S. Stefano di Pallanza, una ferita non rimarginata

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Un anno fa pubblicammo alcune notizie relative alla piccola comunità di Santo Stefano (Pallanza) il cui cammino ecclesiale era stato contrastato e poi interrotto dall’autorità diocesana. Pubblicammo anche un articolo di uno dei suoi principali animatori in risposta al commento che alla notizia aveva dato, sul nostro sito, mons. Franco Agnesi, vescovo ausiliare della Chiesa ambrosiana. A un anno di distanza l’autore di quell’articolo è intervenuto di nuovo, chiedendosi come sia possibile assistere tutt’oggi a una simile pratica di anti-sinodalità e di clericalismo.

 

 

 

Dopo 18 mesi di pandemia, che aveva allo stesso tempo affaticato e rinnovato il nostrto cammino, la domenica 3 ottobre 2021, il direttore della Caritas diocesana ricevette l’incarico di notificare alla nostra comunità di S.Stefano, durante la celebrazione dell’eucaristia, la risposta del vescovo di Novara al quesito posto dal nuovo parroco (ancora non insediatosi) sull’uso di testi eucologici (colletta, preghiera offertoriale, prefazio, preghiera dopo la comunione) predisposti dalla nostra comunità. Da oltre 50 anni nelle nostre parrocchie si è fatto un grande lavoro per rinnovare il linguaggio liturgico rendendolo udibile e comprensibile alle donne e agli uomini di oggi. Il vescovo scriveva che  “non è consentito in alcun modo né al vescovo, né al sacerdote, né ai laici alterare o manomettere, tanto meno scrivere di nuovo, nessuna orazione e prefazio dell’eucologia (compreso l’Ordo Missae, il Credo e le Preghiere eucaristiche), poiché si tratta del cuore della preghiera liturgica, che non è nostra, ma della Chiesa madre…” e proseguiva affermando che gli spazi di creatività previsti sono altri, come quelli della preghiera dei fedeli.

Il teologo Andrea Grillo, docente di liturgia al S. Anselmo di Roma e a Padova, il 20 novembre 2021, ricordava al nostro vescovo teologo che, se la liturgia è un atto di Cristo e della Chiesa, insieme non è nostra ma è anche nostra, anche della chiesa presente capillarmente nel corpo ecclesiale, nel popolo tutto profetico, regale e sacerdotale… La messa è sempre anche nostra. Il rapporto con i testi non può essere solo di ripetizione… e affermare che “la messa non è nostra”, pur con tutta la sua parziale ragionevolezza, rischia di suonare singolarmente coerente con le forme più intolleranti di tradizionalismo ecclesiale.

E il fondatore di Bose, Enzo Bianchi, in un testo apparso su “Vita Pastorale” nel febbraio di quest’anno, scriveva: “Confesso che ho nostalgia di quelle celebrazioni postconciliari nelle quali ci si ritrovava attorno a un tavolo, nella semplicità di parole riscoperte nella tradizione, ispirate anche da una sobria e intelligente creatività, che facevano sentire che l’eucaristia è di Cristo, della Chiesa e dunque anche nostra! Perché l’eucaristia è azione del Signore e della Chiesa, nessuno ne è il padrone ma tutti i partecipanti ne sono i celebranti!” E indicava poi tre urgenze per l’eucaristia. Anzitutto una certa pluralità unita ad una creatività intelligente (“non si dica che oggi quest’ultima trova spazio nella preghiera dei fedeli: occorre ben altro!”). In secondo luogo spegnere il clericalismo nella liturgia: se l’eucaristia è azione comune occorrerebbero uomini e donne che intervengono nell’azione. Infine aprire cantieri di lavoro per l’elaborazione di un’eucologia che sia frutto della fede e dell’inculturazione del Vangelo nella nostra società”. Le tre urgenze indicate da Enzo Bianchi sono proprio quelle che hanno profondamente segnato il cammino della nostra piccola comunità, un cammino interrotto d’autorità un anno fa.

E ancor prima il fondatore di Bose scriveva su “la Repubblica” (6 dicembre 2021): “Il Papa chiede inclusione, ma poi alcuni vescovi chiudono esperienze parrocchiali di frontiera, paralizzano comunità che hanno aperto cammini di rinnovamento, chiedono di uniformarsi alle scelte pastorali diocesane, e finiscono addirittura per accusare di clericalismo chi semplicemente intende proseguire la ricerca per un autentico cammino sinodale”.

Dal giorno della notifica del vescovo ci è stato imposto anche di interrompere l’esperienza durata oltre dieci anni del prendere la parola durante la liturgia. Una persona della comunità, dopo la lettura del vangelo, e prima dell’omelia del prete, offriva un proprio contributo. Proprio il prendere la parola è stata l’esperienza che più ha fatto sentire le persone di essere davvero celebranti.

Il non sentirci più celebranti, ma solo spettatori o tuttalpiù usufruitori di un servizio è forse il frutto più amaro di quanto avvenuto. Da allora il prete di turno – spesso si sono alternati durante l’anno tre diversi presbiteri, ognuno evidentemente con la propria sensibilità e apertura – non ha più presieduto la celebrazione della comunità, non si è messo più nella postura di colui che è chiamato a far sì che la comunità celebri e partecipi, ma ha assunto soprattutto il ruolo del celebrante di fronte alla comunità. Il prete, nella situazione di oggi, gioca un ruolo determinante nel favorire o frenare il coinvolgimento dell’assemblea. Abbiamo cercato durante quest’anno di impedire l’azzeramento della nostra esperienza, inserendo nel foglio che predisponiamo per la celebrazione dell’eucaristia domenicale un breve commento scritto da  una persona della comunità e prendendo la parola durante la preghiera dei fedeli. Purtroppo tutto questo impegno si inserisce in un contesto generale che va in tutt’altra direzione, dato il ruolo preponderante del prete, da cui dipende in larga misura l’atmosfera che si respira durante la celebrazione.

È stupefacente o quanto meno singolare che la brusca frenata al nostro cammino ci sia stata imposta

proprio nel momento in cui la chiesa italiana promuoveva la prima fase di un cammino sinodale,

“un biennio di ascolto di ciò che lo Spirito dice alle chiese attraverso la consultazione del popolo di Dio nella maggiore ampiezza e capillarità possibile”, “coinvolgendo il più possibile anche persone che non sono e non si sentono “parte attiva” della comunità cristiana”.

Credo che sia difficile poter immaginare un’esperienza tanto  contraria alla sinodaltà, al camminare insieme, quanto quella che a noi è capitato di vivere. Come ben sappiamo lo stile sinodale non è qualcosa di marginale nella vita di una comunità cristiana. Come ha affermato papa Francesco “la sinodalità, il camminare insieme, è dimensione costitutiva della chiesa, è la via costitutiva della comunità cristiana”.

Come da prassi consolidata il parroco ci è stato assegnato senza alcuna forma di previa consultazione, paracadutato dall’alto. Ci ha poi impressionato non favorevolmente il fatto che, prima ancora di insediarsi, il nuovo parroco non solo non si è messo nella disposizione di un ascolto attento e prolungato del cammino fatto dalla nostra comunità, ma ha richiesto l’intervento dell’autorità per interrompere, con motivazioni discutibili come prima si è accennato, quel poderoso lavoro di aggiornamento delle preghiere liturgiche iniziato con passione da don Giacomini nei primissimi anni ‘70 e proseguito successivamente da don Giuseppe per essere infine raccolto rivisto e riproposto da noi finché è stato possibile. Inoltre si è provveduto ad allontanare qualunque prete che in qualsiasi forma avesse condiviso il nostro cammino, addirittura esonerando per telefono un prete novantenne dal presiedere le nostre eucaristie. E, come facilmente è comprensibile, senza la presenza di un prete che favorisca o perlomeno non ostacoli il cammino, nella chiesa istituzione si chiudono tutti gli spazi.

Rimangono aperti spazi di cammino comune fuori dalle chiese, nelle nostre case, anche col  ricorso, favorito dalla pandemia, alle tecnologie digitali. Sono strade che da tempo stiamo percorrendo.

Nell’incontro della nostra comunità con il nuovo parroco, del 25 ottobre 2021, durante il quale la ventina di persone presenti aveva illustrato con semplicità e passione l’importanza dell’esperienza fatta, dell’essere stati sollecitati a diventare protagonisti, a prendere tra le mani la parola di Dio contenuta nelle Scritture, a prendere la parola per offrire un proprio insostituibile contributo durante la celebrazione, ci è stato detto che l’esperienza fatta è stata molto bella, ma che non è più possibile continuarla durante la celebrazione dell’eucaristia, in cui solo al ministro ordinato sono permesse alcune funzioni. L’aver messo in evidenza che il nostro prendere la parola non sostituiva ma precedeva l’omelia e come tale non contrastava con le norme vigenti, non ha modificato la posizione, presumibilmente concordata a più alti livelli.

Ci stupisce infine che la lettera che ci ha imposto di interrompere una lunga storia di rinnovamento del linguaggio liturgico, dei testi eucologici, sia stata scritta da chi, prima della nomina episcopale, sottoscrisse nel 1989 la lettera di 63 teologi italiani indirizzata ai cristiani di fronte al disagio per le spinte regressive che attraversavano la chiesa cattolica.

E ancor più ci stupisce per quanto scriveva, nel 2010, l’allora preside  della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e vescovo ausiliare di Milano, a proposito delle eredità del concilio e cioè che “La prima eredità del Concilio è quella di una Chiesa che passa da una comunità del ‘sentir messa’ a una Chiesa ‘che celebra’.” (Franco Giulio Brambilla, Il Vaticano II, ‘bussola” per la chiesa, “Rivista del Clero Italiano” 6, 2010).

Sarebbe necessario un confronto aperto, ricco di ascolto e di parresia, sui grandi orientamenti che dovrebbero guidare il cammino di una comunità, sul modo di concepire la comunità e i ministeri (piramide rovesciata), sul persistente e inscalfibile clericalismo di preti e laici, sul modo di concepire e vivere la liturgia e la centralità delle Scritture, sul modo di concepire il rapporto tra comunità ecclesiale e la città in cui è inserita e di cui fa parte, per vivere e testimoniare l’essere con e per gli altri. Venti anni fa le nostre comunità avevano elaborato e approvato le “linee di progetto per una comunità cristiana”, nel solco dei grandi orientamenti conciliari, nella fedeltà al vangelo, in ascolto delle donne e degli uomini di oggi. E anche in seguito non abbiamo mai fatto mancare le nostre riflessioni. Don Giuseppe Masseroni, colui che ha presieduto le nostre celebrazioni eucaristiche per tanti anni, nel suo testamento letto durante la preghiera del funerale, scriveva: “c’è ancora oggi… una piccola comunità, sostenuta dalla parrocchia, che desidera portare avanti questi orientamenti. A questa comunità devo tanta riconoscenza e credo che saprà continuare con umiltà e con quella voglia di semplicità che ha saputo esprimere in tante esperienze”. Senza quel sostegno non è possibile la prosecuzione del cammino all’interno della chiesa istituzionale, ma solo ai margini.

Quanta amarezza per l’impotenza e quanta voglia, dove possibile, di andare avanti.

Ci è stata inferta una ferita, non rimarginata. Non è rimarginabile?

 

Giancarlo Martini

(il testo è uscito  in www.finesettimana.org del 15 ottobre 2022)

 

 

 

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