Saluto affettuoso e commosso a papa Francesco

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Anticipiamo un editoriale che uscirà sul prossimo numero di “Appunti di cultura e politica”, rivista edita dall’associazione “Città dell’uomo”

 

         Nessuno o quasi lo indicava nella prima fila dei papabili, anche se l’eco dell’ampio consenso ricevuto, a quanto sembra, nel precedente Conclave non si era del tutto spenta. Ma ancora una volta il collegio cardinalizio ha saputo sorprendere. Così la scelta è caduta sull’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, ben noto agli «addetti ai lavori» per le qualità distintive del suo ministero episcopale all’insegna di una forte spiritualità, di un grande senso della sobrietà e di un’intensa vicinanza ai bisognosi.   

         In un tempo di sempre più esasperata esposizione mediatica della figura del papa, i primi gesti e le prime parole del neo-eletto, subito diffusi su scala planetaria, assumono grande rilievo. È stato vero anche nel caso di Francesco. Già la scelta del nome contiene un programma d’inequivocabile chiarezza. Come per il «Poverello» d’Assisi, il nuovo Papa, venuto «dalla fine del mondo», è chiamato a mettere tutte le sue energie di mente e di cuore per il rinnovamento della comunità ecclesiale. Ecclesia semper reformanda, recita un antico adagio. Oggi lo avvertiamo particolarmente vero. In questi anni, troppe «rughe» hanno deturpato il volto della santa Chiesa di Dio. Non è il caso di comporre la lista delle «deviazioni», tanto è chiara a ciascuno di noi. Purtroppo, molte contro-testimonianze sono giunte anche dai vertici della gerarchia. A distanza di tempo, sentiamo risuonare in tutta la sua drammaticità la denuncia della «sporcizia» nella Chiesa da parte dell’allora card. Ratzinger, nel commento a una Via Crucis al Colosseo (forse l’ultima presieduta da Giovanni Paolo II). 

         Le prime parole e i primi gesti di un Papa, dicevo, sono rivelatori. Nei media, l’apparizione di Francesco al balcone della basilica vaticana è stata scandagliata in ogni piega. Vale comunque la pena richiamarne gli aspetti salienti.

         Sul piano teologico-ecclesiologico, la ricercata insistenza circa la funzione di vescovo di Roma, a partire dalla quale prende consistenza il ministero petrino, inteso come il «presiedere nella carità» la vita della Chiesa universale che pulsa nelle Chiese locali, costituisce una sottolineatura di grande importanza. Riafferma un dato di dottrina ben noto, ma non sempre tenuto vivo. La ragione di ciò sta nella debordante enfasi sulla figura del papa, cresciuta in modo esponenziale negli ultimi decenni a seguito di almeno due fattori concorrenti: l’applicazione dei media nella «narrazione» quasi quotidiana della vita dei pontefici e l’effetto mediatico di una personalità straordinaria come quella di Giovanni Paolo II (effetto continuato, ma non con la stessa forza d’impatto, sotto Benedetto XVI). Oso auspicare che anche su questo versante si possa giungere a maggiore sobrietà espositiva.

         Sobrietà, del resto, che mi sembra cifra connotativa di papa Francesco. Lo abbiamo notato la sera dell’elezione e nei giorni successivi, osservando i suoi paramenti liturgici (per nulla ricercati) e l’abbigliamento personale: quelle scarpe nere così cromaticamente distoniche rispetto al bianco della talare, ma nel medesimo tempo quasi icona plastica di un desiderio di mettersi in cammino con tutti i fratelli e le sorelle nella fede! Sì, perché quella del camminare insieme da parte del vescovo di Roma con il suo popolo è stata un’altra chiara indicazione venuta dal balcone di San Pietro. Rinvia inequivocabilmente alla splendida immagine della Chiesa come «popolo di Dio», evocata dal II cap. della Lumen gentium. Un’immagine densa anche d’implicanze pastorali. Purtroppo non posta in adeguato rilievo nella riflessione e nella corrente prassi ecclesiale.

         La riaffermazione del legame fra vescovo e popolo, cuore dell’ecclesiologia conciliare, ha avuto nella spontanea gestualità di papa Francesco curvature simboliche commoventi. Il suo chinarsi sul balcone dinanzi alla folla dei fedeli, quasi per impetrare da essi benedizione (cosa, del resto, teologicamente ineccepibile, perché il popolo dei battezzati è un popolo regale, sacerdotale, profetico) e, in ogni caso, per supplicarli di rivolgere intensa preghiera al Signore a sostegno delle nuove responsabilità ministeriali, è parso altamente evocativo. Vi era lì piena consapevolezza del neo-eletto di potere ben poco (anzi, nulla) senza una coralità d’intenti con i propri fedeli nel vigile discernimento della volontà di Dio dentro le fatiche, le gioie, le speranze del cammino quotidiano. E poi quell’uscire sul sagrato della chiesa di Sant’Anna per salutare i parrocchiani dopo la messa della quinta domenica di quaresima! Una sorpresa assoluta per molti; una cosa normale per papa Francesco, abituato, come vescovo, a un’immediatezza di rapporti con i fedeli. Sono questi gesti del cuore e della normalità, che riescono a parlare ancora alla gente, mostrando il volto di una Chiesa amica e accogliente.

         Ma il punto forse decisivo, nel medesimo tempo rivelatore di un implorante desiderio e di un esplicito intento programmatico, sta nelle parole pronunciate in occasione dell’incontro con la stampa: «Vorrei una Chiesa povera e per i poveri», ha affermato il papa. Siamo, di nuovo, a un passaggio di alta densità teologica e pastorale, che rinvia al Concilio e ai dibattiti ad esso immediatamente successivi. L’appello a una «Chiesa dei poveri», sostenuto soprattutto nei contesti ecclesiali latino-americani e nella teologia della liberazione, ha avuto cittadinanza non proprio entusiastica nelle Chiese e nei circoli teologici dell’Occidente opulento. A più d’uno tale espressione è parsa esagerata, frutto di un classismo debitore di pericolose analisi socio-politiche marxiste. Di fatto, almeno da noi, è uscita ben presto di scena. Ma, al di là dei nomi, resta la sostanza delle cose, cioè la massa sterminata di poveri, sfiduciati, delusi, disperati dei molti Sud del mondo. Poveri che, sotto l’impulso dei processi di globalizzazione e gli effetti di una crisi micidiale, stanno popolando in numero crescente anche le nostre città. A tutti costoro la Chiesa è chiamata ad annunciare, con parole e opere, il vangelo della speranza. Ne è (ne sarà) capace? Papa Francesco, riecheggiando sine glossa il messaggio di Gesù, ci sta dicendo che questa è la via. Unica e necessaria. Richiede, a ogni livello, un salutare bagno di umiltà e il coraggio di liberarsi di tutti gli orpelli che intralciano l’annuncio evangelico. Chiesa povera, dei poveri, con i poveri di ogni specie (e dentro ci siamo un po’ tutti), per essere testimone credibile di Colui che «pur essendo nella condizione di Dio […] svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Filippesi, 2, 6-7).        

         Dal discorso del balcone di San Pietro alla solenne messa d’inizio pontificato abbiamo udito parole che ci sono penetrate dentro, nel cuore: «bontà», «misericordia», «tenerezza», «potere come servizio», «cura dell’uomo», «custodia del creato». Non hanno bisogno di sofisticate ermeneutiche. Parlano direttamente all’intelligenza e alla coscienza di ognuno. Se ne trae conferma, una volta di più, del fatto che l’«umano comune», cioè la struttura profonda e universale del nostro essere viandanti nel corso del tempo, con il cumulo aggrovigliato di domande, speranze, gioie, ferite, delusioni, umiliazioni, è il «luogo», precedente ogni distinzione per condizione e ideologia, dove la Parola può attecchire. L’annuncio ha però bisogno di una Chiesa credibile, testimone in prima persona di misericordia, tenerezza, servizio. Papa Francesco ce lo sta ripetendo con forza e con un’autorevolezza tutta particolare, legittimata anche dal suo modo d’incarnare il ministero episcopale a Buenos Aires.

         Vorrei, in conclusione, esprimere un desiderio e un auspicio che, immagino, possano essere condivisi da altri. Quelli di una Chiesa italiana che, sollecitata dal nuovo papa a concentrarsi sull’essenziale (il vangelo!), intraprenda a livello gerarchico un cammino di purificazione anche nel segno di un coraggioso processo di depoliticizzazione. Usciamo, a questo proposito, da un ventennio tormentato e pieno di equivoci. L’idea che la stessa evangelizzazione potesse trarre beneficio da un sistematico «controllo» della gerarchia ecclesiastica sulla politica nazionale è stata una iattura. Parlo con rispetto, non disgiunto però dalla necessaria franchezza: ci si ritragga da questa linea perdente anche in termini di pura Realpolitik; si confidi per davvero nella giusta autonomia politica dei laici cattolici (a proposito, nel nuovo parlamento ce ne sono di molto validi in diversi schieramenti). Non mi sembra imprudente né azzardato credere, dopo i gesti e le parole d’inizio pontificato, che papa Francesco, anche nella sua qualità di primate d’Italia, possa offrire nitidi segnali in tale direzione. A lui l’augurio filiale di buon cammino!

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