Reportage. La missione di pace in Israele e nei Territori palestinesi occupati

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La missione di pace in Israele e nei Territori palestinesi occupati – promossa dal Coordinamento  Enti locali per la pace e i diritti umani, svoltasi dal 27 ottobre al 3 novembre – aveva riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica una questione da lungo tempo scomparsa dall’agenda politica degli organismi internazionali. Ma già in quella settimana constatavamo un’ insostenibile pesantezza sfociata in questi giorni nell’ennesima tragedia della guerra tra Hamas (che governa la striscia di Gaza) e Israele.

Una missione composta da 212 persone di diversa provenienza regionale, di età e di professione, con una buona presenza di giovani (compreso un gruppo di studenti liceali di Parma).  Giorni intensi di incontri con persone, associazioni e villaggi, conclusasi con  la marcia per la pace nel deserto. Da Ramla a Haifa, a Sderot, da Bettlemme / Gerusalemme  a Ramallah, Hebron, Gerico e il mar Morto. Abbiamo parlato sia con personalità del mondo culturale e religioso (tra le quali il vescovo ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme Mons. William Shomali, la scrittrice Suad Amiry) sia con esponenti di associazioni di promozione sociale e con diverse famiglie palestinesi della Cisgiordania che vivono le difficoltà e le paure di una vita quotidiana sotto occupazione.

Ma prima di entrare nel merito delle tante questioni affrontate mi sembra utile ripassare le principali fasi della storia. Il 14 maggio 1948 la costituzione dello Stato d’Israele provocò la prima ondata di profughi: circa 700 mila palestinesi abbandonarono le loro case diretti verso i paesi arabi dai quali a loro volta partirono oltre mezzo milione di ebrei (in particolare sefarditi). Nel 1956  la nazionalizzazione del canale di Suez, ad opera di Nasser,  diede origine alla seconda guerra che si concluse con l’annessione israeliana della striscia di Gaza e della penisola del Sinai.  Nel 1967, la più breve guerra della storia, durata sei giorni, portò all’annessione della Cisgiordania. Ogni conflitto arabo-israeliano,  ha avuto serie conseguenze in tutti i paesi occidentali, pensiamo alla guerra del Kippur del 1973 (in Italia aumento del prezzo della benzina, provvedimenti di austerità, le domeniche senza auto). Chi si è adoperato per la pace è stato ucciso dagli estremisti del proprio fronte: l’egiziano Anwar Sadat nel 1981 dopo gli accordi di Camp David (l’Egitto riconosce lo Stato d’Israele e quest’ultimo si ritira dalla penisola del Sinai) e  Yitzhak Rabin nel 1995 dopo la firma degli accordi di Oslo (istituzione dell’Autorità nazionale palestinese, successivo ritiro nel 2005 dalla striscia di Gaza). Nel frattempo due rivolte (tra il 1987-93 e nel 2000), chiamate “Intifada” hanno insanguinato il paese.  In tutti gli incontri i palestinesi hanno sottolineato questa data, 1967, come l’inizio del peggioramento della loro situazione. Vediamo di che cosa si tratta. Con gli accordi di Oslo la Cisgiordania venne divisa in tre Aree, ma, secondo Ray Dolphin, responsabile OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari) in Cisgiordania i palestinesi controllano soltanto il 40% del territorio, il 18% è zona militare israeliana, addirittura a Betlemme si arriva al  33%.

Gli accordi di Oslo, nei fatti, non sono stati attuati perché Israele ha mantenuto l’occupazione dei territori e progressivamente ha proceduto alla politica di insediamenti di popolazione ebraica proveniente da diversi paesi: si tratta di vere e proprie città di migliaia di persone protette da una serie di barriere, ceck point e muri, dentro le quali è vietato accedere liberamente.  Molti anni fa Amos Oz nel suo libro “In terra di Israele” affermava che dal punto di vista ebraico quella dei coloni è una concezione integralista: una concezione che riduce l’ebraismo a religione, la religione a culto e il culto a un unico oggetto: l’integrità della Terra di Israele.  Nell’epoca della globalizzazione e della facilità di comunicazioni è davvero impressionante vedere tanti muri eretti, tanti impedimenti alla mobilità delle persone. Per spostarsi da una parte all’altra di una città, accompagnare i figli a scuola, recarsi al posto di lavoro, o coltivare i propri campi e raccogliere le olive, anche a distanza di pochi metri, occorre sottoporsi a una serie di controlli che mettono a dura prova la pazienza degli abitanti. Uno di questi muri è stato eretto in pieno centro di Betlemme: dove prima si poteva andare in bicicletta a Gerusalemme, oggi si deve attraversare un posto di blocco protetto da soldati armati. Eppure le famiglie incontrate hanno espresso il semplice desiderio di vivere in pace con tutti. Una mamma ci ha raccontato di aver detto al figlio di non rispondere con l’odio alle persecuzioni da lei subite; a un padre di famiglia, che vede costruire il muro davanti a casa, gli hanno offerto dei soldi per andare via e lui ha risposto “qui è la mia casa e la mia famiglia e qui voglio rimanere, non è questione di soldi ma di nazione”.  Negli insediamenti, secondo diverse fonti, abitano dai 400 ai 500 mila persone; nessuno ci ha saputo rispondere con precisione chi sono e da dove vengono. La mia impressione è che, negli ultimi decenni, sia profondamente cambiata la tipologia: non più i militanti dell’antico movimento sionista sorretti da ideali comunitari (kibbutz), oppure i gruppi nazionalisti religiosi che intendevano insediarsi nelle zone bibliche di Samaria e Giudea, ma anche migranti mossi dal desiderio di un luogo dove vivere e lavorare per migliorare, come tutti gli emigranti, la loro situazione. Non è un caso che tale flusso migratorio sia aumentato in seguito alla dissoluzione dell’Urss: un milione di persone (ultimamente sembra vi sia un processo di rientro perché è migliorata la condizione degli ebrei in Russia), un numero equivalente al primo decennio della costituzione dello Stato quando era forte il richiamo della “legge del ritorno” secondo la quale ogni ebreo aveva il diritto di stabilirsi in questo paese.

Tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza vivono quattro milioni di palestinesi mentre più di un milione vive in Israele e ha la cittadinanza israeliana, tra questi ci sono i cristiani. La diaspora dei palestinesi si estende in tre paesi principali: Giordania con oltre un milione e ottocentomila, Libano e Siria quattrocentomila ciascuno. A Gaza su 1.600.000 persone, circa il 70% sono considerati rifugiati. In uno dei tanti nostri viaggi, di ritorno da Ramallah (capitale della Cisgiordania) verso Bettlemme, siamo stati fermati  da soldati armati, fatti scendere dai pullman e costretti, uno per uno, ad attraversare il ceck point ed esibire il passaporto. Mi ha particolarmente amareggiato vedere l’indifferenza e l’automatismo di questi giovani soldati (maschi e femmine) nello svolgimento dei loro compiti di controllo, senza rendersi conto della sofferenza  inflitta ai viaggiatori. Se non hai un lavoro, afferma un giovane del villaggio, non hai neanche il permesso per spostarti e così i disoccupati o i precari devono rimanere reclusi nelle loro zone.

Il Medio oriente, ha detto Flavio Lotti, responsabile della missione di pace, è come uno specchio rotto, vedremo dei frammenti di verità che non devono essere assolutizzati. Infatti così è stato. La Palestina, racconta Mons. Shomali, che nel corso della sua vita  si è visto cambiare ben quattro passaporti, chiede di essere ammessa all’Onu per farsi riconoscere i confini del 1948 e noi palestinesi vogliamo soltanto difendere la verità storica. I paesi arabi vicini hanno sempre strumentalizzato politicamente la questione palestinese, recentemente il Qatar ha dato 500 milioni ad Hamas per la striscia di Gaza. Oggi, nel conflitto in atto, svolge un ruolo chiave l’Egitto governato dalla Fratellanza musulmana. I due principali gruppi politici palestinesi sono portatori di una diversa visione dell’Islam: Hamas è decisamente per la sharia (vuole imporre la legge islamica), mentre Al Fatah è più laico.  Le ultime elezioni amministrative, indette dall’Autorità palestinese, sono state boicottate da Hamas e perciò non si è votato alla striscia di Gaza. In Cisgiordania Al Fatah ha vinto in diversi comuni, ma ha diminuito notevolmente la propria influenza a favore di liste di dissidenti. Ha votato il 55% degli aventi diritto contro il 70% delle elezioni precedenti; tra la popolazione prevale la sfiducia e il pessimismo dovuti ai lunghi anni di occupazione. La notizia positiva viene invece da Bettlemme che, in un società marcatamente patriarcale, ha eletto sindaco una donna, Vera Baboun. Nell’intervista rilasciata a Francesco Cavalli, responsabile della comunicazione della missione, Vera Baboun ha spiegato che il suo obiettivo è quello di rilanciare, col coinvolgimento dei giovani, la coesione dei palestinesi, cristiani e musulmani. Commentando i risultati elettorali, il segretario Al Fatah Italia, Yousef Salman, ha dichiarato a un giornale  che occorre insistere per far nascere un governo d’unità nazionale con l’obiettivo di indire nuove elezioni politiche-parlamentari e presidenziali, dando la parola decisiva al popolo sovrano; solo allora potrà esserci la vera Festa della sperata Palestina libera, laica e democratica.

Sul versante israeliano, all’ingresso dell’aeroporto di Tel Aviv noto tante insegne pubblicitarie del whisky Chivas Rigal, presentato come il gusto dell’occidente!  La prima città visitata è stata Ramla (73mila abitanti, città dove è avvenuta l’esecuzione del nazista Adolf Eichmann) e il sindaco ha illustrato una situazione molto positiva sui rapporti tra le diverse confessioni religiose, per esempio la Chiesa cattolica,  la sera durante il ramadam, invita i musulmani a mangiare insieme. In città sono presenti numerose associazioni culturali composte da arabi e israeliani. In una scuola greco ortodossa il 60% degli scolari sono di origine musulmana. Il popolo israeliano, ha concluso il sindaco, soffre per le sofferenze dei palestinesi.  Ad Haifa, città di antiche tradizioni di tolleranza (città mista per definizione) è stato fondato il centro Mossawa che ha l’obiettivo di promuovere il dialogo e accogliere i gruppi palestinesi. Dall’esposizione della giovane ebrea che gestisce il Centro (ha appena 23 anni) rileviamo i seguenti dati: la popolazione araba rappresenta il 20% della popolazione, ma riceve meno del 6% del budget del bilancio statale; il 93% delle terre è di proprietà governativa; il tasso di natalità degli arabi è molto più elevato e gli israeliani lo considerano come una “bomba demografica”; il 50% delle famiglie arabe vive al di sotto della soglia di povertà; i testi scolastici, basati sulla cultura ebraica,  favoriscono di più l’apprendimento dei bambini ebrei che non quello dei bambini arabi che vivono in un contesto culturale diverso. In Israele prevale ancora l’ideologia dello stato di emergenza. I palestinesi non accedono al servizio militare, ma così partono svantaggiati nella ricerca di un lavoro perché viene favorito chi ha fatto i tre anni di militare. Anche se l’arabo è ufficialmente una lingua di stato, ovunque le comunicazioni cartellonistiche avvengono in ebraico e inglese.

Tra le recenti novità sociali sono da sottolineare i movimenti degli indignati israeliani, il “popolo delle tende” che l’estate scorsa, e anche quest’anno, sono scesi in piazza installando tende per protestare contro il caro affitti e a favore dei ceti più deboli; una classica manifestazione per la giustizia sociale, come avviene in altre parti del mondo (occupy wall street negli Usa, indignados spagnoli, referendum acqua pubblica in Italia). Grazie a queste lotte – afferma la giovane leader del movimento, Daphi Leef (intervistata dal mensile “Pagine ebraiche”) – oggi c’è una consapevolezza delle questioni sociali che non ha precedenti in Israele. Leef è stata definita dal quotidiano di lingua inglese “Haaretz”, tra le 100 personalità dell’anno. Se continueremo ad aspettare, ha scritto recentemente David Grossman,  accadrà una tragedia.

La disperazione e il senso di sconfitta  hanno una forza e una dinamica proprie che possono esplodere all’improvviso con enorme violenza.  E’ proprio ciò che sta avvenendo in questi giorni. Chi scrive è animato da uno spirito di fraternità nei confronti degli ebrei e capisce le motivazioni che hanno storicamente portato al desiderio di avere una nazione. Come noto, il sionismo (dal monte di Sion, colle di Gerusalemme) rifondò l’identità ebraica basandola sul concetto di nazione piuttosto che su quello di religione. Le persecuzioni subite nel corso della storia hanno fatto maturare un modo di essere e di agire particolari. La nascita dei kibbutz esprimeva bene l’ansia di rinnovamento spirituale e sociale e si muoveva nella prospettiva di un socialismo autogestionario. A tale riguardo la storia di vita di Ben Gurion costituiva un esempio per tutti. Ebreo, nato nel periodo dell’occupazione zarista in  una piccola città della Polonia (su ventimila abitanti, undicimila erano ebrei),  Ben Gurion diventa segretario generale del sindacato dei lavoratori ebrei (Histadrut) e leader del partito laburista fino a diventare capo del governo provvisorio quando venne costituito lo stato d’Israele. Comunque continuano a impressionare i tanti ebrei ultraortodossi (haredim) che abbiamo visto lunghe le strade delle città israeliane o al Muro del pianto. Secondo alcune stime, essi rappresenterebbero circa il 10% della popolazione, vivono in comunità separate  e influiscono sulle scelte del governo di destra di Benjamin Netanyahu. Gli haredim hanno famiglie numerose (in media 7 figli, rispetto alla media nazionale di 2,6 figli per coppia) e sono esentati dal servizio militare. Su quest’ultimo punto vi sono accese polemiche perché la Corte Suprema ritiene che contrasta con i principi di uguaglianza di tutti i cittadini. In un opuscolo di presentazione di Israele, diffuso in aeroporto, tra i fatti citati, come dimostrazione dell’unica vera democrazia esistente in Medio oriente, vengono elencati: la libertà delle coppie gay, la libertà delle donne (nel 1999 Rana Raslan, una donna araba israeliana, si aggiudicò il titolo di Miss Israele), la capacità d’assorbimento dell’immigrazione, la quantità del numero di nuovi libri letti, la numerosa presenza di musei e istituzioni culturali,  l’alta percentuale d’investimenti in ricerca e sviluppo, il record nella nascita di nuove aziende (una start up ogni 1.850 abitanti). Certamente le città israeliane, dal punto di vista della modernità occidentale, non sono confrontabili con quelle dei territori occupati: aspetto ordinato e pulito, grattacieli, scolarità elevata, alta tecnologia. Il punto di riferimento è l’Occidente, sono gli Stati Uniti e l’Europa, il tenore di vita è piuttosto elevato (Pil procapite  oltre i 26.000 dollari), vi è una presenza di scrittori tradotti e conosciuti in tutto il mondo (Grossman, Amos Oz, Abraham Yehoshua e altri). Gli scrittori arabi invece hanno difficoltà a diffondere le loro opere all’estero. Le città palestinesi sono più caotiche e meno curate, per esempio a fronte dei controlli esasperati da parte degli israeliani, a Bettlemme l’accesso dalla piccola porta della Chiesa della natività avviene in maniera disordinata senza il minimo controllo e nella piazza circostante parcheggiano le macchine, anche la pulizia nei villaggi lascia molto a desiderare.

Un caso ancora più particolare è rappresentato da Gerusalemme, la città santa delle tre religioni abramitiche. La parte vecchia (Gerusalemme est) è quella (a maggioranza palestinese) dei luoghi santi: dal Santo Sepolcro e la Via Dolorosa dei cristiani, al Muro del Pianto degli ebrei, alla Moschea dei musulmani, al quartiere armeno. Ma passeggiando nel lungo mercato/suq, tipicamente arabo,  intravvediamo balconi con la bandiera israeliana, quasi  a voler dimostrare che è una zona sotto controllo.  Per Israele la città di Gerusalemme è la capitale (eterna e indivisa) dello Stato, anche se tutte le sedi diplomatiche (eccetto quelle di tre piccoli paesi) sono stabilite a Tel Aviv. Vi sono inoltre forti pressioni dei gruppi religiosi conservatori affinché venga ricostruito, a qualsiasi prezzo, il tempio di Davide quale simbolo supremo dell’ebraicità. Interessanti le prese di posizioni degli ebrei democratici. In Italia in un recente manifesto essi esortano a riconoscere lo Stato democratico di Palestina come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due stati sulla base delle frontiere del 1967;  riconoscimento essenziale per la stessa sicurezza di Israele.  Analoga posizione viene espressa a livello europeo da parte di cittadini ebrei impegnati nella vita politica e sociale dei rispettivi paesi: qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità; il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto Stato. Per questa ragione, concludono i firmatari dell’appello, abbiamo deciso di mobilitarci perché ogni altra politica contraddice gli ideali del sionismo e il futuro del popolo di Israele.

Infine qualche considerazione sul ruolo della Chiesa cattolica. Nel 1904 Pio X, in risposta alle sollecitazioni di Herzl, affermava che “gli ebrei non hanno riconosciuto nostro Signore, perciò non possiamo riconoscere il popolo ebraico”, ma a partire dal Concilio Vaticano II (e in particolare con la dichiarazione “Nostra aetate”)  la Chiesa cambia definitivamente atteggiamento e riconosce il patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, Gesù è ebreo e lo è per sempre: il suo ministero si è volutamente limitato alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 15,24). Gesù è pienamente un uomo del suo tempo e del suo ambiente ebraico palestinese del I secolo, di cui ha condiviso gioie e speranze. Per la particolare situazione internazionale di Gerusalemme, Flavio Lotti, ha proposto che la sede dell’Onu venga spostata in questa città.

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