L’etica della cura: una nuova prospettiva.

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di Sandro Antoniazzi

Che cos’è l’etica della cura?

La parola cura ha molti significati.

Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.

La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).

Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.

Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.

Consideriamo alcune di queste situazioni.

Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.

Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).

E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.

Le ristrettezze dele risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.

Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.

Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.

Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).

Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.

L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.

Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).

Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.

Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.

Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.

Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.

Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?

Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.

E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.

La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.

Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.

Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.

E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?

Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.

 

Nascita e sviluppo dell’etica della cura

Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.

Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.

Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.

Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.

Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.

Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.

Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.

Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.

Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.

 

La cura in campo sociale

Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.

Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.

Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.

Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.

Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.

In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.

In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).

Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.

L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.

Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?

Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.

Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?

E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.

Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.

Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.

Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.

In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.

Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.

Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).

E si può aggiungere rispetto a Marx, e soprattutto alla tradizione marxista, non solo e non tanto per lo sfruttamento (concetto “economico” che indica la differenza tra il lavoro dell’operaio e il suo prodotto complessivo), ma prima e ancor più per l’oppressione, cioè per la condizione di dipendenza in cui si trova il lavoratore, che limita la sua libertà e dignità.

L’altra tesi fondamentale, sempre collegata all’interpretazione del lavoro intellettivo e affettivo come carattere dominante dell’economia attuale, è che ormai sarebbe difficile distinguere tra lavoro e vita; praticamente l’intera vita costituirebbe un contributo/partecipazione all’economia capitalistica.

Si può riconoscere un minimo di plausibilità a questa tesi, ma indubbiamente entro limiti ben più ristretti da quelli invasivi sostenuti da questi pensatori.

Prendiamo, ad esempio, un tipico lavoro moderno, quello effettuato al computer: molti di questi lavori sono ripetitivi e non vanno al di là dell’inserimento di dati, registrazioni standard, controlli predefiniti, invii periodici, ecc… In pratica, per molti versi, si presenta come un lavoro tayloristico, col computer invece della catena di montaggio.

Se ci sono lavori dove il contributo intellettivo e affettivo è rilevante questo va adeguatamente retribuito: ma in realtà le imprese lo sanno bene e retribuiscono in modo congruo questi lavoratori, spesso essenziali per la produzione aziendale.

Se la motivazione a giustificazione del Reddito di base, individuata nel contributo generale all’economia e alla società, si presenta debole, non mancano altre motivazioni a sostegno: il paese è ricco e dunque una parte della ricchezza può essere distribuita a tutti, il sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione non funziona più e quindi sono necessarie altre soluzioni, si favorirebbe l’eguaglianza, si consentirebbe maggiore libertà nella scelta del lavoro, ecc…

Non entriamo nel merito di tutte queste giustificazioni, che in genere tendono ad accumularsi tra loro, limitandoci a  sostenere che per quanto la proposta possa presentarsi allettante, incontra una difficoltà impeditiva al momento insuperabile, che è rappresentata dall’onere finanziario della misura.

Pur calcolando un’ipotesi bassa di reddito garantito – quantificabile in 500 euro mensili – si avrebbe una spesa annua di 360 miliardi (500 euro x 60 milioni di persona x 12 mesi), che rappresenta più della metà delle entrate previste dallo Stato per il 2023 (672 miliardi); spesa chiaramente insostenibile.

Peraltro, il paese sarà ricco a livello dei privati, ma non certamente a livello pubblico, perché come è noto lo Stato italiano ha un debito molto elevato (in Europa siamo secondi, superati solo dalla Grecia).

Sono proposte che vanno tenute presenti anche se al momento impraticabili, magari utilizzabili per soluzioni parziali e comunque da discutere bene, soprattutto per non perdere il valore del lavoro, di cui si deve certamente avere cura.

 

La cura del pianeta

Il termine “cura del pianeta” propone immediatamente uno scenario vastissimo cui corrisponde un ipotetico programma altrettanto smisurato.

Se alla base si esprime un’istanza etica indubbia, prevale però lo spessore politico della proposta: si tratta, si può ben dire, di cambiare il mondo e ciò chiama in causa tutti, le organizzazioni internazionali, i governi, le imprese, le singole persone.

Ognuno ha la sua responsabilità e il suo compito in quest’opera, ognuno non solo è utile, ma necessario, se si intende salvare il pianeta.

Naturalmente diverso è il contributo che si chiede alle persone da quello che si chiede alle istituzioni: alle persone si chiede di estendere la loro “cura” dalle persone all’ambiente in cui vivono; verso le istituzioni si svolge un’opera di pressione con documenti, manifestazioni, sit-in, proteste perché accolgano le raccomandazioni di intervento a favore dell’ambiente.

L’esempio e la forza che viene dalle esperienze di base è una condizione essenziale per essere credibili e per poter contare nei confronti delle istituzioni.

Ma non è mai facile per il singolo cittadino comprendere i grandi problemi a livello mondiale, spesso complessi anche tecnicamente; e poi gli Stati hanno tante posizioni diverse in base al loro grado di sviluppo economico dele loro risorse, della loro collocazione geopolitica.

A livello delle persone l’etica della cura dovrebbe preoccuparsi di formare una cultura (una coscienza) sui problemi ambientali, sapendo che per curare il pianeta sarà necessario modificare il nostro modello di vita facendo anche delle rinunce (come sta già avvenendo per l’energia e come già si sta programmando per l’auto o per l’acqua).

E significa anche aver presente che nel mondo esistono tante culture diverse, che vanno comprese e con cui bisogna dialogare, se effettivamente si ha a cuore l’intero pianeta.

Sui problemi ambientali, e più in generale sui temi in cui sono coinvolte le istituzioni, è preminente senza dubbio l’etica della giustizia.

Ora il confronto tra l’etica dominante e quella della cura diventa più stringente e più determinante, perché la cura ha molto da dire sulle decisioni che si assumono e sul modo di vedere i problemi.

Giustamente alcune associazioni di provenienza femminista e ambientalista parlano di “società della cura”, come una finalità a cui tendere nel proprio impegno: una società fatta di persone che si curano degli altri e dell’ambiente e una società dove le decisioni sulla vita comune sono prese insieme con cura.

L’etica della cura non ha un modello di società da proporre, anche la “società della cura” non è una forma di società definita; se tutti ci preoccupiamo, ci prendiamo cura, allora la vita di tutti e la convivenza certamente migliora.

 

 

Conclusione

L’etica della cura porta nel campo dell’etica una novità importante: invece di partire dal modello dell’essere umano perfetto, razionale, autosufficiente, prende come base l’essere umano reale, in quanto tale fragile vulnerabile.

Lo è particolarmente nella prima fase della vita e nella tarda età, ma lo è in tante altre occasioni della vita (malattie, separazioni, disoccupazione, perdita di persone care, ecc…); più profondamente l’essere umano è ontologicamente in una condizione di fragilità (basta pensare che è destinato a morire).

Abbiamo dunque bisogno delle relazioni, di ricevere e di dare cura: si diventa persone attraverso altre persone.

Dunque, la relazione, la cura, è parte sostanziale della nostra vita. Non dobbiamo crearla o inventarla, dobbiamo piuttosto viverla nel modo migliore.

Ogni giorno abbiamo rapporti, coi nostri familiari, coi vicini, coi compagni di lavoro: la cura parte da qui, perché non ci si può interessare della cura del pianeta e non curarsi di chi ci circonda.

Proprio per questo suo carattere vitale la cura deve essere valorizzata.

Il valore della cura non è economico: è un valore umano, morale, perché riguarda il valore che diamo alle persone e ai rapporti tra le persone.

Ciò vale anche per il lavoro di chi si occupa di cura: se la società ritiene importante la cura, anche il lavoro di cura sarà considerato e valutato.

Dare scarso valore alla cura significa relegare alla marginalità il lavoro sociale.

La cura non è un’attività tranquilla, non è una panacea, è fondamentalmente conflittuale.

La logica della nostra società, ma anche delle persone, di tutti noi che ne siamo immersi è una logica economica, del guadagno, del profitto; la logica della cura è una logica alternativa a quella dominante: non nega la realtà economica, ma sostiene che le persone e le loro relazioni vengono prima, devono prevalere.

L’etica della cura, dunque, propone un modo di vita che, a partire dalle relazioni di prossimità, possa incidere su un cambiamento più grande, che idealmente interessi l’intera società.

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