L’ambiguo fascino del (semi)presidenzialismo

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L’autore è Professore associato in Istituzioni di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Economia dell’Università di Milano Bicocca. Membro del Comitato nazionale “Salviamo la Costituzione”. Vice-Presidente dell’Associazione “Città dell’Uomo”.

 

Bene ha fatto Angelo Bertani a richiamare la priorità, sempre procrastinata, della riforma dei partiti, in attuazione dell’art. 49 della Costituzione e nella direzione della loro democratizzazione interna. Il dibattito sulle riforme istituzionali è, solo apparentemente, un tema distante da questo. E ciò per più motivi. Intanto osservo un’ambiguità di fondo che grava su questa fase “costituente”: la classe politica, rivelatasi (sin qui) incapace di modificare la legge elettorale (che è una legge ordinaria) e di trovare convergenze sulla Presidenza della Repubblica (tanto da rituffarsi – come soluzione tampone – tra le braccia “paterne” e “provvidenziali” di Napolitano), tenta ora, con questa avventura costituente, di guadagnarsi una ri-legittimazione senza rinnovamento, provando ancora una volta a riversare sulle regole – dopo quelle elettorali, ora la Costituzione – la responsabilità della propria impotenza.

Come ha osservato criticamente Franco Monaco in alcuni suoi recenti articoli, la soluzione del semipresidenzialismo, su cui si registra una convergenza crescente di consensi (da ultimo, perfino Romano Prodi), appare da un lato il tentativo di ratificare un’evoluzione che si pensa compiuta nei fatti (con il ruolo “indirizzante” svolto da Napolitano nelle ultime crisi di Governo); dall’altro di perseguire un miglioramento dell’efficienza istituzionale e una integrazione del sistema politico, segnato dalla debolezza e dall’inconsistenza dei partiti, per via leaderistica.

La soluzione non mi convince. Anzi tutto perché essa rivela, sin dalla sua formulazione, il limite di un forte condizionamento congiunturale, mai opportuno quando si parla di Costituzione. La difficoltà del sistema partitico di eleggere il successore di Napolitano non può diventare argomento per sveltire una riforma di così largo impatto. La “leggerezza” dei processi riformatori è – ahimè – attestata anche dall’oscillazione repentina del PD la cui direzione nazionale – ce lo ricorda di nuovo Monaco -, non più tardi di un anno fa, aveva respinto tale opzione semipresidenziale.

E poi, nel merito, quale modello leaderistico si persegue? Il presidenzialismo americano si iscrive entro una logica complessiva, assai rigorosa di bilanciamento dei poteri, non certo in quella frettolosa della concentrazione del potere decisionale in capo all’organo di governo. La cultura politica e giuridica impressa nella Costituzione degli Stati Uniti è così incline a diffidare del potere, nelle sue diverse manifestazioni, da non aver mai fatto attecchire il mito del legislatore (o rappresentante) buono, perché espressivo della volontà generale; essa dunque accosta all’organo parlamentare un Presidente della Repubblica che vanti la medesima legittimazione democratica diretta del Congresso, così che l’un potere bilanci l’altro. Al di fuori di questa logica di bilanciamento dei poteri, rischia di profilarsi un’ambigua concrezione di decisionismo in salsa sudamericana. Basti osservare l’attacco, spesso sguaiato, che la nostra classe politica, soprattutto in talune espressioni, riserva alle garanzie (magistratura, Corte costituzionale, …) e ai contro-poteri per disilludersi sul radicamento – nel nostro contesto – di una cultura liberale analoga a quella che ispira il costituzionalismo nord-americano.

La fascinazione – anche da sinistra – riguarda però soprattutto il modello francese di tipo semipresidenziale, con Presidente della Repubblica eletto direttamente, ma chiamato a incarnare l’interesse generale, non l’indirizzo politico di un partito. Tale modello, recante sin dalla sua formulazione, la forte impronta del Generale De Gaulle (che arrivò alla Quinta Repubblica con una rottura costituzionale), si distanzia da quello presidenzialistico americano in quanto non si vuole fare del Presidente un leader “partigiano”, esponente di un indirizzo politico temporaneamente maggioritario, bensì l’interprete autorevole e forte dell’interesse generale della nazione, il garante supremo della continuità statale. Di fronte a questa proposta, la mia perplessità nasce soprattutto dal dubbio che un simile modello possa funzionare – pur non senza contestazioni e limiti – in un Paese, come la Francia, da secoli segnato (nel bene e nel male) da un vivo senso delle istituzioni repubblicane, al confine col nazionalismo, che permette anche ai cittadini un’identificazione forte. Questa orgogliosa idea repubblicana è palesemente carente in un Paese, come il nostro, che fatica perfino a fondare e mantenere un dignitoso senso di ciò che è pubblico, comune… La mia paura è che, nelle nostre condizioni, il Presidente della Repubblica, direttamente eletto, non sarebbe un autorevole garante dell’interesse generale, al di sopra delle fazioni litigiose, ma un decisore solitario cui la legittimazione popolare immediata rischierebbe di conferire una pericolosa vertigine di onnipotenza…

 

 

Filippo Pizzolato

 

 

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  1. Nel metodo anch’io leggo questa deroga al 138 come una forzatura. E nel merito in me prevale il dubbio che non basti un Sindaco d’Italia per ricostruire il nostro complesso Paese. Siamo già vittime di una eccessiva personalizzazione della politica. Una personalizzazione ben lungi, nel nostro Paese, dall’essere mera evidenza di modernità post ideologica. Magari fosse stato così.
    Una politica inconsistente, un Paese fermo nel suo sviluppo e pieno di ingiustizie rappresentano a mio giudizio l’effetto anche di una nostra patologia cronica, la tendenza appunto alla personalizzazione della politica. Il “per cosa”, i programmi di cambiamento, restano in ombra rispetto alle appartenenze. Prevalgono categorie impolitiche come vittoria e sconfitta (anche nello sport, per chi lo conosce, i loro confini sono indistinti, e la politica è invece essenzialmente proposta, indipendentemente dai ruoli), o appunto logiche di schieramento ( appartenere a …), e poi Berlusconi vs Bersani, Bersani vs Renzi e via dicendo: tutto questo ha finito in troppi casi per indebolire proprio la politica, confondendo il “con chi” con il “per cosa”. Patologia cronica, s’intende, quasi congenita alla nostra democrazia, cui si associa una crisi gravissima del ruolo e dei comportamenti dei partiti, certamente non estranea alle basse percentuali di voto nelle ultime elezioni anche locali. Molti non ci credono più.
    Certo, la strada della riforma ex art. 49 dei partiti, e prima della politica è ardua e faticosa, ma è ineludibile. Sembra più semplice una procedura che porti, comunque, ad una decisione. Ma non convince.
    Siamo veramente capaci, oggi, di ragionare ed operare in termini di interesse generale, di bene comune? Vi sono in campo grandi progetti di cambiamento che ormai da decenni il nostro Paese non vede? Davvero non si capisce (e non viene spiegato compiutamente) come, al momento attuale, un cambiamento costituzionale consentirebbe, esso solo e dopo decenni di scontri e divisioni, di ottenere la qualità e la capacità della decisione. La questione mi sembra molto più complessa, a partire dalla riforma dei partiti, da un profondo rinnovamento della politica (dentro e fuori ai partiti ) e della legge elettorale. Complessa ma non irrealizzabile.

  2. Gli interrogativi e le osservazioni di Filippo Pizzolato sono più che fondate. Però ritengo che il problema sia nato rovesciato, cioè dalla questione elettorale. Poichè anche il Mattarellum non risolverebbe il problema della governabilità, si pensa alla soluzione francese per le elezioni (che poi trascina il semipresidenzialismo).
    Sono d’accordo su quanto scritto; però il problema elettorale rimane aperto. E diciamo chiaro che finora tutti quelli che sono scontenti del governo di larghe intese non hanno deto una parola su come risolvere il problema.

  3. Gentile professore, qualche obiezione:
    1. “riversare sulle regole… la responsabilità della propria impotenza” Ma, scusi, un sistema elettorale che eviti, ad esempio con doppio turno e ballottaggio, la distribuzione dei seggi al 33% a testa, le sembra irrilevante? Come si fa a separare “impotenza” dei partiti e regole istituzionali? L’impotenza si esplica nell’ambito di determinate regole.
    2. “…perseguire un miglioramento dell’efficienza istituzionale…per via leaderistica”. Analisi, mi sembra, troppo tranchant: non c’è un solo modo di essere leader, e d’altro canto ci può anche essere un gruppo (e non un leader singolo) dirigente che decide stando nella torre d’avorio (ad es. i dirigenti del PD quando decidono la candidatura Marini senza consultare i gruppi parlamentari).
    3. Il “forte condizionamento congiunturale”: ma veramente la ricerca di un “miglioramento dell’efficienza istituzionale” mi sembra datare da solo una cinquantina d’anni! Forse basta confrontare la durata media dei governi della repubblica e quella delle amministrazioni comunali da quando c’è l’elezione diretta del sindaco.
    4. L’analisi del sistema semipresidenziale francese mi sembra singolare: Sarkozy o Hollande garanti “dell’interesse generale, al di sopra delle fazioni litigiose”? Mah.

  4. …nel merito: il sistema semipresidenziale nasce con lo spirito che ho sintetizzato (rinvio alla ricostruzione, non certo ostile, contenuta nei saggi in Pasquino-Ventura, 2010), conoscendo successivamente un’evoluzione nella direzione di caricare politicamente il ruolo del Presidente… Tale evoluzione ha peraltro posto anche in Francia una serie di problemi, a mio avviso tutt’altro che definitivamente risolti, sulla commistione, in capo al Presidente, di funzioni di garanzia e di governo. Correzioni pesanti sono state introdotte in questa direzione, ma rimane, a mio avviso, il problema di equilibrare potere e responsabilità (che ricade sul fusibile…) del PdR.
    Come la mettiamo in Italia con le funzioni di garanzia attribuite al Presidente della Repubblica? A chi attribuirle? Io credo che, comunque, sia un errore privarsi, sul versante della politica, di organi di garanzia istituzionale. Forse che il prestigio di Napolitano (e dei suoi predecessori) non è dipeso in questi anni dalla sua natura e condotta super partes?
    E poi, più in generale, io credo che la soluzione semipresidenziale aggravi la tendenza, sin troppo presente nel rapporto tra società e politica, alla “disintermediazione”. Non essendo più in grado di tessere trame di raccordo con il sistema politico, attraverso le istituzioni del pluralismo e le indebolite formazioni sociali, ci si affida a processi di identificazione personale che però, per loro natura, sono divisivi e marginalizzano l’idea della mediazione. La nostra Costituzione esprime, mi pare, una cultura diversa, nei principi fondamentali e nei diritti/doveri, che non vedo facilmente armonizzabile con qualsiasi esercizio di riformismo sulla seconda parte.
    E tralascio il problemino del rassicurante profilo degli aspiranti leaders…

    • Gentile Pizzolato, ovviamente anch’io condivido i vari motivi di perplessità che ci possono essere di fronte al modello semi presidenziale. Semplicemente le argomentazioni politiche di un Prodi o quelle giuridiche di un Ceccanti mi sembrano tutto sommato, e non senza dubbi, più cogenti.
      C’è comunque almeno un punto nella sua gentile risposta che varrebbe la pena approfondire, là dove si parla di “mediazione”. Conosco il dibattito interno ai cattolici (quorum ego) tra cultura della mediazione politico-culturale e cultura intransigente (dei “valori non negoziabili” e simili), e personalmente non sto certo da quest’ultima parte. Però nei sessant’anni della repubblica che ci sta a cuore ci sono anche state “mediazioni” (di altro tipo rispetto alla precedente) che vanno nel senso della confusione.
      Mi spiego per brevità con un duplice esempio molto rudimentale ma molto espressivo: chi deve esprimere un giudizio sulle responsabilità di medio periodo delle attuali storture finanziarie non può avere dubbi: la deregulation dell’amministrazione Reagan anni ’90. Chi invece vuol esprimere analogo giudizio sulle responsabilità dell’accumulo del debito pubblico italiano si trova in un ginepraio di governi insediati e sfiduciati e di corresponsabilità sindacali e via elencando. In questo caso “mediazione” assomiglia troppo a confusione e a deresponsabilizzazione e, detto in una parola, fa a pugni secondo me con una “concezione cristiana dell’uomo e del mondo” (per citare lo statuto dell’associazione di cui lei è vicepresidente).
      Se “divisivo” volesse dire assunzione di responsabilità e più chiara divisione dei ruoli tra maggioranza ed opposizione nella comune costruzione del bene comune, non vedo dove stia il problema.

  5. Forse, caro Pizzolato, stiamo sottovalutando …l’ambiguo fascino del sempipresidenzialismo. C’è forse dell’altro che trascende la seduzione. E che ri-forma i nostri legami sociali. Si può o non si può essere d’accordo sulla formula. Ma su una cosa dobbiamo iniziare a riflettere. L’impronta del semipresidenzialismo non è neutrale. Essa si ripercuote sull’antropologia della polis. E cioè sulla concezione dell’uomo nel suo stare insieme agli altri uomini. E dunque sull’etica dello spazio pubblico. Quando un patto della storia politica basato sulla comunità di persone; sul collettivo che decide -spesso faticosamente; sulla mediazione; sulla natura relazionale e solidale della persona; sulla stessa dialettica sociale si riforma, e al suo posto subentra l’individuo decisore solitario ritenuto prioritario sull’insieme e sulle istituzioni, non si ri-formano solo delle regole. Ma si propone una visione del bene comune non più sforzo collettivo, ma risultato di azioni individuali che evoca in molti modi la filosofia neoliberista dell’individuo motore del mondo e del mercato. Questo io credo si nasconda dietro la formula del semipresidenzialismo se non saranno garantiti attraverso opportuni bilanciamenti, i diversi poteri comunitari della nostra democrazia politica. Nino Labate

    • Che ci vogliano “opportuni bilanciamenti” nessuno credo lo metta in dubbio. Devo rilevare però che la descrizione che lei fa de “L’impronta del semipresidenzialismo” è caricaturale, non ha riscontro nella realtà, e sarei curioso di vedere quali ne siano le pezze d’appoggio. Perché mai una struttura come quella dello stato francese dovrebbe contrapporsi alla “natura relazionale e solidale della persona” e dovrebbe evocare “la filosofia neoliberista dell’individuo motore del mondo e del mercato”? E lo stato tedesco – che ha una struttura diversa – evoca forse una filosofia socialista? Cordiali saluti

  6. Suvvia, Nino, tutte quelle sovrastrutture contro uno schema istituzionale argomentato da Maritain fin dal 1943 non stanno in piedi…Alla fine gli argomenti contrari su riducono a varianti del complesso del tiranno..

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