Sabino Acquaviva: un buon “maestro”

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Quando ho sentito la notizia della morte, all’età di 88 anni, di Sabino Acquaviva, intellettuale e sociologo (studioso della religione e del sacro nella modernità), accademico dell’Università di Trento e successivamente di quella di Padova, sua città natale,  subito la mia mente si è affollata di pensieri, discorsi, dibattiti, dialoghi, sentimenti, intessuti con lui negli anni ’70, soprattutto nella prima metà.

Proprio ieri, per non andare ad altre innumerevoli volte, nella stesura di un saggio, riflettevo e citavo due suoi libri, il più famoso del 1961, Eclissi del sacro nella società industriale, Edizioni di Comunità, un altro del 1983 (In principio era il corpo, Borla), e un articolo del 1995, pubblicato su ADISTA (“Il Fattore C. Un Paese. Una Chiesa”), nel quale, partendo da una ricerca, definiva il pellegrinaggio, in maniera originale, come solo lui sapeva fare, un fenomeno di nature misticism.

Sicuramente in questi giorni, altri, molto più qualificati e competenti, i suoi allievi diretti, scriveranno con maggiore dettagli di lui, ma in questa circostanza mi piace riflettere sul mio incontro con un “intellettuale autentico” quale certamente era Sabino Acquaviva.

Negli anni settanta, mentre insegnava a Padova (dove è stato anche Preside della Facoltà di Scienze Politiche), Sabino Acquaviva teneva anche un corso a Roma, per i borsisti della Scuola di Specializzazione in Scienze economico-sociali, patrocinata dal FORMEZ presso l’Istituto L. Sturzo di Roma, dove ero borsista anch’io insieme ad altri laureati del Meridione.

Conservo ancora gli appunti che ho preso durante le sue lezioni e ricordo perfettamente le discussioni sui temi della sociologia a tutto campo (ma in particolare la sociologia “religiosa”, come si diceva in quegli anni, quella che sarà chiamata la sociologia della religione, tema che allora osservavo con distacco). Non era l’unico sociologo tra i docenti (ce n’erano altri illustri e significativi: A. Ardigò, F. Caffè, F. Barbano), ma certamente egli era il più comunicativo, il più originale, il più ironico e spiazzante, un professore atipico, per quegli anni, attento alle “giovani menti” e preoccupato del loro futuro.

Max Weber e la teoria del potere, la leadership, la sociologia della religione, la teoria del “disincanto” e del mutamento della religione in una società moderna dominata dalla ragione, la secolarizzazione … sono stati gli argomenti di accesi dibattiti che ci hanno affascinato in quegli anni. In particolare per me sono stati significativi i temi e le discussioni sulla partecipazione, sulla democrazia e sul potere (la socializzazione del potere), che erano gli ambiti della mia ricerca e che lo sono stati ancora per molti anni. Soprattutto il tema della partecipazione applicata a tutti gli ambiti della società: istituzioni educative, politiche, partitiche e corpi intermedi.

Ricordo che mi mise in seria difficoltà, per la scelta di vita che avrebbe comportato, quando mi propose, forse provocatoriamente, di andare a Padova, per proseguire le mie ricerche con altri giovani della sua Facoltà, viste le mie ripetute critiche per la mancanza di strumenti adeguati per poterlo fare a Roma, sia all’ Istituto Sturzo che al FORMEZ. Negli anni successivi, in periodi di grandi difficoltà accademiche, ho sempre avuto il rimpianto di non avere accettato la sua proposta.

Era la prima volta che, in quegli anni, sentivo parlare dello studio della religione e del sacro con un approccio scientifico e sociologico. Nelle sue lezioni, nelle quali si sentiva il respiro internazionale, parlava con familiarità anche di autori stranieri, soprattutto statunitensi (oggi si ritiene che la dimensione internazionale nell’Università non sia mai esistita e che sia un’innovazione di oggi!). I metodi della sociologia, anche i più innovativi come la raccolta delle risposte a questionari attraverso “schede cartacee” i cui dati venivano poi inseriti in un computer grande quanto una stanza, venivano applicati al fenomeno religioso!

Si ragionava molto sulla “crisi del sacro” in quegli anni, mentre altri studiosi, sulla scia della teoria del “disincanto” del mondo weberiano e della Scuola di Francoforte, discutevano sulla “morte di Dio”. La sua definizione di “eclissi del sacro” non era certo da confondersi con il concetto di “fine della religione”. Ma, si sa, in quegli anni tutti parlavano della “morte di Dio” e cantavano “Dio è Morto”. Il mutamento culturale e sociale esigeva, secondo Sabino Acqaviva, una mutazione anche nella religione e ciò avrebbe portato ad una crisi temporanea (appunto eclissi), una trasformazione. Non a caso, infatti il sottotitolo del suo testo più noto recita: Una teoria del movimento generale di dissacrazione e una sintesi della pratica religiosa nel mondo. Ancora oggi alcuni studiosi attribuiscono, in maniera superficiale, la nozione di fine della religione al sociologo padovano. Questa interpretazione non corrispondeva al suo pensiero; ne era infastidito lui stesso. Più volte ha precisato questo concetto, sempre con mite ironia e un sorriso, sia in convegni che in qualche suo articolo.

Sono trascorsi molti anni da allora e non sono mancate le occasioni d’incontro, casuali. Interessi, passioni, scelte professionali e accademiche sono cambiati. I percorsi di vita, com’è noto, per ciascuno di noi, sono tortuosi, non lineari, con fughe in avanti e ritorni indietro, ma, se devo citare un “buon” maestro, che ho più volte ricordato negli anni successivi e ancora oggi, il mio pensiero va agli anni delle origini, nei quali tutto è iniziato. Tutto il resto è storia recente e, tutto sommato, più banale e prosaica.

 

Carmelina Chiara Canta

(Università Roma Tre)

  1. 12.2015

 

 

 

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