La bisaccia di Giovanni: tra binari, poesie, sorrisi e cime

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In ricordo di Giovanni Bianchi (24 luglio 2017-24 luglio 2019)

 

Primissimi anni duemila. E’ sabato, molto presto. Il treno regionale per Milano sta per raggiungere i binari della mia Parma. Ho calcolato i tempi e riservato anche un po’ di margine, ci tengo ad arrivare in orario.

Dopo averlo ascoltato in un congresso, ho deciso di darmi l’occasione di risentirlo e ho scelto di tarare, universitario fuori sede, il mio ritorno mensile dal confine orientale del venerdì, proprio in corrispondenza del suo incontro milanese di dialogo e confronto.

Giovanni Bianchi, deputato che sta vivendo il passaggio dal Partito Popolare alla Margherita, una volta al mese incontra amici ed elettori proprio il sabato mattina, in un luogo particolarmente significativo per il cattolicesimo sociale meneghino: la sala Verde della Corsia dei Servi.

Fino a quel giorno per me rappresentava questo. Ma negli incontri c’è sempre un prima e un dopo.

Da allora in poi, Giovanni, per me, sarà molto di più. Non solo, ripercorrendo il tempo, il presidente nazionale delle Acli che gestì la storica “riconciliazione” con la Santa Sede o il presidente del Partito Popolare che riuscirà ad arginare la deriva buttiglioniana/berlusconiana e poi, come riconosciuto anche da Romano Prodi, ad essere uno dei padri dell’Ulivo. E nemmeno, tornando ancor più alle origini, l’animatore con i sindacalisti della “nuova Cisl” del Centro Operaio di Milano, o, avvicinandoci al tempo di ora, il custode attento e innovatore della memoria e dell’attualità della Resistenza di ispirazione cristiana, compresa quella “senza fucile”.

Molto di più. Giovanni, per me e per tantissimi altri prima e dopo di me, sarà esempio e maestro, anomalia positiva nei Palazzi e sorpresa affidabile e preziosa, in ogni luogo.

Per me, nel breve periodo condiviso di compresenza romana, anche un sostegno e una preziosa guida di accostamento ai segreti, alle meraviglie, alle trattorie della capitale. Perché Giovanni era questo: una quotidianità che declinava momenti genuini, semplici, condivisi.

Giovanni era, è, anche il suo sorriso. Il sorriso dei politici appare ed è spesso stampato, strumentale, superficiale. Il sorriso di Giovanni ti entra dentro, accompagna le parole, i concetti, i gesti. Ora, a due anni di distanza dal suo veloce ascendere, disegna e riveste di verità i ricordi. Pur avendolo anche incrociato in situazioni concitate nel recinto della politica partitica o aver vissuto di riflesso i momenti non entusiasmanti della sua inaspettata non ricandidatura nel 2006, io, sinceramente, non ricordo un incontro con Giovanni senza il suo sorriso.

Certo, esiste anche la pioggia, quella gelida.

Ci siamo scritti in tempi contemporaneamente drammatici per lui e bellissimi per me, momenti di morte e di nascita, di straziante straniamento e, in parallelo, di inebriante stupore e, insieme, di amore, paternità, infinito.

Ha ricordato don Virginio Colmegna che, oltre che una figura importante di cultura, azione, impegno sociale e politico, Giovanni è stato per noi che lo abbiamo conosciuto un testimone prezioso di una religiosità profonda, vissuta e praticata con coerenza e rigore di vita, custodita nel silenzio della preghiera e, aggiungerei, manifestata con discrezione e capacità inclusiva anche nella dimensione pubblica.

La sua vita, è stato detto, è stata una: “preghiera operosa”. Lui che aveva scritto, a metà degli anni ottanta del Novecento, un bellissimo e attualissimo testo: “Dalla parte di Marta, per una teologia del lavoro”, teso al superamento dei confini falsificatori tra vita attiva e contemplativa.

Ti sono grato, Giovanni di aver preso quel treno. Di aver camminato verso di te, una prima volta e poi molte altre volte. In occasioni diverse sei stato tu a camminare verso noi giovani, ai confini della politica, magari in una scuola di formazione tenuta vicino ai luoghi prediletti di Monte Sole, dove riposava il tuo maestro: Giuseppe Dossetti.

Giovanni, figura unica, amatissima da chi ti ha conosciuto direttamente e ha camminato con te.

Non c’erano tanti politici al tuo funerale, è vero. Come è vero che, Giovanni, con il tuo repentino “andare” hai lasciato un vuoto.

Se una certa politica dell’istantaneo sembra averti dimenticato, probabilmente è perché non ha più il linguaggio per comprendere la tua discreta, profonda grandezza. La tua cultura vissuta.

Giovanni, ci hai insegnato e ci insegni come vivere e riflettere la fede. Come testimoniare e tramandare, rendere viva la cultura dell’impegno, innaffiando continuamente le nostre radici senza rinchiuderle in un museo. Come si può essere popolari, parte viva del popolo, senza perdere le mani protese verso il mondo.

Ci hai insegnato che occorre salire per i sentieri più alti per poi ridiscendere, restituire contaminando le diverse parti del sè, occuparsi della città dell’uomo, abitare piazza e segreto della vita.

Ricordo la cena “familiare” a Sesto San Giovanni, dove ti ho raggiunto una sola volta, l’appartamento bellissimo e modesto, le pareti che, da sole, sgretolavano tutte le generalizzazioni su casta e privilegi.

Giovanni, ci racconti di come si può essere legati alla propria terra, quella Sesto dapprima agricola e poi operaia, e successivamente terziaria e quaternaria, pur rimanendo consapevoli cittadini della megalopoli globale, impegnandosi concretamente e con visione nelle alterità, siano esse i Balcani in fiamme o l’Africa.

Le beatitudini, ha detto sempre don Colmegna, facevano parte della tua bisaccia di pellegrino di pace.

Ci dicevi, Giovanni, che nella politica senza professionalità c’è bisogno di fermarsi, di una pausa, di silenzio, di ascoltare la voce di Dio, almeno per chi, nelle diverse dimensioni, continua a credere e a crederci.

Non si può ricordarti Giovanni senza ricordare la tua poesia e le tue poesie. Quelle di David Maria Turoldo e quelle autografe, a volte disorientanti, inattese.

Scriveva Turoldo, tuo poeta prediletto, ne “La terra non sarà distrutta”: E’ come se fosse una creatura pia, questo vino. Quest’anno l’ho pigiata io, l’uva, con questi miei piedi duri. Ci è costato sudore e fatica, quest’anno come non mai”.

Stare dalla parte di Marta, significa stare dalla parte del sudore e della fatica, non rifugiarsi mai in un intellettualismo fine a se stesso, ma agire, insieme agli ultimi, il Vangelo universale della nonviolenza.

Fatica e sudore. In questo tempo in cui continuerebbe a chiedersi David Maria: “Perché dirci fratelli, se siamo tutti divisi?”

“Un tempo scarso”, come la tua poesia, il Salmo di Segantini che oggi Silvia ha voluto donarci.

Sono come la pastora di Segantini,

un po’ imbambolato e un poco zoccolato:

guardo a vista l’orizzonte.

Sciocco! Mi dico,

torna in te stesso.

Sciocco e tardo a capire:

ci sono più cime nel tuo cuore.

Là è la tua scalata.

 

Qui,  ancora insieme, è la nostra scalata…

 

Francesco Lauria

 

 

 

 

 

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