La questione cittadinanza e l’inutile battaglia del latinetto

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L’autore è avvocato, esperto di diritto antidiscriminatorio, presidente della onlus “Avvocati per niente”, e redattore della rivista “Appunti di cultura e di politica”

 

 Ci sono volute alcune settimane, dopo le prime aperture del Ministro Kyenge sul tema della cittadinanza, per smetterla di usare il latinetto come clava ideologica e cominciare a ragionare su qualche contenuto. Ma il passaggio non è stato affatto semplice se persino una persona avveduta come il presidente del Senato si è fatto trascinare nella bagarre sentendosi in dovere di mettere in guardia contro il rischio che lo ius soli scateni l’arrivo di orde di donne straniere pronte a partorire non appena uscite dall’aeroporto, al solo fine di garantirsi che il primo vagito sia quello di un italiano ad ogni effetto.

Con tutto il rispetto per l’alta carica, simili allarmi sono davvero poco comprensibili, come poco comprensibile è la contrapposizione radicale tra i due criteri di attribuzione della cittadinanza che, enunciati in modo schematico, sono poco o nulla significativi.

Anche i meno esperti della materia sanno infatti che persino nel nostro sgangherato sistema esiste una sorta di ius soli: lo straniero che è nato in Italia e vi ha soggiornato continuativamente acquista la cittadinanza (e trattasi di diritto soggettivo vero e proprio, senza possibilità di valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione) presentando una domanda entro 12 mesi dal  compimento del diciottesimo anno.

Le controindicazioni di tale sistema – contenuto nella L. 91/92 – sono evidenti a tutti: il termine di decadenza per la domanda è troppo breve e molti stranieri non la presentano, perdendo cosi definitivamente tale opportunità; il periodo di permanenza continuativa richiesto è troppo lungo;  il requisito della “residenza legale senza interruzioni” per 18 anni apre infiniti contenziosi relativi a eventuali brevi allontanamenti o a situazioni temporaneamente irregolari dei genitori (pensiamo alle centinaia di migliaia di stranieri destinatari delle varie sanatorie il cui figlio è nato prima della regolarizzazione).

Dunque un sistema di labilissimo ius soli cervellotico e irrazionale, che infatti non vige in nessun altro  paese europeo.

All’estremo opposto ci sta appunto la “partoriente aeroportuale”, altro sistema che nessun paese europeo (e forse nessun paese al mondo) ha mai adottato e che nessuno in Italia ha mai proposto: quanti paventano le invasioni ne prendano dunque buona nota e la smettano di agitare fantasmi.

Si tratta quindi di deporre le armi nella battaglia del latinetto e di capire quali requisiti possono essere affiancati a quello della nascita in Italia per garantire che l’evento non sia casuale, ma si inserisca almeno tendenzialmente in un progetto di radicamento all’interno della comunità nazionale.

Le alternative sono diverse e – a conferma di quanto sia assurda la contrapposizione delle formule – sono in parte compatibili l’una con l’altra.

 

  1. Le possibili soluzioni per la cittadinanza delle seconde generazioni

Una prima ipotesi è quella di tenere come riferimento la condizione dell’interessato (cioè del nato in Italia) e di riconoscergli la cittadinanza automaticamente (o mediante semplice dichiarazione)  condizionando l’attribuzione soltanto alla durata della residenza nel paese: ad es. in Francia il nato nel paese acquisisce la cittadinanza automaticamente a 16 o 18 anni alla sola condizione di aver risieduto nel paese per 5 anni, anche discontinui; nel Regno Unito la acquisisce a condizione che vi abbia soggiornato per almeno 10 anni; mentre in Spagna basta un anno di residenza e l’opzione può essere formulata, per conto del minore, dai genitori, a qualunque età.

Una seconda strada è invece quella di spostare il riferimento sulla condizione dei genitori: in questa ipotesi sarebbe cittadino italiano per nascita colui che nasce nel territorio della Repubblica da genitori stranieri dei quali uno sia legalmente soggiornante da un determinato periodo.

Quest’ultima è la scelta fatta dal progetto di legge di iniziativa popolare lanciato dalla campagna “Italia sono anch’io” (che la presidente Boldrini si è recentemente impegnata a far calendarizzare per l’esame parlamentare) che fa riferimento al soggiorno legale dei genitori per almeno un anno.

Naturalmente, di questo termine minimo si potrà discutere. La  Germania, ad esempio, richiede ai genitori 8 anni di residenza legale e il diritto di soggiorno permanente, mentre il Regno Unito richiede un permesso di soggiorno a tempo indeterminato (che in Europa si acquisisce, in forza della direttiva 2003/109,  dopo 5 anni di residenza).

Al requisito della durata di soggiorno dei genitori  – che resta probabilmente quello più opportuno – altri se ne possono e debbono affiancare, sempre con riferimento ai minori. Ragionevole appare ad esempio prevedere una sorta di “ius sanguinis sopravvenuto”,  nel senso che il genitore che diviene cittadino estende automaticamente il proprio status al figlio convivente (come avviene in Francia); e ancora più importante è il canale già presente in altri paesi europei (Olanda, Spagna) e volto a stabilizzare agevolmente e senza requisiti le “terze generazioni”: verrebbe cioè attribuita la cittadinanza per nascita ai figli di stranieri a loro volta nati in Italia anche se non cittadini italiani, indipendentemente da qualsiasi requisito di residenza; e si tratterebbe, in Italia, di una norma di grande importanza viste le difficoltà che abbiamo sin qui frapposto alle seconde generazioni nel percorso verso la cittadinanza.

Vi è poi un secondo fondamentale aspetto che la battaglia dei due “iura” rischia di lasciare in secondo piano ed è quello dei non-nati in Italia, ma qui giunti in tenera età.

Qui il riferimento potrebbe essere la fissazione di una età minima di ingresso che consenta condizioni più agevoli rispetto a chi fa ingresso da adulto, ma il criterio più condiviso e più logico è piuttosto quello della partecipazione a un ciclo scolastico, restando però da decidere a quale ciclo si voglia fare riferimento: la citata proposta di legge di iniziativa popolare consente ipotesi alternative, nel senso che sarebbe sufficiente o la scuola primaria, o la scuola secondaria di primo grado (le medie) o la scuola superiore o quella professionale.

Anche in questo caso, il requisito potrà essere eventualmente di diversa entità e comprendere più cicli, ma certamente non potrebbe coprire l’intero ciclo della scuola dell’obbligo, dai 6 ai 18 anni,  che relegherebbe questo canale di accesso alla cittadinanza in un ambito del tutto marginale.

 

  1. La questione della cittadinanza per gli adulti

Queste dunque, in sintesi,  le vere questioni che riguardano le cosiddette “seconde generazioni” la cui soluzione dunque esclude, come ben si vede, ogni immediato e semplicistico “effetto di attrazione”: tanto più che i limiti all’ingresso restano pur sempre fissati da altre norme (quelle in materia di immigrazione, che come noto in Italia andrebbero radicalmente riviste) sicchè il discorso sulla cittadinanza non ha alcuna connessione con il discorso sulla “quantità” di ingressi in Italia.

Cionondimeno, non va nascosto che la strada che verrà scelta ha naturalmente un effetto più vasto rispetto a quello sulle seconde generazioni, giacchè una facilitazione nell’accesso alla cittadinanza da parte del minore (sia esso nato o giunto precocemente in Italia) muta radicalmente anche la condizione dei suoi parenti più stretti, svincolandoli dalla loro condizione di precarietà: il genitore di italiano o comunque il parente convivente di italiano entro il secondo grado non può infatti essere espulso (art. 19 TU immigrazione) ed acquisisce quindi, anche se entrato irregolarmente,  il diritto di soggiornare sul territorio nazionale, salvi solo i motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato.

Ma questo effetto estensivo – lungi dal costituire una anomalia che possa essere agitata dai soliti paventatori di invasioni – attiene all’inevitabile e sacrosanta tutela della unità della famiglia che si costruisce attorno al nuovo cittadino (garantita dall’art. 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) e che – come ha ricordato anche la Cassazione in alcune recenti pronunce in tema di ricongiungimento familiare – deve necessariamente prevalere anche sul principio di “invalicabilità” del confine.

Infine, non va dimenticato che, al di fuori delle questioni riguardanti le nuove generazioni, restano una miriade di questioni che prescindono totalmente dalla diatriba ius soli/ius sanguinis, ma che sono di pari importanza, se non altro perché – come dimostra l’esperienza di altri paesi – la soluzione complessiva deve essere frutto di un delicato equilibrio tra i diversi canali di accesso, sicchè nessuno può essere considerato isolatamente.

In tale ambito pare difficile rivedere, se non marginalmente, il periodo minimo necessario alla acquisizione della cittadinanza dopo matrimonio con cittadino italiano, elevato da sei mesi a due anni dal “pacchetto sicurezza” del 2009 (anche gli altri paesi europei, Spagna esclusa,  si attengono a limiti non inferiori ai due anni); ma sarà invece sicuramente necessario mettere mano alla cittadinanza per naturalizzazione,  riducendo i requisiti di legale residenza, che sono attualmente di 10 anni per l’extracomunitario e di cinque anni per il comunitario, l’apolide o il rifugiato politico. La citata proposta di legge indica rispettivamente cinque e due anni; la Francia prevede per la generalità degli extracomunitari cinque anni o due per chi ha compiuto almeno due anni di studi universitari; la Germania otto anni; l’Olanda e il Regno Unito cinque anni; la Spagna dieci anni (ridotti però a due per i paesi del Sud America).

Prima ancora si tratta però di decidere se il percorso verso la naturalizzazione debba muovere da una condizione di mero interesse legittimo (nel senso che l’acquisizione della cittadinanza per naturalizzazione resterebbe – come ora è – una facoltà discrezionale dello Stato che rischia di lasciare lo straniero in balia di decisioni arbitrarie e di procedimenti dalla durata infinita) o trasferire questo canale di accesso nell’ambito dei diritti soggettivi: in altre parole, decorso il periodo di residenza richiesta, lo straniero acquisterebbe il diritto alla cittadinanza, salvo che esistano cause ostative oggettive (commissione di determinati reati ecc.); il tutto con evidenti vantaggi in termini di certezza del diritto, semplificazione delle procedure, sicurezza dei tempi di acquisizione.

Si pone qui, strettamente collegato a quest’ultimo tema delle “cause ostative”, la questione delle “verifiche” inerenti il livello di integrazione: esame di conoscenza della lingua; esame di conoscenza delle norme fondamentali dello Stato, livello di adesione ai valori fondamentali della Repubblica. Il punto è evidentemente delicatissimo perché attiene alla ampiezza del patto sociale, che non deve essere così invasivo da non poter accogliere le differenti identità, ma neppure tale da rendere l’adesione al patto civico un fatto meramente burocratico, specie in un contesto come quello Italiano dove il livello di condivisione di valori comuni appare, anche tra i vecchi cittadini, ampiamente al di sotto della soglia di allarme.

 

  1. Bene la cittadinanza, ma non diminuire i diritti degli stranieri

A dispetto della precaria salute di cui gode il governo Letta e del silenzio sul punto nel discorso di insediamento, sembra dunque plausibile o inevitabile – soprattutto in forza del prudente attivismo che anima il ministro Kienge – che nei prossimi mesi la questione cittadinanza giunga finalmente al centro del dibattito politico. Per quanto si vede in queste settimane,  il dibattito, come si è detto, non pare di elevato livello e presenta non pochi rischi.

Tra i molti, un rischio appare spesso sottovalutato: l’apertura di qualche spiraglio in più nell’accesso allo status di cittadino potrebbe relegare in secondo piano il tema della uguaglianza cittadino/straniero e rafforzare la nozione di cittadinanza come spada che divide, anziché come patto che unisce quanti condividono la sorte di una determinata comunità territoriale. In parole povere: socchiudiamo il recinto dei diritti e facciamo entrare qualcuno in più,  ma poi chiudiamo a doppia mandata.

Sarebbe una strada miope e pericolosa.

In una risalente sentenza (172/99), la Corte Costituzionale – chiamata a decidere se anche all’apolide potesse essere imposto l’obbligo di svolgere il servizio militare – aveva parlato di una “comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto, (che) accoglie e accomuna tutti coloro che, quasi come in una seconda cittadinanza, ricevono diritti e restituiscono doveri, secondo quanto risulta dall’art. 2 della Costituzione là dove, parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza”: era, ante litteram, la definizione di una “cittadinanza di residenza” che anni dopo ha fatto ingresso nel dibattito di sociologi e giuristi.

Recentemente la Corte d’Appello di Milano, facendo leva proprio su quell’autorevole precedente, ha stabilito che anche i giovani stranieri devono poter accedere al servizio civile nazionale, perché il diritto/dovere di contribuire alla “difesa” della collettività – intesa come contributo di ciascuno alla sua crescita civile – deve far capo a tutti coloro che, risiedendo stabilmente su un territorio, condividano di fatto i destini, gli interessi e i valori di quella collettività, indipendentemente dalla formale attribuzione dello status civitatis.

E’ peraltro l’intero ordinamento nazionale e comunitario che si orienta a delineare una condizione intermedia tra quella di cittadino e quella di straniero, inserendo sempre più spesso norme (tendenzialmente inderogabili) contenenti clausole di parità assoluta tra cittadini e stranieri: cosi beneficiano di clausole di questo genere in primo luogo i comunitari (art. 18 Trattato); poi i lungo soggiornanti (cioè i titolari di permesso di soggiorno a tempo indeterminato, tutelati dalla direttiva 2003/109) e i loro familiari; i rifugiati politici (direttiva 2004/83); i familiari extracomunitari di cittadini italiani o di cittadini comunitari (direttiva 2004/38); i titolari di “carta blu” (cioè i lavoratori stranieri che abbiano un titolo di studio universitario e che svolgano in Italia un lavoro altamente qualificato: direttiva 2009/50); gli stranieri appartenenti a paesi con i quali la UE abbia stipulato accordi contenenti clausole di parità di trattamento (ad es. marocchini, algerini, tunisini, turchi,  per quanto riguarda tutte le prestazioni sociali); e infine i lavoratori in generale – intesi come coloro che hanno fatto ingresso alla ricerca di lavoro – e i loro familiari, anch’essi protetti dal principio di parità contenuto nella convenzione OIL 143/75.

Contestualmente, la nostra Corte Costituzionale ha iniziato un percorso demolitorio delle differenze basate sulla cittadinanza che ha raggiunto il suo apice proprio negli ultimi anni: così la Corte ha  stabilito che nessuna differenza tra cittadini e stranieri è ammissibile per quanto riguarda il nucleo dei diritti essenziali della persona, includendo in tale nucleo anche alcune prestazioni sociali (sent. 187/10); che i diritti personali o sociali collocati al di fuori di tale nucleo possono essere differenziati, ma solo in base a un criterio di ragionevolezza (sent. 432/05) e che il mero criterio della cittadinanza non è mai un criterio di per sé ragionevole, nemmeno se correlato ad una certa durata della residenza, perché se la Pubblica Amministrazione individua un bisogno non può rispondervi limitando i destinatari soltanto a coloro che risiedono da un periodo minimo (sent. 2/2013).

Come ben si vede un’opera demolitoria sulla quale troppo poco si riflette e che ha rapidamente reso gli stranieri assai più uguali (sul piano giuridico) agli italiani di quanto sembra ritenere la coscienza comune.

Ora, se consideriamo che dei poco più di 5 milioni di stranieri presenti in Italia, un milione e mezzo sono comunitari e dei restanti  oltre il 50% sono lungo-soggiornanti, ci rendiamo subito conto che la grande maggioranza dei nostri “ospiti” è in realtà protetta da clausole di parità di trattamento: l’insieme dei diritti che ad essi fa capo è dunque pressoché lo stesso – diritti politici esclusi – di  quello dei cittadini, indipendentemente dalla acquisizione  dello status.

E’ per questo che il dibattito sulla cittadinanza non deve far dimenticare che ogni rigida divisione tra padroni di casa (siano essi di pelle chiara o di pelle scura) e ospiti è insufficiente a comprendere e gestire i problemi che abbiamo di fronte: che sono quelli di ospiti non più precari, ma di soggetti stabilmente parte della nostra comunità, anche se non vorranno o non potranno accedere alla condizione di cittadini.

Si prospetta dunque –  ed è anzi già iniziata, a prescindere dalla pigrizia del mondo politico – una stagione di nuovi patti, quello della cittadinanza e quello, per usare le parole della Corte Costituzionale, della “seconda cittadinanza”: la vera scommessa è che entrambi,  pur assolvendo compiti diversi, siano sufficientemente carichi di contenuto da non dare ulteriore spazio alla frammentazione sociale e a una sorta di “indifferentismo valoriale”,  ma nello stesso tempo non così invasivi da annullare quelle differenti identità che possono convivere e arricchirsi reciprocamente.

 

Alberto Guariso[1] 

 



[1] Avvocato dal 1988, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano. Dal 2000 è direttore della rivista di dottrina e giurisprudenza “D&L rivista critica di diritto del lavoro” edita in Milano dal 1980.

Ha fatto parte, nel 2000, della commissione di studio per la riforma del processo del lavoro, presso il Ministero di Giustizia. Dal 2005 è docente a contratto presso l’università di Brescia in diritto antidiscriminatorio. E’ presidente della associazione di volontariato “Avvocati per niente – onlus” attiva in Milano dal 2005 nel campo del contrasto alle discriminazioni e della tutela dei soggetti a rischio di esclusione sociale.  E’ membro di ASGI, Associazione studi giuridici sull’immigrazione. E’ coautore di diversi volumi collettivi, da ultimo Il nuovo diritto antidiscriminatorio, 2007, Giuffrè; La Carta dei diritti dell’Unione Europea, Chimenti, 2009; Discriminazione al lavoro, in uscita presso Franco Angeli; Welfare e Stranieri, in uscita presso il Mulino. E’ redattore della rivista “Appunti di cultura e di politica” edita in Milano e dal 1990 al 2000 è stato componente in missioni internazionali di monitoraggio elettorale in Nicaragua, Sud Africa, Bosnia, Russia, Palestina.

guariso@polizziguariso.it

 

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