Società signorile di massa?

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L’Italia è un paese signorile?  Direi proprio di no.  Siamo tutt’altro che una società signorile e tanto meno, come afferma Ricolfi nel suo libro, “l’unica società signorile di massa”.

Il ragionamento di Ricolfi, oltre concedere troppo a un vezzo giornalistico impressionistico, si presenta approssimativo nei presupposti e altrettanto inadeguatamente approfondito nei ragionamenti, che meriterebbero un ben altro approccio. Il libro così si riduce a quello che è un’abitudine inveterata di molti studiosi: la compilazione aggiornata dei molti mali italiani.

Il punto di partenza su cui è costruito l’intero discorso è una tabellina secondo cui coloro che lavorano in Italia (al di sopra dei 14 anni) costituiscono il 39,9% della popolazione, mentre quelli che non lavorano sono il 52,2%; a parte sono considerati gli immigrati che rappresentano il 7,9%.

Questi dati mettono insieme, per così dire, cavoli e patate: nelle persone che non lavorano sono compresi gli anziani, donne casalinghe, disoccupati o senza lavoro, tra cui i giovani, compresi gli studenti. L’Italia ha più disoccupati degli altri paesi, più donne che sono a casa, sia per tradizione, sia perché manca il lavoro: è un segno di signorilità? E se aumentassero i giovani studenti passerebbero nella categoria dei signori? Per gli anziani è vero che l’Italia ne ha un numero maggiore; ma al di là della generosa politica dei governi passati (che pesa ancora oggi, ma destinata a finire presto, come tanti già temono), non è certo un male se gli anziani vivono più a lungo. Piuttosto si apre il serio tema di come affrontare i problemi di una società anziana. E poi ci si dimentica di calcolare fra gli occupati il lavoro nero, che non è certamente poco.

Se applicassimo il rapporto lavoratori/non lavoratori proposto da Ricolfi, il nostro Sud invece di un’area disagiata, sarebbe un grande regno “signorile”. Chi è che glielo va a dire?

Non solo i numeri sono sballati, ma anche i ragionamenti sono molto semplificati;  Ricolfi mette insieme due cose che vanno distinte, anche se possono sovrapporsi: la realtà signorile e la società opulenta.

Società opulenta è la società dove molte persone guadagnano di più del necessario e possono quindi risparmiare/accumulare e dedicarsi a consumi superflui.

Già negli anni ’60 Franco Rodano (che collaborava con Napoleoni, citato da Ricolfi, alla Rivista Trimestrale; ed è strano che Rodano non venga mai citato, mentre rappresenta lo studioso che di più ha affrontato questi problemi) metteva in guardia dal pericolo che questo benessere venisse tutto rivolto a consumi individualistici, a suo parere irrazionali e spesso distruttivi. Militando nell’area del partito comunista riteneva che invece di confidare in una futura mitica rivoluzione era più opportuno pensare nell’immediato a una soluzione più sociale, orientando i consumi a bisogni comuni e collettivi, con un senso più umano.

Ciò non è avvenuto, e i dati di Ricolfi sui consumi rivolti tanto al tempo libero, al fitness, alle crociere, alle palestre, quanto ai giochi d’azzardo, alla droga e alla prostituzione, dimostrano come si è andati lontani nella deriva individualistica. Ma non è il sistema a proporre queste scelte?

E’ sintomatico che l’unica conclusione di Ricolfi sia una timida speranza che aumenti l’occupazione, come se i problemi fossero tutti qui e il problema non fosse quello dei valori e delle prospettive umane e ideali della nostra società come delle altre società occidentali, che hanno gli stessi identici problemi, del tutto aperti e irrisolti.

Oltre a denunciare l’aumento del consumo delle droghe e del gioco d’azzardo, cosa facciamo? Raddoppiamo le pene, le forze di polizia? Facciamo controlli nei supermercati, nelle strade, nelle stazioni? E’ facile fare l’elenco dei problemi guardandosi bene dal dire come è possibile mettervi rimedio.

Diverso è il tema “signorile”: il sistema signorile era proprio di un’epoca che ha preceduto la società borghese: pochi signori e una massa di servitori o di servi. La società borghese-democratica aveva superato questa situazione (dando vita alla classe lavoratrice), ma oggi il problema in una certa misura si ripropone soprattutto a causa della presenza degli immigrati che sono trattati spesso e in generale come inferiori (sugli immigrati di colore pesano facilmente antichi pregiudizi non esplicitati).

Questa condizione di inferiorità rischia nella società di oggi di estendersi anche a segmenti di lavoratori autoctoni, perché le persone e le attività ricche delle nostre città globali richiedono sempre di più lavori “servili”: si tratta di una condizione strutturale di cui prendere atto e contrastare prima che diventi un ostacolo insuperabile.

Dunque i problemi a riguardo sono seri, ma il libro non li affronta e rischia pertanto di essere deviante, accontentandosi di fornire un’immagine superficiale, invece di favorire una riflessione di merito sempre più necessaria. Come si usa dire, speriamo che almeno abbia il merito di sollevare il problema.

 

Sandro Antoniazzi

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  1. Non ho letto il libro di Luca Ricolfi, ma vorrei prendere spunto di un dato che, come tutti i dati, si presta a diverse narrazioni: se un paese di 60 milioni di abitanti si può permettere il lusso di far lavorare soltanto 23 milioni e 400 mila persone, vuol dire che è una società del benessere.
    Un tempo si diceva che siamo una “società dei due terzi” (l’altro terzo pari al 25 % vive in serie difficoltà); i numeri, ovviamente cambiano, ma questa condizione sembra perdurare nel tempo.
    Ogni dato può essere interpretato in maniera completamente diversa, l’ermeneutica è un grande problema di filosofia statistica!
    Prendiamo come riferimento il tasso d’occupazione per classi di età (% rispetto alla popolazione di riferimento) che è il seguente:
    a) 15-34 anni: 41,3 % (5.108.000 persone)
    b) 35-49 anni: 73,6% (10.000.000 di persone)
    c) 50-64 anni: 60,5% (8.107.000 persone)
    Sorge spontanea una domanda: ha senso calcolare il tasso d’occupazione della prima classe a partire dai 15 anni? Oppure non sarebbe più realistico iniziare a partire dalla conclusione del ciclo scolastico delle superiori (quindi a 18 anni quando si raggiunge la maggiore età)?
    La stessa considerazione iniziale, appare priva di senso se consideriamo l’esistenza di 16 milioni di pensionati che non sono dei mantenuti, ma hanno lavorato e hanno versato contributi. Non solo, secondo una recente ricerca della Fondazione Di Vittorio, quasi 6 milioni di pensionati aiutano i loro familiari (in particolare figli e nipoti) sgravando il welfare state da costi elevati, mentre 1 milione e mezzo vive in gravi difficoltà. Da considerare anche i 3 milioni di studenti delle superiori.
    Se poi prendiamo a riferimento il tema dei migranti, che è quello più discusso, allora il livello di manipolazione raggiunge le sue massime vette. In Italia vivono pacificamente 5 milioni di migranti eppure l’attenzione si è concentrata sugli sbarchi via mare e ha condizionato il senso comune di una larga parte di cittadini (non possiamo accogliere tutti, rischiamo l’invasione). Nell’anno scolastico 1996/97 gli studenti figli di immigrati erano 59 mila (pari allo 0,7%), nel 2017/2018 hanno superato le 800 mila unità (pari al 9,7% degli studenti) di cui il 63% nati in Italia (quindi che conoscono storia e cultura del nostro paese, come i coetanei figli di italiani).
    Come riuscire a produrre una narrazione diversa e convincente, costituisce un grande problema politico e qui i cattolici democratici, le parrocchie, l’associazionismo, avrebbero un campo d’intervento aperto.
    Salvatore Vento

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