una volta pagato il prezzo della correttezza formale?

 

Non a caso, consegnando i suoi ricordi per un libro-intervista autobiografico, Tina Anselmi scriveva: «La nostra storia ci dovrebbe insegnare che la democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile, una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati, attraverso la responsabilità di tutto un popolo. Dovremmo riflettere sul fatto che la democrazia non è solo libere elezioni, non è solo progresso economico. È giustizia, è rispetto della dignità umana, dei diritti delle donne. È tranquillità per i vecchi e speranza per i figli. È pace».

 

 

Guido Formigoni

 

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  1. Ho conosciuto Tina quando avevo 19/20 anni e lei era incaricata giovani e guidava i corsi di formazione alla Camilluccia. Una esperienza molto bella, vissuta intensamente. Da allora una lunga affettuosa amicizia, una consonanza di idee e di esperienza politica. Ricordo anche i colloqui drammatici durante il sequestro dell’on. Moro, la comune sensazione dell’irreparabile fin dai primi momenti e nonostante ciò la sua ostinata ricerca di una possibile via d’uscita, insieme a pochi altri amici. Ricordo anche la sua preoccupazione di mantenere, sia pure con grande pena, i rapporti con la famiglia.
    Il ritratto che Guido ne traccia è molto appropriato e coglie l’essenza della sua concezione e del suo impegno civile e politico.
    Questi ultimi anni devono essere stati molto duri e penosi. Quando la vidi l’ultima volta stava già male, era consapevole, ma ancora in grado di muoversi un po’ e di parlare sia pure a fatica. Immagino che sofferenza debba essere stata per lei così attiva e sensibile. Mi auguro che si possa un giorno ricostruire tutti gli apporti che Tina ha dato al progresso sociale del paese e le sue battaglie morali. Non dimenticherei l’impegnativo lavoro fatto per definire l’entità e la realtà dei beni sottratti agli ebrei italiani dal regime fascista.

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