Se i veleni oscurano il ruolo pubblico della Chiesa

 di Domenico Rosati, in “l’Unità” del 14 febbraio 2012

Visioni sublimi e pratiche deteriori: è la sensazione che si prova nel registrare le brutte notizie che filtrano dal Vaticano e sommergono i richiami del magistero di Benedetto XVI, del quale si sono addirittura ipotizzate le dimissioni. Indipendentemente dalla consistenza, tutta da verificare di quest’ultimo scenario, qualche domanda ne deriva, soprattutto (ma non solo) nella coscienza dei credenti: che spiegazione dare di quanto accade e, di conseguenza, che atteggiamento assumere di fronte all’epifania di casi che ormai tendono a formare una catena?

C’è un vescovo autorevole che implora il Papa di non allontanarlo dalla Curia romana, dove asserisce di aver svolto un’opera di vigoroso contrasto alla corruzione e al malcostume; ma la rimozione (con promozione) avviene ed ecco le carte del misfatto approdare sul video. Seguono denunce e proteste dei personaggi chiamati in causa; e si deplora la fuga di notizie.

C’è un porporato che, in viaggio privato in Cina, si avventura in previsioni luttuose sul destino del regnante pontefice e sul nome del successore, mentre un altro confratello si premura di trasmettere all’interessato le informazioni relative che presto raggiungono la stampa.

Suscita attenzione, inoltre, il fatto che somme di una certa entità, di pertinenza della Santa Sede, avrebbero traslocato da banche italiane a banche tedesche, mentre il tutto s’inserisce nel contesto della fin troppo frequentata storia dei preti pedofili che da anni affligge le chiese cattoliche di mezzo mondo.

Sui singoli punti e sull’insieme si sono esercitati finora diversi osservatori con le più svariate ipotesi: quella della pista cinese, intesa come competizione tra cardinali per un’apertura, invero disordinata rispetto ai precedenti, di una ostpolitik con il regime di Pechino; quella dei piazzamenti all’interno del collegio cardinalizio in vista del conclave prossimo venturo e di altre scadenze intermedie; quella, più generale, di una lettura delle circostanze collegata ad un deficit di fede nel ceto dirigente della Chiesa, con «il ritorno, quasi come ai tempi rinascimentali di palazzi vaticani ridotti a nodi di intrighi e di lotte per carriere, poteri denaro, interessi ideologici e politici» (Messori).

Questo genere di analisi porta quasi fisiologicamente ad accoppiare ad ogni vizio denunciato la figura dell’uno o dell’altro dei protagonisti e dei comprimari che popolano la scena di Oltretevere. In tal caso basterebbe qualche correzione di tipo organizzativo, con un minimo di qualche sostituzione e un massimo da definire. Ma c’è anche un’altra possibile lettura che costringe ad ampliare l’orizzonte. Ha scritto Alberto Melloni: «Se oggi la desolazione prevale anche nei più puri, bisogna chiedersi non quando è iniziato il degrado (credo all’ultima cena), ma cosa rende insufficiente oggi quel tesoro che c’è. E questo devono chiederselo i vescovi: lo storico può solo dire che forse un eccesso di confidenza nel conservatorismo di moda, l’impunito vezzo di umiliare il Vaticano II al rango di un concilietto “disciplinare”, non sono senza responsabilità in questo inverno desolante, di cui solo la collegialità potrà essere la primavera».

Così posto, il tema investe l’intera struttura della Chiesa nel suo ordinamento gerarchico e nei suoi collegamenti vitali all’interno del Popolo di Dio. Il rimedio può essere o un nuovo Concilio o una riproposizione meno timorosa del Concilio Vaticano II, inclusa quella riforma della Curia come fattore di comunione che è stata pensata ma non attuata.

Fuori dalla tecnologia ecclesiastica, comunque il discorso porta lontano. Tenuto conto del tempo trascorso e delle molte scorciatoie imboccate, l’esigenza preminente pare essere quella di una nuova immersione nel secolo in modo da ricomprenderne valori e miserie, angosce e speranze affinché la parola di misericordia e di perdono, cioè Gesù Cristo, possa comunicarsi agli uomini di questo tempo. Che tutto questo abbia a che fare con la fede è fuori discussione; e in tal senso la concomitanza con l’«anno della fede» proclamato per il 2012 va colta come un momento propizio.

Ma non può essere una trasmissione a senso unico, competenza esclusiva di una gerarchia per quanto purificata e, dove occorra, emendata. C’è da chiedersi se una fede identificata con dottrina e catechismo basti a decrittare i segni dei tempi – la crisi materiale ed esistenziale che attraversa il mondo contemporaneo – in modo da proporre a ogni persona e a tutte le persone, le «ragioni di vita e di speranza» che mobilitano l’impegno per la pace e la giustizia. Non sono, quelle qui evocate, questioni riservate: né al ceto sacerdotale, né alla sola comunità dei fedeli. Proprio perché le chiese hanno e rivendicano giustamente un ruolo pubblico, quel che dicono e fanno riguarda tutti e ciascuno. E solo la maturazione di un’opinione pubblica sulle chiese, e nelle chiese, può far sì che esse operino, in ogni ambito e ad ogni livello, in modo da essere percepite non come luoghi di contese occulte, ma come soggetti promotori di autentica umanità.

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