La critica all’individualismo e le coppie «di fatto»

| 3 Comments

La forte prolusione del card. Bagnasco all’ultimo consiglio permanente della Cei del 28 gennaio merita qualche riflessione. Forse come mai prima d’ora è emersa una perorazione significativa a considerare l’ideologia individualistica come problema dominante nella nostra attuale società: «La madre di tutte le crisi è l’individualismo». E’ un testo che si può affiancare a un’altra forte proposta di riflessione come quella del gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, che ha motivato un’opposizione alla legge Hollande sul cosiddetto «matrimonio per tutti», con un  richiamo profondamente antropologico alla simbologia biblica.

E’ importante che le culture religiose parlino in questo modo, facendo appello a dimensioni profonde dell’essere umano e invitando tutti a un ragionamento accorato sui fondamenti della civiltà. Non si dovrebbe più poter considerare questi riferimenti soltanto delle patetiche frontiere «confessionali», oppure delle ambigue difese di una «legge naturale» piuttosto periclitante. Sono veri e propri appelli alla profondità dell’umano.

Il problema politico, a me pare, nasce proprio quando questi appelli si ascoltano con profonda commozione. Infatti, è difficile immaginare di poterli tradurre in regole della convivenza umana semplicemente per deduzione, quasi che già al loro interno contengano le loro concretizzazioni. Parliamo ad esempio di matrimoni e convivenze. In effetti, tali prese di posizione conducono di solito a una serie di semplici negazioni nei confronti di quelle proposte di nuova regolazione delle convivenze che sono all’ordine del giorno del dibattito civile in Europa e negli Stati Uniti, quasi che – sostiene ancora il cardinal Bagnasco – esse nei confronti della famiglia siano tutte «modelli alternativi che la umilierebbero alimentando il disorientamento educativo».

Credo bisognerebbe aprirsi a modi diversi di ragionare, consoni a una visione matura di quello che specificamente la politica e le istituzioni, e quindi le leggi, possono e non possono ottenere in questa direzione. Il punto di partenza dell’analisi è infatti proprio la crisi di quell’ideale antropologico di famiglia cui il cardinale si richiama. Se oggi non ci si sposa più e i matrimoni sono in crollo verticale (religiosi o civili che siano) non è perché le leggi abbiano mutato il costume: la secolarizzazione è palesemente più avanzata nella società che nella legislazione. Di fronte a questo dato di fatto, empirico, che senso ha affermare come «non negoziabile» un valore già abbondantemente negoziato nelle coscienze? O limitarsi alla deprecazione dei tempi?

Non sarebbe approccio più sensato quello di prendere atto di questa situazione e provare ad accompagnare verso una maggiore stabilità le molte relazioni precarie e fragili, affidate al semplice atto di volontà nel presente ma senza impegni per il futuro? La costituzione italiana, infatti, personalista e non individualista, tutela la famiglia come valore in questa direzione, come promette tutela nei confronti di tutte le «formazioni sociali» in cui la persona esprime la propria personalità. E quindi, non sarebbe sensato prevedere modelli un po’ più stabili rispetto al nulla, che tutelino i diritti di chi convive ma anche esprimano e facciano accettare una equilibrata serie di doveri, e quindi che permettano soprattutto al partner debole della relazione di trovare appigli nel momento della eventuale crisi? Tali formule non sarebbero concorrenze a buon mercato al matrimonio: anzi, per qualcuno costituirebbero ancora un vincolo sociale troppo forte alla libera scelta di coppia. Ma per molti potrebbero essere un gradino di un cammino di stabilità e impegno di fronte alla società, e quindi un avvicinamento concreto al valore, non una sua negazione. La proliferazione attuale dei «registri delle unioni civili» nei comuni, nata comprensibilmente per aggirare l’assenza di una legislazione, non appare una soluzione felice nel medio periodo, anche perché essi rischiano di apparire (al di là della buona volontà di chi li ha istituiti) semplici modalità per acquisire tutele senza offrire niente in contraccambio.

Perché mai poi queste forme di riconoscimento e di impegno dovrebbero essere escluse per le persone dello stesso sesso che convivono in una relazione affettiva? Certo, il linguaggio conta e richiama la struttura antropologica profonda. Per questo personalmente trovo convincente l’idea di non chiamare «matrimonio» un istituto civile che riconosca le unioni omosessuali. E’ un legame diverso, e tale differenza dovrebbero riconoscerla tutti, soprattutto per il riferimento alla strutturale diversità sessuale nell’atto procreativo. Non si possono invocare le provette e la fecondazione assistita per equiparare quello che naturalmente è diverso. Ma diverso non implica disconoscimento, assenza di regole, disinteresse sociale nei confronti della scelta di due persone. Anche in questa direzione, invece, con appropriate distinzioni, il riconoscimento e la tutela potrebbero portare a cammini solidi di unione stabile, certamente da apprezzare come valore, in un quadro di principi come quelli tutelati dalla costituzione.

3 Comments

  1. A proposito di linguaggio, caro Guido, mi hai fatto ricordare che un mio amico sacerdote buontempone, è da anni che mi dice che le unioni dello stesso sesso, si devono chiamare “patrimoni” e non “matrimoni” !
    Se l’esigenza è quella di tutelare e riconoscere legittimi diritti di convivenza, tanto vale , aggiunge, non chiamare matrimonio quello che matrimonio non è.
    Mettendo da parte in queste unioni (patrimoniali…) l’atto procreativo e il compito della madre nel tramandare la vita, e rimarcando invece il compito (non solo del padre) nel tramandare e dividere con qualcuno i beni materiali posseduti.
    Ma si tratta di un sacerdote buontempone… e va capito. Un saluto
    Nino Labate

  2. Questo sacerdote buontempone è un genio!
    Dalla battuta umoristica se ne può trarre anche un disegno di legge. Magari senza troppo litigare…
    Franco Agnesi
    (Sacerdote a cui piacerebbe essere più buontempone)

  3. Penso che la “grande dirimente”, qualunque sia la decisione che il nostro parlamento adotterà su questi temi “sensibili”, sia l’amore. Se due si amano veramente, profondamente, a imitazione dell’Amore che è il vero nome del Signore, se non cercano il possesso l’uno dell’altro o semplicemente il piacere del corpo; ebbene, se tutto questo si dà è già matrimonio; e l’interrompere questo legame è già divorzio. Mi sembra sensato guardare ai problemi come si dice nel quarto e quinto alinea dell’articolo riportato,per rispettare anche le idee dei non credenti.

Lascia un commento

Required fields are marked *.