Le stazioni della libertà di Dietrich Bonhoeffer

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Tra le iniziative di questi giorni per continuare a “incontrarsi” e a nutrirsi sul piano culturale, va segnalata, nel nostro ambiente, quella che la Rosa Bianca, insieme alla rivista Il Margine e alla sezione di Milano del Segretariato Attività Ecumeniche, hanno realizzato per ricordare il 75° anniversario dell’uccisione di Dietrich Bonhoeffer. La piattaforma online GoToMeeting ha consentito a ben 150 persone (il numero massimo; ma sono stati di più quelli che, giovedì 9 aprile, hanno cercato di collegarsi) di potersi “incontrare” sullo schermo del proprio pc o del tablet, e di ascoltare e dibattere le concise ma dense riflessioni offerte da Fulvio Ferrario, docente di teologia presso la Facoltà Valdese a Roma, e da Alberto Conci, insegnante e studioso dell’opera del teologo ucciso nel campo di concentramento di Flossenburg nel 1945. La Rosa Bianca, nel suo sito, ha messo, prima dell’incontro (perché un vero incontro è stato: si vedevano sullo schermo i riquadrini di tutti i partecipanti…), una ricca serie di materiali, anche video, molto utili per chi volesse riandare ad alcune delle pagine del grande teologo o seguire le videoregistrazioni di alcuni seminari a lui dedicati. E di questo va ringraziato Fabio Ceneri, presidente della Rosa Bianca e organizzatore dell’incontro. Qui si vuole soltanto dare un rapido schizzo di quanto ascoltato in questa ultima commemorazione, così particolare per il tempo che stiamo vivendo e anche per la settimana di Pasqua in cui si è tenuta.

Fulvio Ferrario ha tratteggiato il profilo di Bonhoeffer seguendo la traccia di una sua celebre poesia, contenuta in Resistenza e resa; una delle opere più note, che contiene lettere e appunti dal carcere, edita in Italia da Bompiani nel 1969. La poesia si chiama “Le stazioni della libertà”. Quattro le tappe di questo cammino lungo la via della libertà. La prima è la disciplina, che potrebbe sembrare un elemento antitetico alla libertà, ma Bonhoeffer dice: “Se parti alla ricerca della libertà, impara anzitutto /disciplina dei sensi e dell’anima, affinché i desideri / e le membra non ti portino a caso qua e là (…)”. Chi non è casto, è dispersivo, ha chiosato Ferrario. Sono gli anni giovanili, che vanno dal 1920 al ’30-35, del suo dottorato e poi del suo servizio pastorale come pastore in Spagna, poi negli Usa e, dopo ancora, del suo insegnamento presso l’Università di Berlino. Sono anni in cui egli è a volte tentato dalla depressione, dalla preoccupazione di non lasciarsi andare… “Vorrei imparare a credere”, diceva. E, per imparare, capiva che era necessaria la disciplina della preghiera, perché pregare non è un fatto spontaneo, lo si deve apprendere. Sono gli anni in cui scrive Sequela, una riflessione su cosa significhi essere discepoli di Cristo.

Seconda tappa sul cammino della libertà è l’azione: “Fare e osare non il qualsiasi, ma il giusto, / non ondeggiare nel possibile, afferrare arditi il reale, / la libertà non è nei pensieri fuggenti, ma nell’azione soltanto (…)”. Qui a parlare – dice Ferrario – è il Bonhoeffer congiurato. Siamo nel ’33, Hitler è andato al potere, Bonhoeffer capisce subito che si tratta dell’inizio di una tragedia; supera l’indecisione – l’eterna indecisione tipica degli uomini di chiesa e dei cristiani, dice Ferrario – e entra nelle file dell’opposizione segreta al regime nazista. Per lui Gesù è l’uomo responsabile, che affronta la realtà. E, per l’uomo responsabile, la domanda chiave non è “come ne esco con le mani pulite”, ma “che ne sarà delle generazioni future”. Terza tappa: la sofferenza: “Mirabile metamorfosi. Le tue forti, attive mani / sono legate. Solitario, impotente vedi la fine / della tua azione (…) / Per un istante, felice, la libertà hai sfiorato, / poi a Dio l’hai rimessa, che le desse perfetta pienezza”. L’azione, dunque, commenta Ferrario, non ha in sé il proprio compimento. L’essere umano non è padrone della propria azione. Bonhoeffer era legato alla vita, voleva sposarsi, comprare un clavicembalo, avere una vita piena, concreta, ma la sua lucidità spirituale gli ha consentito di vedere il limite di questo suo desiderio, e di consegnarlo a Dio; perché è Dio il compimento del desiderio; e, alla fine, la libertà la si può solo ricevere… Quando fallisce l’attentato a Hitler (Bonhoeffer era già in carcere da più di un anno), e viene scoperto l’archivio con tutta la documentazione della cospirazione che era stata condotta, per lui è la fine. La quarta e ultima tappa è la morte: “Vieni, festa suprema sulla via della libertà eterna, / morte (…) / Libertà, ti cercammo a lungo nella disciplina, nell’azione, nel dolore. / Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio”. Le sue ultime parole in carcere, dette a un amico di cella, sono: “E’ la fine. Per me è l’inizio della vita”. Alla fine, dice Ferrario, né la disciplina né l’azione lo possono più accompagnare, e la sofferenza è arrivata al suo fondo; l’ultima parola è il volto di Dio stesso.

Alberto Conci entra più nel vivo dell’esistenza di Bonhoeffer. Ne ricorda la sua forte proiezione verso il futuro: quando, già all’inizio degli anni ’30, si chiedeva: “Che cosa ne sarà del cristianesimo?”. Era sempre con il pensiero più avanti dei suoi amici e colleghi; e questo lo rendeva a volte poco compreso. Hitler va al potere il 31 gennaio del 1933 e Bonhoeffer, che ha in programma una conferenza radiofonica il 1° febbraio, già mette in guardia osservando che se il capo “permette al seguace che questi faccia di lui il suo idolo, allora la figura del capo si trasforma in quella di corruttore… Il capo e la funzione che divinizzano sé stessi scherniscono Dio”.  Un mese dopo, in una predicazione, dirà che c’è solo un altare e che, di fronte a questo, anche l’uomo più potente non è altro che polvere. Bonhoeffer fu un pacifista radicale, dice Conci. Più dello stesso Gandhi (che a lungo cercò di incontrare, senza riuscirci). E fu, questo, uno dei motivi di dissenso con la sua chiesa. Conci ha ricordato alcuni momenti difficili di Bonhoeffer, il quale è arrivato a pensare al suicidio, ma poi, sempre, in lui si è ridestata, forte,  la speranza. Nel Natale del 1942 scrive: “Io credo che Dio può e vuole far nascere il bene da ogni cosa, anche dalla più malvagia. Per questo egli abbisogna di uomini che si pongono al servizio di ogni cosa per volgerla al bene. Io credo che Dio in ogni situazione difficile ci concederà tanta forza di resistenza quanta ne avremo bisogno. Egli però non la concede in anticipo, affinché ci abbandoniamo interamente in lui e non in noi stessi” (sono le pagine di “Dieci anni dopo”, in Resistenza e resa). La speranza, ma anche l’inquietudine. Di qui i suoi spostamenti, prima a Londra poi negli Stati Uniti. Sul pessimismo però prevalse ogni volta l’ottimismo. Essere ottimisti, per Bonhoeffer – spiega Conci -, significava avere la forza di sopportare gli insuccessi; significava avere volontà di futuro. Dell’ottimismo, diceva che è la salute della vita.

Impossibile qui riferire il dibattito che poi è seguito, incentrato soprattutto sulla difficoltà a tenere insieme il pacifismo radicale di Bonhoeffer, da un lato, e la sua adesione alla congiura per uccidere Hitler, dall’altra. Qui Alberto Conci ha detto delle cose molto belle, osservando che Bonhoeffer riteneva che a volte bisognasse fare delle scelte che lui chiamava “mortificanti”, bisognava cioè assumersi la responsabilità anche della colpa. Un pacifismo che avesse lasciato al loro destino le vittime della violenza nazista sarebbe stato un tradimento.

Nel concludere l’incontro (dopo due ore, c’erano ancora più di cento persone “collegate”), Fulvio Ferrario ha detto di aver ripreso in mano, in questo periodo di mille paure, alcune pagine della Cristologia di Bonhoeffer, quelle in cui scrive: “Può darsi che domani sia l’alba dell’ultimo giorno; allora, e non prima, noi interromperemo volentieri i nostri sforzi…”. Non siamo noi che decidiamo, no – ha commentato Ferrario. Ma a noi, però, è chiesto di resistere fino all’ultimo.

 

Giampiero Forcesi

 

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  1. bellissimo! Complimenti e grazie
    Angelo Bertani

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