Note a margine di una campagna elettorale vissuta dal vivo

| 0 comments

Rabbia e Rito. Due fenomeni – in teoria incompatibili – mi sono apparsi subito evidenti e presenti insieme nei quaranta giorni in cui ho seguito la campagna elettorale di un candidato al consiglio regionale del Lazio.

Anche in chi condivideva idee e progetti, non solo del candidato che si trovava di fronte, ma dell’intera coalizione e del candidato alla presidenza che poi ha vinto con un gran successo (Nicola Zingaretti), la rabbia esplode lo stesso, a seguito della percezione di un tradimento dai molteplici aspetti. È la rabbia dell’elettore che chiede onestà e trasparenza, e del cittadino che ha poche risorse sue e vede clamorosamente e indegnamente sprecate quelle pubbliche. È la rabbia per le attese inevase di attivisti che vedevano il cambiamento della propria parte politica attuato solo in piccola parte, e della persona socialmente impegnata che fatica nel quotidiano e non accetta che ci siano privilegiati o garantiti a prescindere. La rabbia, insomma, che nasce da una precisa frustrazione: non ci sto più ad essere preso in giro. E dunque la voglia di esplodere per farsi sentire…

E allo stesso tempo il rito delle formule e degli eventi tradizionali in queste occasioni: l’incontro con il candidato, fatto di intervento di apertura, accenno ai programmi, escursione nei fatti quotidiani e della grande politica, riferimenti al già fatto e al da farsi; le domande dei presenti e le risposte più o meno precise; e poi il materiale elettorale, i veicoli della comunicazione (quelli di sempre: schede, volantini, depliant, “santini”; e quelli nuovi: web e social net), i chilometri e le mani strette, la fiducia mostrata e le promesse di voti da portare (in alcuni casi traditi dal millantato credito di chi ancora è convinto di “portare pacchetti di voti”). E quindi le strategie, gli accordi, gli staff, il moltiplicarsi degli incontri e il “fare il punto” per adeguare la macchina. Il tutto per conquistare, nella logica delle preferenze, quel voto in più di singoli e gruppi che possa far scattare l’elezione. Tutto come si è sempre fatto, con qualche elemento di novità e comunque con la costante ricerca della qualità.

È servito? Sì, ma solo in parte, visto l’esito elettorale del “mio” candidato, ahimè soddisfacente nel numero ma non nel risultato finale.

Le considerazioni che ho tratto, allora, sono queste.

Mi sembra che i due elementi descritti vadano a ruota di una ben nota coppia di fattori decisivi per qualsiasi fenomeno importante: movimento e istituzione.  Il primo è quella spinta propulsiva che nasce dall’emozione e dal trascinamento causato da ideali, desideri, sogni, intuizioni e, appunto, anche rivalse rabbiose, paure, voglia di riscatto. Un bene non ingabbiabile, ma determinante per lo stato nascente delle cose. Il secondo fattore è l’organizzazione pianificata, e sempre suscettibile di revisione, delle strategie, delle strutture, dei metodi e delle dinamiche. Fattore importante quando si vuole dare forma ai processi, ma spesso affossattore di quelle istanze.

In sedicesimi, in questa campagna elettorale mi pare di poter dire che ho verificato come, per ottenere il consenso, funzioni la compresenza di entrambi i fattori, cioè la capacità di convogliare le emozioni (sia pure corrosive) in canali efficaci di espressione del consenso e di motivazione delle proprie scelte.

Visto il risultato, soprattutto a livello nazionale, temo che in molti si siano dimenticati di questa (banale) verità. Non si deve fare l’errore di ritenere che solo il primo fattore sia capace di ottenere l’effetto voluto. Il classico parlare alla pancia prima che alla testa. Sarebbe grave pensare che, ormai, spiegare, proporre, motivare, ragionare e cercare di convincere siano fatica inutile. Si deve poter tradurre quella rabbia in opzioni distruttive di ciò che è negativo, se è questo il caso) e anche costruttive, in occasioni di confronto e di scambio, di partecipazione e di vissuto, di scelte e di contestazioni, di dibattito e di rendicontazione…

Solo che, a mio avviso, non lo si può fare solo nei cinquanta giorni che seguono “la chiamata alle urne”. In questo caso tutto appare falsamente preconfezionato, finalizzato ad un solo scopo: il voto. Bisogna farlo sempre, nelle sedi istituzionali e politiche, magari rinnovandole e adeguandole se è il caso.

È la grande occasione, questa, di rinnovare la sostanza e – perché no – anche la forma della nostra democrazia.

 

Lascia un commento

Required fields are marked *.